Sempre a proposito di Stati Uniti, Gore Vidal è un intellettuale che, se non fosse morto esattamente dieci anni fa, proprio in questi giorni, mi aspetterei oggi di ritrovare impegnato a sostenere che le ragioni profonde della guerra in Ucraina sarebbero da attribuire anzitutto all’espansionismo americano nell’Europa orientale, con la stessa vis polemica con cui, dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e l’Afghanistan, aveva apertamente preso posizione contro l’amministrazione di Bush junior. Ma poiché si tratta anzitutto di un grande scrittore (anzi, per me, uno dei grandissimi), dubito che la sua produzione saggistica possa offrirci spunti di riflessione più stimolanti rispetto alla sua opera narrativa, fra cui un posto a sé hanno i sette romanzi del ciclo “Narratives of Empire”, ciascuno dei quali dedicato a un momento chiave della storia che ha condotto l’America dalla proclamazione della sua rustica indipendenza alla conquista dello status di superpotenza globale. Il quarto volume della lista, intitolato semplicemente Impero, racconta in particolare quel periodo compreso tra il 1898 e il 1905 in cui per la prima volta la bandiera a stelle e strisce fu innalzata in luoghi esotici a coronamento di un’occupazione militare presentata come meritoria opera di liberazione (in questo caso, Cuba, Portorico e le Filippine sottratte alla Spagna dopo una breve guerra). Sono le avvisaglie del nuovo secolo che sta iniziando e che si preannuncia per gli americani come quello del «nostro apogeo» e della «nostra età augustea», in cui essi si arrogheranno l’onere, fin qui sostenuto per lo più dall’Inghilterra, di «civilizzare e (…) cristianizzare» le popolazioni arretrate, procedendo pian piano «verso l’annessione, se possibile, del mondo intero». Qui però non si ha solo uno scarto tra la “vecchia” Europa e la “giovane” America, ma anche tra la “vecchia” America rappresentata da chi guarda con nostalgia al patriarca Lincoln (che pure era stato un innovatore) e la “nuova” America pronta a lanciare il guanto di sfida alle altre potenze mondiali, dimostrando così di saper cavalcare il corso di una storia in rapida accelerazione, la cui legge fondamentale sembra essere quella «che vuole che il più efficiente sia destinato a prevalere».
Ebbene, Vidal si colloca al cuore stesso del sistema e descrive le lotte chi vi avvengono, per lo più dietro le quinte, per assicurarsi appunto la possibilità di controllare questa trasformazione della confederazione in una «neo-repubblica imperiale», sebbene la parola “impero” e i suoi sinonimi non vengano mai usati nei discorsi ufficiali, dal momento che ciò potrebbe urtare gli americani più sensibili (poi ci dicono, a noi insegnanti di storia: “tagliate, per arrivare a parlare dei giorni nostri!” Ma come si fa a tagliare, con due ore appena a settimana, se persino in questo paragrafo relativamente minore dei nostri manuali scolastici si annidano vicende così interessanti?). In questo prototipo di House of Cards, il talento dell’autore emerge soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, che siano reali o fittizi. Il presidente McKinley, per esempio, col suo «pancione, largo e rotondo come il mappamondo», incarna perfettamente «lo spirito della nostra razza nel momento in cui irrompiamo sulla scena mondiale e recitiamo il nostro ruolo, un ruolo di leader». «Papale» quanto i senatori che lo circondano assomigliano ai «cardinali della Roma rinascimentale», «sapeva a stento chi fossero Giulio Cesare o Alessandro Magno, eppure aveva conquistato una parte della terra altrettanto estesa senza muoversi una sola volta dalla sua orribile residenza di stato, con i suoi importantissimi telegrafi e i non meno potenti telefoni». «Nel corso degli anni, la bontà del suo temperamento aveva trasformato un viso che sarebbe potuto essere ottuso, un po’ bovino, in una radiosità quasi divina: “quasi”, perché, a differenza della maggior parte degli dèi, in William McKinley non c’era collera, perfidia, invidia dell’umana felicità, ma solo una continua, raggiante umanità, quasi un’aureola confortante intorno alla sua grossa testa, il cui mento rotondo rifletteva la luce del sole pomeridiano grazie al burro del quale era unto, come fosse stato un unguento sacro».
L’assassinio di questo «garbato Buddha americano» ad opera di un anarchico, nel 1901 - un anno dopo quello di Umberto I -, spiana la strada a un personaggio che per certi versi ne è l’opposto caratteriale, il suo vice Theodore Roosevelt, anch’egli oggetto di un ritratto memorabile da parte di Vidal. «Uomo di pura energia (…) primitiva e irrazionale», «energia inesauribile al di fuori di qualsiasi disegno», perennemente in movimento «come un soldatino che qualcuno avesse caricato con la molla ma si fosse dimenticato di orientare in una precisa direzione», «tutto azione e spacconate» accompagnate da un fiume infinito di parole ininterrottamente riversate sui suoi interlocutori – Teddy è «un eroe ai suoi stessi occhi», a cui appare come un vero cowboy, un americano tutto d’un pezzo, una cosa sola con l’uomo della strada. «Lui vuole qualunque cosa il popolo voglia» - e sa come ottenerlo: «un uomo istruito – e certamente allude a se stesso – non deve darsi alla politica in qualità di persona colta perché è destinato ad essere sconfitto da qualcuno del tutto privo di istruzione (…); perciò lo consiglia di affrontare le elezioni come se fosse privo di istruzione e di presentarsi all’elettorato (…) semplicemente come un americano; in questo caso vincerà ed è questo quello che conta». Ebbene, questo personaggio così apparentemente fuori dagli schemi, diventato, a 42 anni, il più giovane e anche «il più improbabile» dei presidenti americani, si ritrova a occupare «un posto più rilevante di quello di Traiano nella fase più importante dell’impero romano (…). Nessuno, prima d’ora, ha avuto tanto potere, in un momento così favorevole della storia».
