venerdì 30 marzo 2012

Biforcuta e bicefala

  La notizia del giorno, come voi tutti saprete, è ovviamente la ricomparsa in Danimarca dopo i rigori dell'inverno del rarissimo esemplare di vipera bicefala avvistata per la prima volta ad ottobre e data a suo tempo per spacciata dai naturalisti. Ne parlava, questa mattina, Repubblica, dedicandole una gallery che potete andarvi a vedere cliccando qui

  Confesso che mi fa un certo effetto vedere in foto un esemplare che sembra uscito dai trattati teratologici rinascimentali, come il De Monstruorum natura caussis et differentiis di Fortunio Liceti (1577-1657), da cui traggo l'immagine sottostante in cui un esemplare analogo alla vipera danese è raffigurato insieme ad altri degni rappresentanti di un gustoso serraglio di freaks (si riconosce chiaramente l'agnello tricefalo segnalato nel 1577, anno di comete e di prodigi; per gli altri sono più in difficoltà). Di questa serpe si dice solo che fu vista "altrove" da Venezia - cui si riferisce l'aneddoto opposto, rievocato subito prima, dei due cani uniti sotto un'unica testa (che potrebbero essere quelli sullo sfondo) - nel 1575. Poco prima, tuttavia, Liceti aveva già scomodato l'autorità di Aristotele, il quale, in un capitolo dedicato alle anomalie biologiche nel De generatione animalium, citava appunto il caso del serpente a due teste (IV, 4, 770a 24-25). La notizia che giunge dalla Danimarca mi spinge a pensare che allora, forse, non erano poi tutte balle...

Immagine tratta da Fortunio Liceti, De monstris,
editio novissima, Patavii, 1668, p. 22.


 Ma più interessanti ancora, sebbene meno fantasmagoriche, sono le prime pagine delle Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano dentro gli animali viventi di Francesco Redi (1626-1697), uno dei più grandi scienziati italiani ed europei del Seicento (per intenderci, è quello che con un esperimento semplice semplice confutò la tradizionale teoria della generazione spontanea degli insetti dalla materia in putrefazione - o almeno le assestò un colpo decisivo). Redi la prende alla lontana risalendo sino all'Idra di Lerna, celeberrimo sauro dalle sette teste affrontato da Ercole, per concludere che non è poi così raro imbattersi in animali del genere, di cui parlano personaggi di indiscussa affidabilità (un esemplare imbalsamato era conservato nel museo del grande naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi). Egli stesso racconta che
questo presente anno [siamo nel 1684], essendo in Pisa colla Corte, ebbi fortuna di vedere, e di maneggiare un simile Serpentello con due teste, trovato, e preso nella stessa Città, mentre se ne stava lungo la riva d'Arno a riscaldarsi disteso al Sole nel bel mezzo di Gennaio.
La povera creatura che se ne stava spaparanzata a godersi il pallido sole invernale non sapeva di essere caduta nelle mani di un incallito indagatore della natura, curioso come tanti altri al suo tempo di ogni eccezionalità e stranezza. Senza pensarci su due volte, continua Redi, 
volli farvi sopra qualche curiosa osservazione, e particolarmente nel dare un'occhiata per passatempo all'interna fabbrica, ed all'interno ordine, e posture delle viscere; giacchè da veruno di coloro, che [h]anno menzionati i serpentelli da due teste, non n'è mai, ch'io sappia, stata fatta parola.
  Redi ebbe lì per lì l'impressione che si trattasse appunto di «una Viperetta» (specie a cui aveva dedicato un trattatello giusto vent'anni prima e che perciò conosceva molto bene). Due considerazioni, però, lo indussero a ricredersi. La prima è che la serpe «non portava in bocca quei denti maggiori, o canini, o maestri, che portano le vipere, racchiusi nelle loro guaine»; la seconda è che «intorno a' due colli, immediatamente dopo le due teste, avea una striscia bianca lattata, che cingea l'uno, e l'altro collo in foggia di due collarini, il che non [h]anno le Vipere». Tale serpe «di poco passava la lunghezza di due de' miei palmi, e nella grossezza poteasi dir simile al dito minore della mano di un uomo». Di colore chiaro, rugginoso, tempestato di macchie nere, aveva appunto due teste perfettamente uguali, due bocche con altrettante lingue biforcute e due occhi per ogni testa; e poi due trachee, due polmoni, due cuori con i rispettivi canali sanguigni (con il destro un po' più grande di quello sinistro), due esofaghi e due stomachi, che infine confluivano in un solo e comune intestino.  Anche di questo animale possediamo un disegno, un po' più accurato del precedente essendo frutto dell'indagine diretta del nostre Redi.

Immagine tratta da Osservazioni di Francesco Redi Accademico
della Crusca intorno agli animali viventi che si trovano dentro
gli animali viventi,
Firenze, 1684, tavola prima.

  Per la verità Redi per condurre le sue indagini anatomiche aspettò che la vipera morisse, cosa che accadde nel giro di poche settimane. Tuttavia, lo scienziato lascia intendere di aver forse accelerato il corso delle cose.
Quando questo serpentello si morì, il che avvenne poco dopo il principio del mese di Febbraio, e la sua morte avvenne forse per gli strapazzi da me fattigli nel forzarlo a mordere alcuni animaletti, come appresso riferirò, ebbi campo di vedere, che morì prima la testa destra la mattina alle quindici ore, e la sinistra testa morì lo stesso giorno sett'ore dopo la destra.
  Che cos'aveva fatto Redi?
Molti giorni prima, che morisse, volli accertarmi, se il suo morso era velenoso: Onde operai, che mordesse con l'una, e con l'altra bocca replicatamente un piccion grosso, il quale non solo non ne morì; ma non ne ebbe male alcuno, per lo meno, apparente. Lo stesso avvenne a quattro Passere, e a due Calderugi di gabbia.
   Questo risultato lo incuriosì molto, poiché sapeva per esperienza diretta che, anche se vi erano animali che durante l'inverno rilasciavano il veleno per riprenderlo a primavera, le vipere non solo lo mantenevano, ma il loro siero era così potente da colpire mortalmente anche quattro giorni dopo la morte.
Quindi è che mi venne pensiero di voler in qualche altra congiuntura osservar minutamente, e a bella posta quanto tempo dopo morte conservano le Vipere il veleno, facendone replicate esperienze col tener minuto conto dell'ore, al che io non avea badato nelle mie prime Osservazioni intorno Vipere.
  É questa l'occasione per cominciare una nuova ricerca, in cui ci si è già dimenticati della portentosa vipera bicefala e si intraprendono altre indagini, cui verrà dedicato il resto dell'opera. Perchè - ed è questo il bello - se si hanno gli occhi per vederlo, come i nostri scienziati della prima modernità, tutto è un portento meravigliosamente degno di essere indagato.

mercoledì 21 marzo 2012

Un caso di spionaggio bioartigianale

  Si legge nelle antiche Historie de' Filosofi che il sapientissimo Apollonio Tianeo, nonostante che fosse letteratissimo e dottissimo Filosofo e molto esperto nelle cose della Naturale Filosofia, si partì di Grecia, passò il mar Rosso, caminò le grandi Indie e peregrinò quasi tutto il mondo e non ad altro effetto che per haver intiera cognitione di tutte quelle cose che a' Filosofi si appartengono. Non dirò di Hippocrate Greco, di Galeno Pergameno, di Plinio, di Trogo, di Laertio e infiniti altri, quai tutti caminarono il mondo per tale effetto: e io ad imitatione di questi tali, già molti anni sono che mi partì della mia dolce patria Bologna e cominciai a caminar la terra e solcare il mare, vedendo molte città e Province e praticando con diverse qualità di gente, medicando molti huomini e donne di diverse sorti di infermità: e fra questo tempo, ho voluto avere cognitione di tutte le scienze e arti che in queste nostre parti di Europa si usano, come nel mio Specchio di Scientia universale si può vedere. E tutto questo ho fatto non ad altro effetto se non per spogliarmi della ignoranza, nella quale molti siamo involti: e vestirmi di virtù e conoscenza delle cose, praticando sempre con Reverendi Theologi, con Filosofi, Medici, Cirugici, distillatori e tutte sorti di esperimentatori: mediante i quali sono interamente venuto prima in cognitione della santa fede cattolica del nostro Signore Christo Giesù e poi della filosofia e altre scienze e arti, delle quali ho conosciuto la verità del tutto; e subito venuto in tal cognitione, mi son messo a scrivere gli otto volumi, quali ho dato in luce, scoprendo in essi molti abusi e mostrando la verità a tutti, e massime nella medicina e cirugia, arti le più importanti di tutte l'altre, perciò che con quelle si conserva la vita degli huomini.

