Poco più di un anno fa mi è capitato di assistere ad un curioso convegno organizzato in occasione del centenario della Rivoluzione Russa, in cui, più che di Lenin, Trotzky e Stalin, si finì per parlare seriosamente di Anassimandro, Agostino e Lutero (si era in un covo di delnociani, svelato l’arcano). Fu tuttavia in mezzo a tutte quelle chiacchiere che venni per la prima volta a conoscenza di questo opus minus – detto in termini puramente quantitativi - dell’autore del monumentale Vita e destino, quanto bastò per incuriosirmi e spingermi a una lettura che ha dato un senso alla mia presenza lì, in quella circostanza.
Anche se viene spesso venduto come un romanzo, si tratta più propriamente della cornice di un romanzo, sufficientemente definita per non doverlo considerare tronco, ma di cui si coglie ancora la natura di opera grezza e non rifinita (a quanto ne so, Grossman ci lavorò, fra mille accidenti, fin sul letto di morte). Ciò comporta che, quanto più l’impianto narrativo si fa esile, man mano che si va avanti, riducendosi quasi alla mera enunciazione di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi snodi fondamentali, tanto più si alza, priva di filtri e di mediazioni, la voce dello scrittore - e quel che intende dirci si manifesta chiaramente con la forza di un monologo liberatorio, difficile poi da sintetizzare perché ogni sua parola pesa davvero come una pietra che viene intenzionalmente scagliata addosso al pubblico. Si capisce che il libro abbia avuto problemi con la censura e che sia uscito solo all’estero, postumo. Grossman comincia a scriverlo prima ancora del XX Congresso, quando la saracinesca sovietica era stata sollevata di qualche centimetro, ma non si sapeva ancora bene se sarebbe stata tirata interamente su o ritirata giù. Stalin giocò proprio un brutto tiro quando morì «senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin. Quella libertà, quella autonomia della morte conteneva qualcosa di esplosivo che contraddiceva la più recondita essenza dello Stato. Lo sconcerto invase le menti e i cuori». Nel dubbio qualche lucchetto viene effettivamente sbloccato, il regime ammette di avere un po’ esagerato e qualcuno che si dava irrimediabilmente per perso, a sorpresa, fa ritorno dagli inferi: è il caso, appunto, di Ivan Grigorevic, protagonista in prima persona del racconto. Nessuna Penelope lo attende, però, e neppure una petrosa Itaca, perché nel frattempo il mondo ha corso veloce come quel treno che, per riportarlo a casa, sta attraversando non solo lo spazio della «sterminata campagna russa» ma soprattutto il tempo, che per lui si è fermato agli anni ‘20, l’epoca in cui era stato internato. É triste ammetterlo, ma «pur senza di lui la vita era andata avanti, era continuata».
Con la sua semplice presenza, Ivan, che pure non porta rancore né avanza pretese, basta a turbare profondamente la coscienza di chi, in tutti quegli anni, è invece sempre rimasto al suo posto. Come un pensiero rimosso che ritorna improvvisamente a galla, il reduce tormenta, infatti, sia il delatore sia il connivente, poiché li inchioda alle loro responsabilità. Di queste, come di altre figure tipiche dell’universo totalitario, Grossman ci fornisce qui una formidabile e complessa fenomenologia. Il delatore, per un verso, è un uomo del risentimento, uno che odia lo studio e sguazza a proprio agio nel brodo di cultura del sospetto secondo cui tutti sono colpevoli fino a prova contraria: «qualcuno gli ha sempre pestato i piedi, ed egli ha immancabilmente bisogno di prendersela con qualcuno». Spregevole per molti aspetti, nota Grossman, egli è però una persona come tante, un buon amico e un valido padre di famiglia – ed è proprio questo «il terribile: molto, molto di buono v’è in loro, nella loro stoffa umana». E che dire degli omertosi, di quelli che hanno sempre lasciato fare, senza mai opporsi, biasimando e applaudendo a comando, pronti a denigrare i nemici di turno della rivoluzione? Quelli che se il regime incolpa qualcuno avrà le sue buone ragioni, no? Gli accusati, del resto, confessano sempre un delitto e se non fossero colpevoli di nulla bisognerebbe immaginarsi qualcosa di enorme, di spaventoso, di indicibile: che i veri criminali siano, cioè, i commissari del popolo, lo Stato socialista, Stalin – e questo nessuno lo può davvero pensare, no? Non è solo dagli aguzzini, ma soprattutto dai loro involontari complici, sempre a piede libero nella storia, che bisogna guardarsi.
Bastano perciò poche settimane a Ivan per rendersi conto che, in fondo, la vita fuori dal lager non è poi troppo diversa da com’era dentro. «Egli vedeva, in libertà, la stessa miserevole debolezza e crudeltà, l’avidità e la paura, esattamente come nelle baracche dei lager. La gente era fatta tutta allo stesso modo, e lui ne aveva compassione». Anzi, se possibile, fuori le cose vanno anche peggio, perché se nei campi di prigionia un certo tipo di vita ti è imposto, e ad esso puoi pur sempre opporre interiore resistenza, fuori il sedicente libero, per debolezza o paura, si condanna da sé «a una detenzione suprema, più completa e profonda di quella cui lo costringeva il filo spinato». Ma come si è arrivati a tutto questo? Come ha potuto una rivoluzione intrapresa per liberare tutti gli uomini avvitarsi così su se stessa al punto da produrre un immenso Stato-prigione? «Sono passati gli anni, la nebbia e la polvere che impedivano di vedere quanto era accaduto si sono adagiate» e finalmente Ivan-Grossman riesce a determinare quali sono davvero le incognite che hanno determinato la parabola russa novecentesca.