Ritratto di Fioravanti
  Comincia così, dopo un'eterna e vagamente fantozziana carrellata di epistole dedicatorie (nell'ordine: alla Signoria di Lucca, agli "huomini eccellentisimi in diverse professioni quali al presente vivono", al molto magnifico dottor Alfonso Barozzi ferrarese, ai magnifici scolari Artisti di Padova, all'eccellentissimo dottor Girolamo Capo di Vacca, al dottor Bernardin Trivisano, al molto magnifico dottor Francesco degli Alessandri di Asti, all'eccellentissimo dottor Decio Bellobuono napoletano, agli "huomini eccellenti in diverse professioni", evidentemente diversi da quelli di prima, al sacrosanto Collegio degli Artisti dell'alma Bologna, ai magnifici scolari dello studio dell'alma Bologna, al maestro dottor Conte di Monte vicentino) il Tesoro della vita humana del medico bolognese Leonardo Fioravanti (1518-1588), stampato per la prima volta a Venezia nel 1570. Fioravanti è un personaggio interessantissimo: un po' medico un po' avventuriero, un po' filosofo un po' cialtrone, guascone d'indole e chiacchierone per vocazione, per circa un decennio, dal 1548 al 1558, risalì la penisola italiana dalla Sicilia al Veneto cimentandosi tra le altre cose come medico militare nella sfortunata spedizione di Tripoli da parte dell'esercito imperiale (1551) e come medico cortigiano in alcune ricche case di diplomatici accreditati presso la corta papale. Stabilitosi a Venezia, cominciò a divulgare con grande acume editoriale i propri scritti, accreditandosi come titolare di un vastissimo sapere maturato sul campo attraverso centinaia di esperienze e di incontri effettuati nel corso nei suoi viaggi. In pagine animate da un'eccezionale sicurezza di sé, Fioravanti promette di curare le malattie più pericolose grazie a rimedi da lui stesso escogitati, a cui appioppava nomi misurati come quinta essenza, olio philosophorum, lattuario angelico e magna medicina (capace, a suo dire, di guarire nientemeno che tutte le infermità).

  Le opere di questo medico, scritte in un italiano freschissimo e così piene di vita vissuta, andrebbero lette direttamente come una sorta di romanzo picaresco (e per chi ne ha voglia, grazie a Google Books, è possibile farlo con relativa comodità). In alternativa, esiste una bella biografia di Piero Camporesi che, in omaggio a un'espressione tipica di Fioravanti presente anche nel passo che ho citato in apertura, si intitola Camminare il mondo. Dei mille e uno episodi che si potrebbero ripescare da quel pozzo di aneddoti, ne ho scelto qui uno in particolare, che ho sempre trovato curioso e che dà un'idea delle malizie che caratterizzano il mondo degli artigiani e dei tecnici del '500.

Veduta di Tropea, oggi
  Alla fine del capitolo 26 del secondo libro del Tesoro, messer Leonardo racconta che, prima di recarsi da Messina a Napoli, com'era nelle sue intenzioni, decise di passare per Turpia - ossia Tropea - attiratovi dalla fama di due fratelli, Pietro e Paolo, «huomini nobili e facoltosi in quella città, e cirugici dignissimi, i quali facevano il naso a coloro che per qualche accidente l'havevano perduto». Erano costoro infatti gli eredi di una dinastia di medici, quella dei Vianeo, che aveva saputo guadagnare rinomanza europea perché gelosissima depositaria di quello che nella lingua del tempo veniva definito un "secreto", ossia (riprendo dal Vocabolario della Crusca del 1626) «qualche ricetta, o modo saputo da pochi, d'operar qualche cosa». Siamo in un'epoca in cui tecnici di vario genere cercano di sopravvivere mostrando di possedere capacità che altri non hanno (lo stesso Fioravanti scrisse un Compendio de' secreti rationali). Si tratta in molti casi di presunte competenze astrologiche o magiche, in altri di conoscenze relative ai propri settori professionali, dalla matematica alla medicina: perfino il metodo di risoluzione delle equazioni cubiche diventa occasione per pubbliche tenzoni, non a colpi di spada bensì di problemi matematici. Chi invece continuava a risolvere le questioni alla vecchia maniera cavalleresca del duello (siamo pur sempre in una società nobiliare) doveva spesso fare i conti con tagli, sfiguramenti e vere e proprie mutilazioni che potevano rendere difficoltosa la vita di società. Ad essi si rivolgevano appunto i fratelli Vianeo, chirurghi estetici ante-litteram, ideatori di una vera e propria forma di rinoplastica naturale che fruttava loro non pochi quattrini. Figurarsi se Fioravanti, avido come s'è detto di nuove conoscenze e smanioso di metter le mani su ritrovati altrui, non faceva loro visita, «con animo di vedere se io poteva in qualche modo sapere come questi tali operavano nel fare tale operatione». Detto in altri termini, per rubar loro il brevetto.

  A questo punto la storia assume un contorno romanzesco. Fioravanti sapeva benissimo che se avesse rivelato la sua identità e la sua professione poteva tranquillamente scordarsi di strappare la minima informazione ai due colleghi. Decise perciò di presentarsi loro, in compagnia di un servo, nelle vesti di un gentiluomo bolognese giunto fin lì per conto di un ipotetico amico lombardo cui era stato tagliato via il naso nella battaglia di Serravalle (2-4 giugno 1544) e che era perciò interessato a un eventuale intervento chirurgico. Venuto a sapere che i due medici calabresi avevano ricevuto lettere che annunciavano l'arrivo del figlio di un senatore bolognese rimasto ferito in uno scontro privato, Fioravanti affermò di voler salutare il concittadino e, con questa scusa, prese a frequentare quotidianamente casa Vianeo, dove gli fu proposto di assistere ai trattamenti che vi venivano effettuati, giacché nessuno temeva che un nobiluomo potesse essere interessato a replicarli. Il suo vero colpo di genio fu comunque quello di manifestare aperto disgusto per quella pratica, stornando così ulteriormente ogni sospetto; e se una volta girava la faccia, quella dopo gettava una fugace occhiata professionale memorizzando i vari passaggi della procedura: «fingendo di non poter veder tal cosa, mi voltava con la faccia a dietro, ma gli occhi vedeano benissimo. E così viddi tutto il secreto, da capo a piedi e lo imparai». Fu con questo stratagemma deontologicamente non proprio corretto che i fratelli Vianeo persero la loro posizione di monopolio. O almeno così Fioravanti ce la racconta, dal momento che - pare - i suoi tentativi di ripetere l'intero processo non devono essere stati particolarmente efficaci. Ma la pubblicità è l'anima del commercio e quale miglior sistema di autopromozione che raccontare di avere appreso il proprio metodo direttamente dai chirurghi più famosi del tempo?

  Sì, ma di che si trattava esattamente? - diranno i miei trecentoventiquattro lettori. Lascio la descrizione allo stesso Fioravanti:

la prima cosa che costoro facevano ad uno quando il volevano fare tale operatione lo facevano purgare e poi nel braccio sinistro tra la spalla et il gomito, nel mezo pigliavano quella pelle con una tenaglia, e con una lancetta grande passavano tra la tanaglia et la carne del muscolo et vi passavano una lenzetta o stricca di tela e le medicavano fin tanto che quella pelle diventava grossissima. E come pareva a loro che fosse grossa a bastanza, tagliavano il naso tutta pare e tagliavano quella pelle ad una banda e la cusivano al naso e lo ligavano con tanto artificio e destrezza che non si poteva muovere in modo alcuno fin tanto che la detta pelle non era saldata insieme col naso. E saldata che era, la tagliavano a l'altra banda e scorticavano il labro della bocca e vi cusivano la detta pelle del braccio e la medicavano fin tanto che fosse saldata insieme col labro. E poi vi mettevano una forma fatta di metallo, nella quale il naso cresceva a proportione e restava formato ma alquanto più bianco della faccia. E questo è l'ordine che questi tali tenevano nel fare i nasi. E io lo imparai tanto bene quanto loro istessi. E così volendo lo saprei fare, e è una bellissima pratica e grande esperienza.

post scriptum: rileggendo per bene quest'ultimo brano, non propriamente limpido, dopo un conciliabolo con un amico, siamo giunti alla conclusione che forse Fioravanti non aveva visto poi così bene... per la gioia dei suoi pazienti...

giovedì 8 marzo 2012

L'arca di Blaise

 Dopo avermi ispirato il contenuto del post precedente, Jean Bodin torna sul luogo del delitto e mi offre l'occasione per introdurre in queste pagine quello che è uno dei miei eroi cinquecenteschi preferiti, un personaggio in realtà assai poco raccomandabile che, però, con un solo gesto, merita che la sua fama duri fin che il mondo lontana. Il nome di Blaise d'Auriol dirà credo assai poco ai miei appassionati lettori, a meno che non rammentino i miei ultimi auguri di Natale, ospitati su un altro blog, in cui vi facevo un rapido accenno. Del resto, non diceva assolutamente neanche a me, prima che mi ci imbattessi scorrendo il testo di una relazione tenuta all'Académie des Sciences, Inscriptions et Belles-Lettres di Tolosa il 22 febbraio 1906 e poi stampata nel sesto volume delle «Mémoires» della suddetta Accademia, di cui recuperai una copia in non ricordo quale biblioteca ai tempi della tesi di laurea. L'articolo offriva - come da titolo - un quadro della «réaction universitaire à Toulouse à l'époque de la Renaissance», ovvero uno spaccato dello scontro che caratterizzò la vita intellettuale tolosana tra gli ambienti più retrogradi della locale Università - che allora era uno dei maggiori centri di studio del diritto in Francia - e i più avanzati circoli umanistici, le cui proposte di riforma scolastica erano considerate da molti come una sorta di cavallo di Troia per veicolare le assai più perniciose tesi luterane tra le mura dell'istituzione che era nata, tre secoli prima, come roccaforte dell'ortodossia nelle terre degli Albigesi.

E.Schrom, Toulouse, St.Etienne (1967)
Su questa piazza si consumò il rogo di Caturce
  Le tensioni raggiunsero toni davvero drammatici all'inizio degli anni '30. C'è chi fu imprigionato e poi espulso dalla città (Etienne Dolet, che ricambiò parlando di Tolosa, in una sua lettera, come di «una città più barbara dei paesi abitati dai Geti e dagli Sciti»); chi fu condannato a salatissime ammende e alla pubblica abiura (come Jean de Boyssoné); chi, infine, pagò con la morte sul rogo, come Jean Caturce, baccelliere in diritto civile, arso vivo il 23 giugno 1533 (la motivazione della condanna non è mai stata chiarita del tutto: sembra che, in occasione di una festa religiosa - l'Epifania o Ognissanti - avesse assunto degli atteggiamenti giudicati "luterani", non foss'altro perché avrebbe sostituito un'invocazione religiosa a una formula di augurio rivolta al Re). Con la consueta salacia, richiamandosi scopertamente a quest'ultimo episodio, François Rabelais, che era amico personale di alcune vittime della repressione, racconta nel Pantagruel che il suo gigante, giunto un giorno a Tolosa nel suo girovagare per le terre di Francia, vi «imparò assai bene a ballare e a tirar di scherma con lo spadone a due mani, com'è uso degli studenti di quella università; ma come seppe di un'altra loro usanza ch'era quella di bruciar vivi i professori come aringhe salate da affumicare, non vi rimase un minuto di più. Dio non voglia - si disse - che tocchi anche a me una sorte del genere. Sono già abbastanza assetato di natura senza bisogno di accaldarmi di più» (Pantagruele, V; trad. di A.Frassineti).

  In questa storia Blaise d'Auriol rappresenta l'uomo d'ordine e d'apparato, l'espressione tipica del ceto conservatore e tradizionalista. Nato a Castelnaudary, nel Rossiglione, intorno al 1470, da famiglia nobile e ricca, il nostro Blaise percorse tutti i gradi della carriera accademica, seppe guadagnarsi una qualche notorietà con strumenti anche spregiudicati (per dire il personaggio, basti dire che pubblicò col proprio nome un poema arcaizzante che si sarebbe poi scoperto essere stato copiato alla lettera da un manoscritto inedito del principe poeta Charles d'Orléans, morto una cinquantina d'anni prima), divenne professore di diritto canonico e rivestì anche importanti incarichi istituzionali, alternando la pubblicazione di poesie devozionali a fermissime prese di posizione nei confronti di ogni disordine studentesco. Poiché il 1 agosto 1533, in occasione della visita a Tolosa del re Francesco I, fu incaricato dall'Università di impetrare con una richiesta pubblica al sovrano il diritto per lo Studio di nominare cavalieri, è del tutto probabile che un mese e mezzo prima fosse presente sul palco d'onore ad assistere compiaciuto all'esecuzione di Caturce.

  Fin qui, insomma, non c'è nulla in questo personaggio un po' meschino che possa catturare un grammo di interesse. Tuttavia Auriol aveva uno scheletro nell'armadio assai più difficile da nascondere di un misero plagio letterario - ed è qui che comincia la sua fortuna postuma, destinata ad essere ravvivata ancora nel '700 da Voltaire, perché perfidamente alimentata, lui ancora vivente, da quanti non l'avevano per nulla in simpatia. Tra questi c'era anche Jean Bodin. Il quale rievoca in un passaggio dei Six Livres de la République la grande paura che aveva attraversato l'Europa in vista della grande congiunzione di Saturno, Marte e Giove prevista per il febbraio 1524. Poiché tale congiunzione doveva avvenire nella costellazione dei Pesci, segno d'acqua, sin dal secolo precedente gli astrologi - a cominciare dal cardinale Pierre d'Ailly - avevano cominciato a vaticinare, con insistenza pari a quella che oggi ci riservano solo le profezie Maya, nientemeno che l'imminente arrivo di un secondo, terribile, diluvio universale. Bodin ricorda quindi malignamente che «ci furono molti miscredenti che si costruirono delle arche per salvarsi, come fece a Tolosa anche il presidente Auriol, sebbene si ricordasse loro la promessa di Dio e il suo giuramento di non far più perire gli uomini per il diluvio». Sì, ce lo vediamo quest'uomo integerrimo, ritto bel bello sulla sua arca in giardino, in attesa che si aprissero le cataratte del cielo e che quel Dio feroce in cui credeva facesse finalmente strage di tutti i peccatori del mondo (o forse, più semplicemente, con l'atteggiamento opportunista tipico del perbenista di ogni tempo, si era costruito il suo vascello perché si ride e si scherza, ma non si sa mai...).

L'attuale sede del Collège Blaise d'Auriol a Castelnaudary
  Un gustoso scambio epistolare avvenuto proprio a ridosso degli eventi drammatici del '33 fra due persone in qualche modo colpite dalla reazione, Arnaud de Ferrier e il già citato Jean de Boyssoné, ci restituisce la fresca e salutare goliardia con cui, nonostante i travagli subiti, questi uomini seppero affrontare la situazione. Scriveva infatti Ferrier, riferendosi espressamente alla richiesta inoltrata da Auriol a Francesco I di cui si è detto sopra: «voi mi domandate della grande, io direi anche la grandissima generosità che il re vi ha fatto concedendovi il diritto di nominare cavalieri delle persone che non hanno mai imparato a montare a cavallo, non più che a discenderne (...) Io temo che il nostro fesso [s'intenda Auriol stesso] faccia fare una mediocre figura a questa liberalità regale, poiché sarà il solo a Tolosa che fino ad oggi abbia messo il freno a dei cavalli con il suo talento di canonista. Oggi Auriol, domani gli altri della stessa pasta! Anche se per Auriol, la cosa funziona; poiché per questo pover'uomo, da tempo esperto di tattica navale, sarà facile assimilare rapidamente i principi della guerra terrestre. Se, in effetti, avete qualche dubbio sui suoi servizi marittimi, ricordatevi che è lui che, quando si diffuse il timore di un diluvio, incredulo nella bontà divina, si fece costruire un battello perfettamente installato e solidamente equipaggiato contro la tempesta. Me lo ricordo bene, avendolo potuto contemplare talvolta nel giardino dell'Università...».

  Può darsi che tutta la vicenda sia una bufala, ingigantitasi poi grazie alla mediazione letteraria, ma certo fa bene al cuore vedere come questi due giuristi spernacchino cotanto collega, appena pochi mesi dopo la morte del loro amico Caturce. L'ironia non basta a redimere la storia, ma rende più giustizia che il mero livore.

venerdì 2 marzo 2012

Mitalogie

Frontespizio dell'edizione originale
de L'Italiano
  Da non so quanto tempo noi italiani viviamo appesi al giudizio che sul nostro conto viene emesso dagli altri paesi e conviviamo con maggiore o minore fastidio con l'immagine dogmatizzata nella santa trinità "spaghetti-pizza-mandolino" (per non parlare dell'assai meno pittoresco riferimento alla criminalità: quando a Londra, tradito dal mio pessimo inglese, rivelai al libico che gestiva il fish&chips sotto casa la mia provenienza italiana, questi commentò con un sorriso tra il sarcastico e il sornione "ahhhh... mafia"; un'esperienza analoga capitò a un mio amico ad opera di un agente di frontiera tra Austria e Ungheria in un'altra occasione). Si può capire la curiosità che provai qualche anno fa nel constatare, leggendoli, che i grandi romanzi che avevano fondato il genere gotico - e che io mi immaginavo ambientati in tetre brughiere nordiche costellate di cimiteri di campagna in cui si aggiravano spettri che si confondevano con la nebbia - parlavano in realtà di noi, a cominciare proprio dal testo che tradizionalmente viene considerato il capofila di quella tradizione, Il castello di Otranto (Horace Walpole, 1765). Il quale, va da sé, si svolgeva nella città pugliese in un'epoca imprecisata al tempo delle Crociate («Gli episodi principali riflettono le credenze caratteristiche delle età più buie del cristianesimo...», si legge nella prefazione). Un altro classico del genere porta impresso il nostro segno sin dalla copertina, giacché si intitola L'Italiano o Il Confessionale dei Penitenti Neri (Ann Radcliffe, 1797), e narra vicende dislocate tra Napoli e altri luoghi del nostro Mezzogiorno non più proiettate sullo sfondo medievale, ma pressoché contemporanee, di una contemporaneità però ancora profondamente immersa, agli occhi dell'autrice, in un passato mai realmente superato. Analoghe caratteristiche si riscontrano anche ne Il Monaco (Matthew Lewis, 1796), che pure è ambientato in terra di Spagna. Immagino che la ragione di questo trend sia da ricercarsi nell'equiparazione tra "gotico" e "medievale" e nella facilità con cui l'opinione pubblica dell'Europa settentrionale guardava all'Europa mediterranea e cattolica come un vero e proprio residuo di quei "Dark Ages" da cui la modernità si era in qualche modo trascinata fuori: non per nulla queste storie parlano immancabilmente di segregazioni conventuali, di faide familiari, di possessioni diaboliche, di torture inquisitoriali, secondo ciò che il gusto del tempo immaginava essere stato il Medioevo.