La brutalità di Stalin c’entra solo fino a un certo punto. C’entra molto di più un carattere ben radicato «nelle viscere millenarie della Russia», lo «spirito ascetico» e di sacrificio tipico del suo cristianesimo e dei suoi contadini, quella natura remissiva propria della sua anima bizantina e antioccidentale che l’ha resa una così docile schiava per secoli. Non appena la giovane Russia si liberò dalle catene dello zarismo «sfilarono come pretendenti decine e forse centinaia di dottrine rivoluzionarie, di fedi, di leader di partito, profezie programmi… Avidamente, con passione e con supplice sguardo i capi del progresso russo fissavano gli occhi in viso alla fanciulla da marito. (…) La grande schiava soffermò il suo sguardo – uno sguardo indagatore – sopra Lenin. Il prescelto fu lui. Come nelle vecchie fiabe, egli aveva indovinato il pensiero nascosto di lei, risolto l’enigma del suo sogno, la sua occulta intenzione». Forte di questa investitura, Lenin - uomo privatamente integerrimo, ma pronto a tutto pur di raggiungere il suo scopo («in un dibattito (…) non cercava la verità, cercava la vittoria») - contrariamente a quanto si sarebbe potuto pensare, e forse alle sue stesse aspettative, non socializzò la Russia, ma russificò il socialismo. Alla fine avevano avuto ragione i profeti slavofili dell’Ottocento: sarebbe stato il cuore russo a ripompare lo spirito nelle vene esauste della modernità decadente. Ma a quale prezzo? «Avrà mai pensato Lenin che, portata a termine la rivoluzione, non sarebbe stata la Russia ad accostarsi all’Europa socialista, ma la schiavitù russa in lei nascosta ad oltrepassare le frontiere e a diventare la fiaccola che illumina le nuove vie dell’umanità? Ormai non era più la Russia a imbeversi del libero spirito dell’Occidente. Era l’Occidente a guardare con occhi affascinati lo spettacolo dello sviluppo russo incamminato sulla via della non-libertà. Il mondo osservava la seducente semplicità di quella via».
Secondo questo modello, «prima di tutto viene il piano. Esegui il piano! Consegna la quota prescritta, la fornitura! In primo luogo, lo Stato. La gente: zero, meno di zero». Lo si poteva capire ancor prima delle purghe, all’inizio degli anni ‘30, durante la grande carestia, quando da Mosca era giunto un ordine che neppure lo zar si era mai sognato di dare: «uccidere per fame i contadini dell’Ucraina, del Don, del Kuban’, uccidere loro e i loro bambini», con l’accusa di essere, loro, gli affamatori. Morirono a milioni, in quegli anni, «fu come non fossero vissuti. (…) Dov’è andata a finire quella vita? Dove quelle orribili sofferenze? Possibile che non sia rimasto nulla? Possibile che nessuno paghi per tutto ciò? Ma allora tutto sarà dimenticato, senza una parola?». Quanta pena nei racconti di sofferenza che Grossman raccoglie in queste pagine. «Sembra che tutta la terra gema, insieme alla gente. Ma se Dio non esiste, chi mai darà loro ascolto?». Non fu, però, la pena per tutto questo dolore a catturare l’attenzione dei contemporanei: ciò che «sbalordì il mondo più che la scoperta dell’energia atomica» e determinò «il destino del ventesimo secolo» («il secolo della massima violenza dello Stato sull’uomo») fu la sintesi «di non-libertà e di socialismo» partorita dal genio di Lenin. Fino ad allora si era pensato che il progresso fosse essenzialmente «progresso della libertà umana», ma lo sviluppo della Russia apriva ora una strada nuova, capace di conciliare progresso e schiavitù. «Gli apostoli europei delle rivoluzioni nazionali videro fiamme levarsi ad Oriente. Gli italiani e in seguito i tedeschi cominciarono a maturare, ognuno a modo suo, l’idea di un socialismo nazionale». Prima lo zar, poi Lenin; oggi Putin, la Cina; domani un mondo tecnocratico, chissà?
A quella che definisce la legge di conservazione della violenza - secondo cui «la violenza è eterna, checché si faccia per distruggerla, essa non sparisce, non diminuisce, si trasforma soltanto» - e a cui lui stesso pare per un attimo cedere, Grossman, che non ha affatto fiducia nella destalinizzazione, oppone pur tuttavia alla fine un ostinato atto di fede: «per grandiosi che siano i grattacieli e potenti i cannoni, per illimitato che sia il potere dello Stato e possenti gli imperi, tutto ciò non è che fumo e nebbia, destinato a scomparire. Rimane, si sviluppa e vive soltanto la vera forza, che consiste in una sola cosa – nella libertà. Vivere significa essere un uomo libero. Non tutto ciò che è reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile». E se fosse proprio questa pietas il più profondo lascito della secolare tradizione russa?
Ps. Annoto a mo’ di chiosa un pensiero bellissimo, da ruminare con calma: «sì, felicità è spartire con te quel peso che con nessuno potrei spartire, se non con te».
(finito il 3 luglio 2019)
Ho parlato di
Ho parlato di
Vasilij Grossman
Tutto scorre...
(Adelphi, 1987)
trad. di G. Venturi
232 pp. | 12 €
(ed. or.: Vsë tečët..., 1970)