  Si tratta ovviamente di un mito, elaborato a partire da dati più o meno storicamente attendibili ma destinato poi a godere una vita propria nell'immaginazione pubblica (correlato fantasioso dell'opinione pubblica). Questo non fu tuttavia l'unico mito d'Italia costruito in età moderna. I testi sopraccitati mi sono ritornati alla mente, qualche giorno fa, quando mi sono imbattuto in un brano di Jean Bodin, il grande giurista francese (1529-1596) che nel 1576 pubblicò Les Six Livres de la République, un testo-chiave per la legittimazione dello stato moderno. Quest'uomo così impegnato a riflettere sulle grandi mutazioni politiche in atto nel cosiddetto "secolo di ferro" non poteva non dedicare un'attenzione particolare alle vicende che travagliavano la sua Francia e che assunsero la forma, da noi più volte richiamata in questo blog, delle guerre di religione. Bodin non si limitò a trattare la questione in punta di diritto, ma si profuse in una profondissima indagine teorica durata molti anni con cui cercò di andare alla radice del problema e i cui risultati confluirono nel Colloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis (potremmo tradurre con "Colloquio a sette voci intorno ai reconditi arcani delle realtà sublimi", e pazienza se così dicendo l'oggetto rischia di restare un po' vago...). Come si evince dal titolo, trattasi di un dialogo tra sette personaggi, in rappresentanza di sette orientamenti diversi nei confronti della religione, nel rispetto di un genere letterario che vanta un'antica tradizione: abbiamo così il cattolico di ampie vedute, il luterano, il sostenitore della religione naturale, il calvinista, l'ebreo, il musulmano e un personaggio inedito che interpreta la parte dello scettico (segno che lo scetticismo stava cominciando davvero a entrare in circolo nella cultura europea). Sull'effettiva paternità di quest'opera, che fu stampata solo alla metà dell'800, sono emersi talora pareri contrastanti, che qui non interessano. Mi interessa invece l'esordio del dialogo, che contiene un elogio appassionato di una città italiana, Venezia, dove appunto si ritrovano tutti i partecipanti alla discussione, provenienti da Roma, Costantinopoli, Augusta, Siviglia, Anversa e Parigi.

Antica mappa di Venezia
(...) avendo costeggiato la riviera adriatica dopo una difficile traversata, approdammo a Venezia, porto comune di quasi tutte le genti o piuttosto del mondo intero, poiché non solo i Veneziani si rallegrano nel vedere e nell'ospitare gli stranieri, ma in quella città puoi anche vivere con grandissima libertà; e mentre le guerre civili o la paura dei tiranni o le dure esazioni delle tasse minacciano altre città e altre regioni, questa sola quasi mi sembra libera e immune da tutti questi generi di servitù. Perciò accade che vi giungano da ogni dove quanti decisero di trascorrere una vita con grandissima pace e libertà, dedicandosi al commercio, all'industria o all'ozio degno degli uomini liberi.

  A Venezia, per la verità, non molti anni dopo, sarebbe stato arrestato Giordano Bruno, ma è estremamente interessante constatare che per un dotto francese del '500 Venezia era l'unico luogo in cui si sarebbe potuta ambientare con una minima credibilità una discussione a tutto campo sui fondamenti della religione. La Serenessima rappresentava allora e rappresenterà ancora a lungo il simbolo dello stato repubblicano, quasi un residuo dell'antica libertà civile romana rimasto miracolosamente vivo dopo tantissimi secoli. Parlando del suo amico Etienne de la Boétie, uomo animato da un profondo amore per la libertà, Montaigne in uno dei suoi Saggi (I, 28) si dice certo che avrebbe preferito con ogni probabilità nascere a Venezia piuttosto che a Sarlac - e di esempi se ne potrebbero fare molti altri.

  É questo, evidentemente, un altro mito, frutto anch'esso di un impasto di dati storici e suggestioni fantastiche, non diversamente da quello di cui i romanzi gotici si nutrono e che contribuiscono a diffondere (il '500 italiano, per dirne una, è anche quello del "Franza o Spagna, purché se magna" e della cura del "particulare" di cui parla Guicciardini, che con la libertà sembrano avere poco a che fare). Ma per noi che viviamo nell'era dello spread dovrebbe essere più facile capire, a differenza che in altri tempi, quanto poco eterei siano i miti e quante ricadute concrete, anche drammatiche, essi possono avere nella storia effettuale dei paesi e delle persone. 

sabato 25 febbraio 2012

Il medico e i mangiatori d'aria

Jacques Dubois (Sylvius)
  D'altro canto, ci sono anche medici e scienziati che prendono sì ispirazione dal mondo che li circonda, ma per formulare delle proposte vagamente surreali. Uno dei casi più interessanti è quello di un altro professore di medicina francese, appartenente alla generazione precedente a quella di Joubert, Jacques Dubois (Sylvius, 1478-1555).  Questi è fra i grandi protagonisti della new wave umanistica in ambito medico e dalla sua cattedra parigina tuonò improperi d'ogni tipo contro il suo ex allievo Vesalio, reo - con le sue modernissime tavole anatomiche - di mettere in discussione l'antico insegnamento galenico (Sylvius era talmente persuaso del fatto che Galeno non avesse mai potuto sbagliare da giungere alla conclusione, dinanzi ad alcune inoppugnabili osservazioni di Vesalio, che la specie umana aveva necessariamente dovuto corrompersi nei dodici secoli trascorsi dall'epoca in cui il medico di Pergamo aveva scritto le sue opere!). Sono questi degli esempi interessanti di come vecchio e nuovo si intreccino nel '500 in modi originalissimi, di come - cioè - un fenomeno che rappresentava senz'altro un segno di discontinuità rispetto al passato (la cura filologica per le fonti e il desiderio di ripristinare l'esatta parola degli antichi) potesse cozzare con un fenomeno altrettanto nuovo quale la pratica vesaliana di ricorrere alle dissezioni non più semplicemente per illustrare quello che c'era scritto nei libri, ma per raccogliere informazioni con cui formare nuovi libri, che tali informazioni avrebbero poi dovuto conservare e trasmettere, anche attraverso un uso inedito delle illustrazioni.

  Sylvius fu però anche autore di alcuni testi di argomento dietetico e terapeutico, che sono particolarmente interessanti dal punto di vista storico perché appaiono indirizzati alla cura di pazienti provenienti dalle classi sociali più disagiate (il tema della crescente povertà urbana era una questione che appariva sempre più pressante nei primi decenni del secolo: il grande umanista spagnolo Juan Luis Vives scrisse per esempio nel 1526 un De Subventione Pauperum con cui cercava di affrontare la questione in termini non solamente caritatevoli e assistenziali ma propriamente politici). In essi l'autore suggeriva alcune semplici prescrizioni che potevano aiutare i nullatenenti a sopravvivere al meglio nonostante le ristrettezze cui erano condannati. Sono di questo tenore, per esempio, il De parco ac duro victu libellus elegans ("Elegante libretto sul regime di vita povero e duro", del 1542) e il De victus ratione facili ac salubri pauperum scholasticorum libellus ("Libretto sul regime di vita facile e salubre degli studenti poveri", anch'esso del 1542, espressamente indirizzato ai giovani allievi, con consigli ad hoc come quello di dedicarsi alla lettura con un'adeguata luminosità per non rovinarsi la vista), anche se non si capisce esattamente come potessero i poveri documentarsi su dei libri scritti pur sempre nel latino dei dotti.

Immagine di un Astomo,
da Kaspar Schott, Physica
curiosa
(1662)
  Ad ogni modo, il vero e proprio colpo di genio di cui vorrei parlare si trova nel Consilium perutile adversus Famem et Victuum Penuriam ("Consiglio utilissimo contro la fame e la penuria di cibo", di datazione incerta, ma risalente alla fine degli anni '40). L'idea di Sylvius è che, non essendo la fame e la sete nient'altro che l'impulso naturale con cui il corpo cerca di reintegrare la propria sostanza, riequilibrando così, con l'assunzione di cibo e bevande, la quantità di materia che continuamente e invisibilmente si disperde nell'ambiente a causa del calore nativo che brucia dentro di noi, se noi moderassimo questo calore o limitassimo in qualche modo tale dispersione, avremmo eliminato o comunque ridimensionato l'esigenza di nutrirci. Da cui il conseguente consiglio: «Impediremo la dispersione, se chiuderemo tutti i pori e i meati del corpo, eccezion fatta per quelli che sono stati destinati dalla natura all'espulsione degli escrementi superflui del corpo, quali sono i meati attraverso cui sono espulse le feci, le urine e il muco e attraverso cui anche si produce la respirazione...» (giuro che dice proprio così, a p. 197 della sua Opera medica, che è disponibile su Google Books). Non meno grottesco, nelle pagine successive, il modo con cui Sylvius cerca di mostrare che è possibile sopravvivere nutrendosi solo di aria...
Ma ora mostriamo in quale modo l'uomo e moltissimi altri animali possono vivere, se non sempre, almeno per un po' di tempo solo di aria o di sostanze aeriformi (...) Anzitutto orsi, ghiri, testuggini, serpenti, anguille, vipere e molti altri animali vivono nascosti nelle loro grotte senza cibo e bevanda, del solo respiro, senza il quale non possiamo vivere neppure per un istante; molti che sono afflitti da apoplessia o letargia trascorrono diversi giorni senza bere e mangiare; molti che sono rinchiusi in carcere o che sono caduti in burroni o stanno nascosti nei boschi vissero per qualche tempo accontentandosi di respirare aria. Scrive Plinio (Nat. Hist. VII, 2) che alcuni popoli privi di bocca [i cosiddetti Astomi, che la leggenda riteneva abitassero in India, ndr] vivessero solo del respiro e dell'odore fragrante dei pomi selvatici che giungeva alle loro narici. Facciamo ogni giorno esperienza di quante persone risorgono e quasi tornano a vivere al solo odore del pane, della carne bollita o meglio ancora arrostita, dell'acqua di rosa, della caryopilite, della noce moscata e altre simili cose: per opera di odori di questo tipo persino la sincope mortale è immediatamente guarita... (p. 198),
   E continua, poco dopo:
Si sono visti al nostro tempo non pochi uomini, soprattutto in Germania, per natura malinconici e flegmatici che vissero diversi mesi senza mai bere né mangiare: sebbene Ippocrate affermi nel libro De carnibus che non assumere cibo per sette giorni sia letale per l'uomo, Plinio invece sostiene che non sempre il settimo giorno è fatale, poiché molti sopravvissero anche dopo oltre undici giorni... (p. 198).
 La logica soggiacente sembra più o meno essere questa: se il corpo disperde nell'ambiente circostante sottilissime parti di materia, per reintegrarle potrebbe essere sufficiente, almeno per un limitato periodo di tempo, inalare una pari quantità di sostanze aeriformi, senza bisogno di ricorrere al cibo solido. É chiaro che il retroterra tragico che fa da sfondo a queste disarmanti considerazioni è quello di un mondo segnato da prolungate carestie, rese ancor più pesanti dai movimenti degli eserciti nell'eterna guerra tra le potenze europee. Meno chiaro è invece dove Sylvius abbia visto questi fantomatici tedeschi capaci di sopravvivere per giorni senza acqua né cibo. E soprattutto senza birra.

martedì 21 febbraio 2012

Il medico e i mangiatori di ardesia

  Spesso filosofi e scienziati traggono ispirazione anche dalle vicende più drammatiche che contrassegnano il loro tempo. Laurent Joubert (1529-1583) fu professore nella celebre facoltà di medicina dell'Università di Montpellier ed ebbe anche importanti incarichi a corte. La sua fama è legata soprattutto a un'opera scritta in francese, gli Erreurs populaires au fait de la medicine et regime de santé (Bordeaux, 1578), nella quale - da medico dotto e togato qual era - puntava l'indice contro gli abusi praticati quotidianamente da guaritori sprovveduti e ciarlatani, i quali - con i loro rimedi approssimativi - finivano per gettare in discredito la medicina tutta, compresa quella rispettabile e scientificamente solida che Joubert si vantava di esercitare (non stiamo qui a sottilizzare sul fatto che le differenze fra i due generi di medicina non erano sempre così nette come ai medici di scuola piaceva pensare).

Laurent Joubert
  Il settimo capitolo del libro è rivolto - così dice il titolo - Contro quelli che giudicano la capacità dei medici dal successo, che è spesso dovuto al caso più che al sapere. In altre parole, Joubert intende qui mettere in guardia il suo pubblico da una frettolosa associazione tra esito felice di una cura ed effettiva competenza del medico, dal momento che, come la sopravvivenza del paziente può dipendere solo fortuitamente dalla scelta meditata di una terapia (perché vi si sono intrecciati altri fattori o semplicemente perché il medico ha tirato a indovinare), così l'eventuale sua morte non è necessariamente da addebitarsi all'incuria del medico (perché in certi casi si può incappare in essa anche se si sono messe in atto tutte le strategie terapeutiche più indicate, magari perché la situazione era oggettivamente disperata).

  Per chiarire questo concetto Joubert elabora un articolato paragone tra il medico e il capitano che assedia o difende una piazzaforte, il cui merito non può essere misurato dalla riuscita del suo intento, posto che abbia fatto «tutto ciò che l'arte richiede». Dinanzi al corpo malato, il medico si trova infatti come il generale di fronte a una fortezza di cui conosce solo la superficie esterna, non la sua reale consistenza, né l'esatta disposizione di viveri e munizioni da parte dei difensori: tutto ciò di cui dispone per elaborare la sua strategia sono «congetture, somiglianze, esempi e osservazioni», con il loro carico di precarietà e incertezza. Oppure è paragonabile a chi è incaricato di difendere un presidio dall'assalto dei nemici: se questi riesce a difenderlo

fino allo stremo delle forze, dopo che sono stati mangiati tutti i cavalli, gli asini, i cani, i topi e i gatti presenti nel luogo assediato e poi anche pelli, pergamene e altri cibi penosi (come dice sia accaduto a quelli di Sancerre, che nell'anno 1573 si spinsero a mangiare - non so come - perfino l'ardesia), persa la maggior parte dei suoi uomini, le mura tutte perforate e non avendo più di che sostenersi, costui - costretto infine ad arrendersi - non meriterà meno lodi (se non anzi di più) di colui che avrà salvato senza particolare fatica la sua posizione, ben provvista e dotata di tutto l'occorrente (Erreurs, pp. 81-2).
 
  Un'immagine del genere, così minuziosamente dettagliata, acquista tutta la sua piena espressività se è ricondotta nel contesto pesantissimo delle guerre di religione che dilaniarono la Francia per oltre un trentennio nella seconda metà del XVI secolo, quanto situazioni come quella appena descritta erano tragicamente all'ordine del giorno e non erano pochi quelli che potevano richiamarle alla mente per averle viste coi propri occhi. Fra tanti episodi di ferocia, uno di quelli che più colpì e impietosì l'opinione pubblica fu proprio l'episodio cui qui allude Joubert, vale a dire l'assedio di Sancerre. Questa cittadina ugonotta sulla Loira a nord-est di Bourges, nella regione del Centre, fu circondata per cinque lunghi mesi dalle truppe cattoliche a partire dal marzo 1573, prima di capitolare, il 24 agosto, esattamente un anno dopo il massacro della notte di San Bartolomeo (in seguito al quale molti calvinisti si erano appunto asserragliati nella fortezza). Della vicenda è rimasta sinistra memoria nella letteratura francese (basti pensare che ne parleranno ancora Voltaire e l'Encyclopédie due secoli dopo) perché, rimasti privi di rifornimenti dall'esterno a causa del prolungato assedio, i cittadini di Sancerre furono costretti a cibarsi di tutto ciò che avevano a disposizione - come ricorda lo stesso Joubert, e spingendosi anche oltre ciò che lui rievoca, se è vero che non mancarono neppure fenomeni di cannibalismo.

Il castello di Sancerre in un'incisione di inizio '600
(c) sancerre.cg18.fr
  Il racconto dettagliato di quel capitolo terribile delle guerre civili francesi si può trovare nell'Histoire memorable de la ville de Sancerre, pubblicata nel 1574 da Jean de Léry, contenente, come recita il sottotitolo (che all'epoca svolgeva non di rado le funzioni della quarta di copertina nei libri odierni), les Entreprinses, Siege, Approches, Bateries, Assaux et autres efforts des assiegeans: les resistances, faits magnanimes, la famine extreme et delivrance notable des assiegez. É proprio in queste pagine concitate che troviamo la notizia ripresa da Joubert. Passando in rassegna gli accorgimenti escogitati dai Sancerrini per affrontare la fame, Léry (che visse tutta la vicenda all'interno delle mura ed è dunque fonte attendibile, anche se coinvolta) racconta che al terzo mese d'assedio la situazione era talmente disperata per la carenza di grano che alcuni suoi concittadini si risolsero a prendere delle tegole d'ardesia dai loro tetti e a pestarle nei mortai, setacciandone poi la polvere ricavata così da farne una sorta di pane, dopo averla mescolata con acqua, sale e aceto (Hist. mem. p. 143). E non è tutto. Poche pagine dopo si riporta infatti il racconto dell'arresto di una coppia di sposi e di una vecchia che viveva con loro, rei di «aver mangiato la testa, il cervello, il fegato e le viscere di una loro figlia di circa tre anni, morta di fame e di stenti» (p. 146).  Ma lasciamo la parola a Léry, testimone oculare dell'evento: 

Questo fatto non passò senza grande stupore e terrore di tutti coloro che ne sentirono parlare. Ed essendomi io stesso incamminato verso il luogo in cui abitavano, e avendo visto l'osso e il resto della testa di questa povera bambina, pulito e rosicchiato, e le orecchie mangiate; avendo visto anche la lingua cotta, spessa un dito, che quelli erano in procinto di mangiare quando furono sorpresi; e le cosce, le gambe e i piedi in un calderone con aceto, spezie e sale, pronti per essere cotte e messe sul fuoco; e le spalle, le braccia e le mani tenute insieme con il petto spaccato e aperto, apparecchiate anch'esse per essere mangiate, io ne fui così atterrito e sconvolto che tutte le mie viscere ne furono scosse. Infatti, per quanto abbia vissuto dieci mesi tra i selvaggi Americani in Brasile e li abbia visti sovente mangiare carne umana (in quanto mangiano i prigionieri che catturano in guerra), provai comunque un enorme terrore nel vedere questo pietoso spettacolo, che non si era ancora mai visto (a quanto credo) in una città assediata nella nostra Francia (p. 146-7).

  Il racconto prosegue con la descrizione dell'iter giudiziario che portò alla condanna a morte dei due sposi, sul cui passato emersero pian piano torbide rivelazioni. Ne riparliamo magari appena finisco di costruire il plastico di Sancerre.
 

mercoledì 15 febbraio 2012

La bomba atomica del '500

  Avrete di sicuro presente quei tipici articoli con cui giornali o riviste specializzate, al volgere di un secolo, di un decennio o anche solo di un anno, propongono una rassegna delle maggiori scoperte del periodo preso in esame, per lo più attraverso lo schema che sembra ormai irrinunciabile della classifica: dal viaggio sulla Luna alla mappatura del genoma, passando per la bomba atomica e la velocità dei neutrini, a seconda della scansione temporale adottata. Questa prassi giornalistica un po' logora ha tuttavia un lontano, nobile, antecedente in una serie di incisioni pubblicate in Olanda all'inizio del '600 ispirate a una serie di disegni realizzati dal pittore fiammingo Jan van der Straet (latinizzato in Stradanus, 1523-1605) raffiguranti i ritrovati più significativi degli ultimi tempi. Il titolo della raccolta, Nova reperta (ossia "Nuove scoperte"), si inserisce perfettamente nel clima di entusiasmo che da più di un secolo accompagnava i continui progressi della conoscenza, diffondendo l'idea che si fosse davvero entrati in una fase "nuova" della storia umana.

  Mundus Novus era, per dirne uno, il titolo dell'opuscolo con cui Amerigo Vespucci certificò, una decina d'anni dopo il primo viaggio di Colombo, che le terre da lui toccate non potevano essere le Indie, ma - appunto - un «mondo nuovo», di cui «nessuna cognizione hanno avuto i nostri antichi» (anzi, un mondo che, stando alle teorie dei filosofi non avrebbe dovuto proprio esserci). Sull'onda di quello che fu un portentoso successo letterario, è incalcolabile la quantità di scritti che per oltre un secolo avrebbero ostentato in bella vista sul frontespizio il termine novus. Non fanno eccezione i Nova reperta di cui sopra, i quali, neanche a dirlo (perché anche se può sembrare, non facciamo proprio le cose a caso), mettono al primo posto fra le recenti novità proprio la scoperta dell'America, nel senso, appena ricordato, di scoperta di un mondo vergine, il cui merito veniva perciò giustamente attribuito a Vespucci anziché a Colombo (del resto, la proposta di chiamare quella nuova terra "America" era stata avanzata per la prima volta dal geografo Martin Waldsemuller già nel 1507).

America, Teodoro Gallo su disegno di
Jan van der Straet (ca. 1600)

  Il verso epigrammatico che accompagna l'incisione dice "Amerigo scoprì l'America: la chiamò una volta e da allora in poi lei fu per sempre sveglia". L'America è infatti raffigurata come una donna nuda, circondata da fiere in un contesto pacificamente edenico, appena svegliata dall'arrivo dell'esploratore fiorentino, stupita e (forse) un po' in apprensione per quell'inaspettato incontro, che l'aveva ridestata dal placido sonno dell'età dell'oro (scriveva Vespucci degli indigeni che erano «gente mite... e mansueta. Tutti di entrambi i sessi vanno in giro nudi senza coprire alcuna parte del corpo, e così come escono dal ventre della madre vanno fino alla morte (...) Non hanno panni di lana né di lino né di seta, poiché non ne hanno bisogno; né possiedono dei beni propri, ma tutte le cose sono comuni; vivono senza re, senza un'autorità suprema e ciascuno è padrone di se stesso. Prendono tante mogli quante vogliono (...) Non hanno nessuna chiesa, non hanno alcuna legge, né sono idolatri (...) Vivono secondo natura (...) Vivono centocinquanta anni, si ammalano raramente, e se incorrono in qualche malattia si curano da sé con certe radici di erbe»; per il testo di Vespucci cfr. Nuovi Mondi. Relazioni, diari e racconti di viaggio dal XIV al XVII secolo, Rizzoli, Milano 2010, pp. 229-246). Molto è stato scritto sul carattere simbolico di questa immagine, che raffigura un certo modo di concepire il nuovo mondo come luogo ameno e incorrotto - ma non è su questo che volevo fissarmi.

Mi interessava invece registrare le altre scoperte immortalate dalle incisioni dei Nova reperta, rinviando al sito dell'Università di Liegi chi fosse interessato e esaminarle una per una. Se alcune sono facilmente prevedibili, altre sospetto che susciteranno maggiore curiosità. Su ciascuna di esse si potrebbe scrivere un libro intero, ma per ora mi limito all'elenco:

1) La scoperta dell'America (America)
2) La bussola (Lapis polaris, magnes)
3) La polvere da sparo (Pulvis pyrius)
4) La stampa (Impressio librorum)
5) L'orologio (Horologia ferrea)
6) La distillazione (Distillatio)
7) La coltivazione del baco da seta (Ser, sive sericus vermis)
8) I finimenti dei cavalli (Staphae, sive stapedes)
9) I mulini ad acqua (Mola acquaria)
10) I mulini a vento (Mola alata«
11) Lo zucchero di canna (Saccharum)
12) Le lenti (Conspicilla)
13) Il calcolo della longitudine (Orbis longitudines repertae e magnetis a polo declinatione)
14) La politura delle armature (Politura armorum)
15) L'astrolabio (Astrolabium)
16) L'incisione su rame (Sculptura in aes)

  Sulle prime il consenso era pressoché unanime. Francesco Bacone, autore a sua volta di un Novum Organum (potremmo dire una "nuova logica", essendo Organum, "strumento", il nome con cui erano note le opere logiche di Aristotele), scriveva per esempio al § 129 del suo libro: «bisogna considerare anche la forza, la virtù e gli effetti delle invenzioni, che si manifestano con maggior evidenza che altrove in quelle tre invenzioni, che erano ignote agli antichi, e le cui origini, sebbene recenti, sono per noi oscure e ingloriose: l'arte della stampa, la polvere da sparo, la bussola. Queste tre invenzioni hanno cambiato la faccia del mondo e le condizioni di vita sulla terra: la prima nella cultura, la seconda nell'arte militare, la terza nella navigazione. Da esse derivarono infiniti mutamenti, tanto che nessun impero, nessuna sètta, nessuna stella sembra aver esercitato sulle cose umane un maggiore influsso ed una maggiore efficacia di queste tre invenzioni meccaniche» (Opere filosofiche, Utet, Torino 2009, pp. 635-6). Attraverso di lui il tema sarebbe diventato un luogo comune per tutto il '600.

sabato 11 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 2)


La doccia fredda per Mondovì giunse l’8 agosto 1562, quando a Blois venne stipulato un nuovo accordo per regolare definitivamente le questioni che la pace di Cateau-Cambrésis aveva lasciato in sospeso tra la Francia e lo Stato Sabaudo. Le trattative non furono semplici da sbrogliare, anche perchè si inserirono in un quadro complessivo tutt’altro che sereno. In appena tre anni, infatti, la corona francese aveva cambiato per ben tre volte titolare: a Enrico II (di cui Emanuele Filiberto aveva sposato la sorella proprio nel giorno della morte, il 10 luglio 1559) erano succeduti prima il figlio Francesco II (morto nel dicembre 1560), quindi il secondogenito Carlo IX, che era solo un ragazzino e governava sotto la tutela della madre, Caterina de’ Medici. Il massacro di Wassy del marzo 1562, inoltre, aveva dato il via a quel lungo periodo di torbidi e di violenti conflitti interconfessionali che avrebbero dilaniato la Francia per oltre un trentennio. In tale contesto Emanuele Filiberto dovette a malincuore rinunciare alle pretese su Pinerolo, ed anzi si vide persino costretto a consegnare ai transalpini Perosa e Savigliano; in cambio ottenne però la restituzione di quattro delle cinque piazzeforti ancora sotto il controllo francese: Chieri, Chivasso, Villanova d’Asti e finalmente l’agognata Torino, che il Savoia considerava strategica per il controllo del Piemonte. Il ritiro delle truppe francesi avvenne il 12 dicembre successivo e il 7 febbraio 1563 Emanuele Filiberto poteva finalmente fare il suo ingresso solenne nella sua nuova capitale.

Torino, Monumento a Emanuele Filiberto
L’insediamento della corte ducale a Torino fu senza dubbio uno degli eventi chiave di quegli anni, ma porto con sè – per quanto ci riguarda – tutta una serie di complicazioni. A liberazione avvenuta, il Comune di Torino non tardò infatti a rivendicare gli antichi diritti e a invocare la riapertura dell’Università dopo la lunga inattività di cui abbiamo parlato. Gli argomenti avanzati erano solidi, poiché i torinesi potevano contare sulla concessione rilasciata a suo tempo da Ludovico di Savoia-Acaia, nonché sul diploma imperiale e la bolla papale che certificavano la fondazione dello Studio all’inizio del XV secolo. Tali diritti – questo il punto – non erano mai stati revocati da nessuno: l’occupazione francese aveva semplicemente imposto un’interruzione forzata alla didattica, che quindi poteva e doveva riprendere regolarmente il suo corso nel momento in cui erano venute meno le cause della sospensione. E poichè fra i privilegi garantiti all’Università di Torino vi era quello, anch’esso mai revocato, di poter essere l’unica istituzione del genere entro i confini del ducato sabaudo, la sua ricostituzione doveva coincidere con l’immediata chiusura dell’altra sede che in quel momento stava svolgendo analoga funzione in Piemonte, evidentemente in modo illegittimo, vale a dire, appunto, Mondovì. Temendo che il loro progetto naufragasse ancor prima di poter veramente decollare, i monregalesi, allarmatisi, intrapresero tutte le iniziative che ritennero utili per azionare le adeguate contromisure, inviando delegazioni al duca per esortarlo a non assecondare l’interpretazione fornita dal Comune di Torino. Anche Mondovì, del resto, poteva vantare il suo diploma ducale, firmato per di più dallo stesso Emanuele Filiberto poco più di due anni prima, e non da un suo lontano antenato, nel quale peraltro non si presentava affatto l’Università monregalese come una succursale temporanea di quella torinese, ma come uno Studio interamente nuovo e autonomo, dotato perciò degli stessi diritti che a suo tempo erano stati conferiti a quello più antico. Se per far valere le proprie ragioni Torino si riallacciava a delle prerogative ancora medievali, l’argomento giuridico su cui Mondovì faceva leva era invece estremamente moderno, a prima vista perfettamente adatto a un’epoca in cui si andavano formando in tutta Europa i nuovi Stati assoluti. Emanuele Filiberto – sosteneva questa campana – conosceva perfettamente quali erano i documenti in mano ai torinesi, e quale il loro contenuto; se perciò aveva ritenuto di fondare una nuova Università a Mondovì era perchè, semplicemente, riteneva giuridicamente corretto farlo, ed essendo il duca la fonte unica del diritto all’interno del proprio stato, ciò che stabiliva aveva valore di legge e nessuno poteva appellarsi ad altre norme, per quanto antiche, per contrastare le sue decisioni. Ad essere illegittima non sarebbe stata dunque la creazione dell’Università monregalese, ma la pretesa di Torino di contraddire la volontà del principe.

El Greco, Ritratto di Pio V (particolare)
In realtà, quello in cui si era cacciato il duca era un autentico vicolo cieco giuridico, in cui entrambi i contendenti avevano buone carte da giocare. Il problema è che due Università in uno Stato così piccolo non avrebbero potuto resistere, nè la corte avrebbe potuto mantenerle entrambe: una soluzione, dunque, andava in qualche modo trovata al più presto. La pressione su Emanuele Filiberto – lo si può immaginare – fu da subito enorme e il duca dovette nominare un’apposita commissione governativa per esaminare il caso. Nel frattempo, comunque, onde evitare che l’attività universitaria, da lui così fortemente voluta, andasse incontro a un’altra sospensione, egli concesse una deroga a Mondovì perchè continuasse le lezioni in attesa del verdetto e continuò a incaricare normalmente professori per quella sede. Tra suppliche, interpellanze e ricorsi, se ne andarono così via altri tre anni, senza che si riuscisse a trovare un’intesa soddisfacente. Nel 1566, l’elezione al soglio di Pietro del cardinale Ghislieri col nome di Pio V sembrò segnare un punto a favore di Mondovì, che si vide prontamente confermare dal suo ex vescovo i privilegi già riconosciuti quattro anni prima dal suo predecessore Pio IV. Ma più della benedizione papale, agli occhi di Emanuele Filiberto, poterono i soldi. L’11 maggio 1566 i torinesi calarono infatti l’asso vincente: inoltrando al duca l’ennesime domanda per riaprire la scuola, essi la fecero accompagnare con un cospicuo donativo di quattromila scudi da investire nell’Università, racimolato attraverso una cordata composta da alcuni ricchi privati cittadini. Fu proprio l’ingente disponibilità finanziaria messa sul tavolo da Torino a decidere una contesa che invece, sul piano strettamente giuridico, era in perfetto stallo.

Ironia della sorte, di fronte a questa evoluzione Emanuele Filiberto esercitò proprio quella forma arbitraria di potere che i monregalesi gli avevano riconosciuto e che gli permetteva di tranciare d’imperio un burocratico nodo gordiano, ma in un senso assai diverso da quello auspicato a Mondovì. Nonostante le ulteriori perizie raccolte e nonostante l’estremo tentativo di ottenere ancora un rinvio, adducendo a motivo l’imminente inizio delle lezioni, l’Università di Mondovì dovette piegarsi alla volontà del duca, che il 22 ottobre 1566 assegnò definitivamente a Torino l’esclusiva sui diritti universitari e il giorno dopo intimò ai professori incaricati a Mondovì di trasferirsi seduta stante a Torino per cominciarvi i loro corsi il successivo 3 novembre.  Per Emanuele Filiberto si trattò di un vero affare. Il Comune di Torino si sobbarcò per intero la spesa del trasporto dei bagagli dei docenti e si preoccupò di riattrezzare, sempre a proprie spese, le strutture destinate all’insegnamento; pur di riavere l’Università, esso si impegnò inoltre a versare ogni anno mille scudi per coprire i costi di gestione e cedette al duca persino l’usufrutto dodicennale sulle gabelle cittadine su vino e carni. A Mondovì sarebbe invece rimasta la tipografia di Torrentino, ora in mano ai suoi eredi, probabilmente perchè il ceto imprenditoriale torinese, che più si era speso per la riapertura dello Studio, non vedeva di buon occhio il trasferimento di un’impresa commerciale già avviata e voleva godere in proprio dei vantaggi economici garantiti dalla presenza dell’Università. Le motivazioni che spinsero Emanuele Filiberto a una scelta di quel tipo non furono però solo strettamente finanziarie. Lo spostamento dell’Università a Torino rientrava infatti in un più articolato progetto volto a rafforzare la centralità di Torino come capitale dello stato, negli stessi anni in cui il duca si cimentava anche con la costruzione della cittadella fortificata e con il trasferimento della Sindone da Chambéry (un atto che ricapitolava, anche simbolicamente, il trasferimento di competenze, poteri e interessi dei Savoia dall’area francese a quella italiana).

Ferrante Vitelli, Progetto realizzato per la cittadella
di Mondovì
, (c) Archivio di Stato di Torino
Con il 1566, di per sè, Mondovì non vide completamente annullati tutti i propri diritti: restò infatti in vigore la possibilità di promulgare titoli, ma il divieto di tenere lezioni pubbliche rendeva quella monregalese una pura “università di carta”, come sono state talvolta chiamate le sedi che si limitavano a conferire le lauree senza che vi si svolgesse una qualche forma di didattica. Negli abitanti della città rimase però soprattutto un senso di profonda frustrazione, che riesplose in diverse occasioni, anche in forma violenta, come quando Emanuele Filiberto decise di aumentare il prezzo del sale. Fu proprio per tenere meglio sotto controllo questa città orgogliosa e ribelle che il duca decise di innalzare anche qui una cittadella fortificata, nel 1573, con la motivazione ufficiale che trattavasi di una misura preventiva onde difendersi meglio da eventuali attacchi degli ugonotti francesi. Oggi quella cittadella, segno di antico dominio, è uno dei tanti contenitori vuoti di una città che continua ad avere quasi gli stessi abitanti di allora, ma distribuiti su una superficie sempre più ampia, quasi ad indicare anche sul piano topografico un progressivo allentarsi dei legami sociali, che auspico sinceramente possano invece tornare a rafforzarsi, con un colpo di reni che ci trascini fuori da un destino di apparente declino e ci rimetta in movimento, magari proprio a cominciare dal maggio prossimo.

martedì 7 febbraio 2012

Mondovi'... formidabili quegli anni (Parte 1)


Tanto per far capire che aria tira qui a Thélème, contravverrò subito alle mie stesse dichiarazioni d’intenti (per cui vedi qui a fianco la stanza l'autore ai lettori), in base alle quali sarebbe lecito attendersi pagine popolate esclusivamente da nani e ballerine rinascimentali, e inaugurerò il blog con due post serissimi, venati anzi di una patina malinconica, dietro cui si potrebbe persino scorgere l’ombra di una nemesi storica. Mi sembra bello infatti cominciare con un omaggio alla mia città, peraltro in pieno anno elettorale, e quindi in un momento in cui si è più propensi a ragionare di passato, presente e futuro. Quella che intendo raccontare è infatti la storia di come Mondovì ebbe per lo spazio di un mattino la sua Università e di come le venne sottratta dopo pochi anni (meno ancora di quelli trascorsi, in tempi più recenti, prima che il Politecnico di Torino chiudesse di fatto la sua sede decentrata, aperta nel 1990).

Mondovì, Cattedrale e Torre del Belvedere

Anche se è meno nota alla memoria collettiva rispetto ad altre più celebri date, il 3 aprile 1559 segna in ogni caso un autentico punto di svolta nella storia italiana. Quel giorno infatti fu ratificato nella cittadina francese di Cateau-Cambrésis, ai confini con le Fiandre, l’accordo di pace che pose fine alle estenuanti guerre tra Asburgo e Valois, stabilendo di fatto il dominio spagnolo sulla Penisola per tutto il secolo successivo. Fra le varie risoluzioni contenute nel trattato, ve n’era anche una che imponeva alla Francia di abbandonare i territori appartenenti a casa Savoia, dopo oltre un ventennio di occupazione, e di restituirli al loro legittimo titolare, Emanuele Filiberto, ritrovatosi duca senza ducato alla morte del padre Carlo III, con il quale era fuggito dal Piemonte al momento dell’invasione delle armate transalpine. Avviato precocemente alla carriera militare, il giovane principe aveva poi scalato le gerarchie dell’esercito imperiale fino a guidarlo alla vittoria nella decisiva battaglia di San Quintino (10 agosto 1557) e scalpitava ora per veder finalmente riconosciuti i propri diritti ereditari. In vista del suo effettivo insediamento, tuttavia, come garanzia di futura neutralità dello Stato sabaudo nello scacchiere italiano, la Francia ottenne comunque al tavolo della pace di poter mantenere il controllo di alcune piazzeforti strategiche in territorio piemontese, tra cui Chieri, Pinerolo e – soprattutto – Torino.

Prima di procedere oltre, occorre ricordare che Torino all’epoca non era ancora la capitale del Ducato (lo sarebbe diventata a breve, come vedremo, subentrando a Chambéry), ma dal 1404 ospitava un suo Studio universitario. Diciamolo subito: periferica rispetto al circuito delle altre prestigiose sedi italiane, l’Università torinese soffrì sin dall’inizio la concorrenza di centri assai più qualificati, talora anche vicinissimi, come Pavia, e non riuscì mai a guadagnare una dimensione che non fosse puramente regionale. Per quanto possa suonare paradossale, fu però proprio questa marginalità a propiziare quello che è ancor oggi uno dei maggiori lustri della sua storia, l'aver cioè licenziato in teologia nientemeno che il grande Erasmo da Rotterdam, in occasione del suo viaggio in Italia del 1506. Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare oggi, nell’ordinamento tradizionale delle Università medievali e rinascimentali, il conferimento di un titolo era un atto per certi aspetti distinto dall’attività didattica, e non era raro che studenti formatisi in un certo luogo si recassero poi altrove a laurearsi, talora per valorizzare i propri studi presso un’Università più importante, talora invece per sfuggire alle onerose prebende che i centri maggiori richiedevano al momento dell’addottoramento. Il desiderio del non ancora famoso Erasmo di presentarsi, nonostante i suoi studi formalmente irregolari, con il titolo di theologus ai circoli umanistici italiani presso cui intendeva accreditarsi deve aver trovato una sponda propizia nell’istituzione torinese, che secondo un’ipotesi non peregrina sembra esercitasse all’epoca, proprio per la sua posizione geografica, un certo richiamo sugli studenti d’Oltralpe interessati a conseguire un titolo in Italia relativamente a buon mercato (benchè, a rigore, lo Stato sabaudo fosse all’epoca sostanzialmente uno stato francese, l’Università di Torino era infatti in tutto per tutto conformata secondo il modello organizzativo “bolognese”, diverso da quello “parigino”, proprio delle Università del Nord Europa). Questo episodio non contribuì tuttavia a mutare le sorti dell’Università di Torino, neanche quando Erasmo, di lì a poco (l’Elogio della follia è del 1511), sarebbe diventato il faro di tutta la cultura europea. Anzi, ben presto essa dovette piegarsi alla logica delle armi e fu costretta a chiudere i battenti e sospendere ogni attività didattica per tutti i lunghi anni dell’occupazione francese. Che per Torino, come abbiamo detto, non terminarono, però, con il reinsediamento dei Savoia nel proprio ducato.


Emanuele Filiberto,
"Testa di Ferro"
É esattamente a questo punto che nella nostra storia entra in scena Mondovì. Per quanto il nomignolo di “Testa di Ferro” affibbiatogli durante le campagne militari non lascerebbe presagire nulla di buono in tal senso, Emanuele Filiberto si dimostrò invece immediatamente molto interessato alle questioni di politica scolastica. Già pochi giorni dopo gli accordi di Cateau-Cambrésis, il duca aveva diramato dalla lontana Bruxelles, dove ancora si trovava, un’ordinanza che concedeva alla città di Nizza il privilegio di poter fondare un proprio collegio di giurisperiti e di rilasciare per suo tramite titoli accademici in legge. Si trattò di un provvedimento d’emergenza, che di fatto non portò a nulla di concreto, ma che segnala la precisa volontà da parte di Emanuele Filiberto di ricostituire quanto prima una classe dirigente adeguatamente preparata, in grado di amministrare il nuovo Stato che si accingeva a governare e, per certi aspetti, a rifondare. Per mettere in piedi un’università era però necessaria un’energica volontà politica e la disponibilità a effettuare investimenti anche ingenti. In quel frangente Mondovì fiutò l’occasione di sfruttare a proprio vantaggio l’impossibilità per lo Studio torinese di riprendere le proprie regolari attività, e si candidò a prenderne il posto. Una simile pretesa, considerati i rapporti di forza del XXI secolo, può apparire velleitaria. Eppure nel ‘500  Mondovì non era certo la più piccola dei capoluoghi di Giuda: sede vescovile dal 1388, essa contava già all’incirca ventimila abitanti contro i 14 mila attestati a Torino da un censimento del 1571. Forse grazie anche alla mediazione del potente cardinale Michele Ghislieri, Grande Inquisitore del Sant’Uffizio, nominato vescovo di Mondovì il 27 marzo 1560, Emanuele Filiberto manifestò perciò una certa disponibilità ad accogliere questa proposta. Non appena fu messo al corrente di tale apertura, nell’ottobre 1560 il Consiglio Comunale diede mandato a quattro emissari (due giuristi e due nobili) di recarsi a Vercelli, sede provvisoria del governo ducale, per definire i termini della concessione. L’ambasciata ebbe successo e l’8 dicembre 1560 Emanuele Filiberto sottoscrisse il diploma con cui concedeva a Mondovì i tradizionali privilegi spettanti alle sedi universitarie, impegnandosi inoltre a chiamarvi professori di grido e a provvedere in prima persona al loro sostentamento, con denari appositamente tratti dall’erario statale.

Tommaso Vallauri, autore di una Storia dell’Università piemontese (1845-47), dà una descrizione quasi commovente della solerzia manifestata in questa circostanza dai monregalesi, che seppero davvero far fronte comune per il bene della città:
«la sollecitudine dimostrata in questa occasione dal comune di Mondovì, e la rara liberalità, con cui si profferse di sopperire in parte alle spese richieste pel mantenimento dei lettori, palesa chiaramente l’indole di quei cittadini, i quali, come sono per lo più di svegliato ingegno e disposti al coltivamento di qualunque liberale disciplina, così hanno della natura una singolare alacrità, che li rende assai faticanti e adatti al maneggio di gravissimi affari, e fa loro abbracciare volenterosamente tutto ciò che si rappresenta all’animo siccome utile e onesto» (pp. 153-4).
In tal senso, l’episodio forse più significativo fu la decisione assunta il 14 febbraio del 1561 di attingere una quota di mille scudi dalle casse comunali da destinare al pagamento degli insegnanti, per sopperire alle lacune del finanziamento ducale. Ma Mondovì aveva dato per tempo prova inequivocabile di nutrire grande fiducia in questo progetto. Ancor prima che la concessione fosse ufficializzata, il Comune aveva già provveduto infatti a reclutare personale e a organizzare un embrionale ciclo di lezioni in diritto e medicina, benchè le nomine dei cattedratici, di competenza del duca, fossero poi snocciolate pian piano durante tutto il corso del 1561, segno che – nonostante le ottime intenzioni – per quel primo anno la didattica procedette inevitabilmente a singhiozzo, come del resto è normale aspettarsi da un’attività appena inaugurata. Come sede delle lezioni furono scelti il palazzo vescovile e l’attiguo ospedale maggiore; l’aula vescovile, in particolare, fu destinata alla proclamazione delle lauree. Mondovì fu anche molto generosa nel rifornire di professori autoctoni la sua università, anche se questo può per certi aspetti essere considerato un suo punto debole, perchè sembra denotare un certo provincialismo; ciò non toglie, tuttavia, che, allo stesso tempo, per creare interesse intorno alla neonata istituzione furono anche assoldati per iniziativa del duca alcuni personaggi interessanti della cultura italiana ed europea della metà del ‘500 (ma sui professori che passarono da Mondovì mi piacerebbe tornare in un altro post).

Frontespizio della Storia d'Italia
di Guicciardini, pubblicata
da Torrentino nel 1561
Sicuramente nell’impresa ci credeva molto, in questo primo momento, lo stesso Emanuele Filiberto. Oltre a imporre per decreto che tutti i giovani piemontesi interessati a proseguire i loro studi si iscrivessero a questa Università, egli fece chiamare appositamente da Firenze lo stampatore fiammingo Lorenzo Torrentino, perchè aprisse una tipografia a Mondovì così da garantire il supporto editoriale necessario per le attività scolastiche: a tale scopo fu costituita nel giugno del 1562 un’apposita società, in cui lo Stato entrava per un terzo del capitale. Questa decisione è particolarmente indicativa. Le credenziali di Torrentino, infatti, non erano in quel momento particolarmente affidabili, dal momento che la sua precedente esperienza come stampatore di stato per conto del granduca di Toscana Cosimo de’ Medici si era conclusa in modo fallimentare. Tuttavia restava uno dei maggiori tipografi attivi in Italia, e poteva vantare al proprio attivo edizioni di Guicciardini, Paolo Giovio e Vasari. L'intenzione di Emanuele Filiberto era evidentemente quella di rafforzare quanto più possibile il centro di studi che aveva creato, ma poiché si trattava pur sempre di una piccola realtà, bisognava anche essere disposti a concedere una seconda chance a figure di caratura internazionale il cui successo si era magari momentaneamente offuscato. Tutto sembrava dunque cospirare per il meglio. Avviato il primo regolare anno accademico nell’autunno 1561, Mondovì (dove esattamente negli stessi anni veniva anche inaugurato anche un Collegio Gesuitico) sembrava insomma nelle condizioni di potersi ritagliare uno spazio significativo nel novero delle istituzioni scolastiche superiori italiane, quale ateneo di riferimento del rinnovato Stato piemontese (l’equivalente, insomma, di ciò che Padova era per Venezia o Pisa per Firenze). Ma la storia aveva in serbo per lei un brutto tiro.