Possibile che gli oligarchi di Washington si siano fatti cogliere di sorpresa da questa mina vagante populista? Niente affatto. Anche se si presenta come uno «zelante riformatore» dalla parte del popolo contro i poteri forti dei trusts, Roosevelt ha comunque bisogno della «macchina del partito» per diventare prima governatore dello Stato di New York, poi vicepresidente di McKinley e infine candidato vincente alle presidenziali nel 1904. Il fatto è che Teddy «parla proprio come noi e agisce come vogliono che agisca le persone che pagano per lui». É lui il condottiero perfetto per far digerire agli americani, «nel nome della ricerca della felicità, della libertà e dell’indipendenza», e ancor più nel nome del benessere, «un concetto così tipicamente non americano come quello di impero», ma di cui ormai non si può più fare a meno. In realtà, già «al tempo di Lincoln il popolo non svolgeva alcun ruolo nel governo degli Stati Uniti, e ancora meno ora, nell’era di Theodore Rex. Lincoln era stato incline a governare per decreto, grazie al principio multiuso della “necessità militare” che conferiva legittimità alle sue azioni più arbitrarie. Roosevelt, dal canto suo, perseguiva i propri interessi nella sua maniera reticente e alquanto sorprendente: era per l’impero a ogni costo. Il popolo, naturalmente, era sempre più o meno lì: di tanto in tanto bisognava lusingarlo, esortarlo alla battaglia o ad assecondare qualsiasi desiderio del Cesare Augusto di Washington. Il risultato era una costante tensione tra il popolo in generale e la classe dirigente, persuasa (…) della necessità di concentrare la ricchezza nelle mani di pochi facendo in modo che questi ultimi, per quanto possibile, si mantenessero virtuosi, almeno in apparenza». Ma tutto sommato questo patto iniquo andava bene ai «bravi americani, ansiosi di mantenere i loro padroni nel lusso e se stessi nella speranza di vincere un giorno alla lotteria» - e per questo ostili a qualunque reale programma di redistribuzione delle ricchezze, liquidato subito come pericoloso “socialismo”.
Paradossalmente, l’unico che sulla carta avrebbe la forza di mettere i bastoni fra le ruote a Roosevelt e all’oligarchia che lo tiene in piedi è un personaggio non meno controverso, quel William Randolph Hearst che fornì a Orson Welles l’ispirazione per Citizen Kane, Quarto potere. Con tutti i giornali che possiede, Hearst, in realtà, il suo impero ce l’ha già, di natura mediatica: non a torto, si considera il vero vincitore della guerra contro la Spagna perché sono state proprio le sue testate a convincere gli americani che l’incidente che aveva dato inizio alle ostilità era stato innescato dagli avversari (cosa tutt’altro che verificata). In questa strana «democrazia basata sui giornali», il «potere reale» e «definitivo» appartiene infatti a «chi reinventa per tutti il mondo, offrendo loro i sogni che si voleva sognassero» - e sebbene neanche Hearst capisca bene la natura esatta di questo potere, sa tuttavia come farlo funzionare. Eccoli, estrapolati da punti diversi del libro, i capisaldi del suo metodo, che sono ancora oggi alla base di tanta sedicente informazione fatta “porta a porta”: «ciò che conta è la luce in cui si mostrano le cose»; «se non ci sono notizie esaltanti da riferire, bisogna crearle»; «ma era improprio parlare di notizie. Non si trattava di notizie ma di divertimento per le masse»; «la chiave di valutazione era il divertimento. Che cosa avrebbe maggiormente eccitato il rozzo cittadino medio?, chi avrebbe rinunciato a un penny per leggere il “Journal”?»; e se il cittadino medio ama gli scandali, offrirgli quello che vuole è un modo generoso di prenderlo finalmente in considerazione e di stare dalla sua parte; «naturalmente terremoti, risultati delle elezioni e delle partite di… baseball (…) sono notizie e pertanto devono essere riportate. Ma il resto di ciò che stampiamo è letteratura, di un tipo particolare che intrattiene, diverte e infiamma i nostri lettori cosicché loro comprano tutto ciò che i nostri inserzionisti hanno intenzione di vendere» (qui le parole di Hearst sono mescolate a quelle di Caroline Sanford, che è invece un personaggio di fantasia, ma non per questo meno affascinante; «una donna indipendente, in un modo al quale il loro mondo non era abituato», che, pur avendo avuto un’educazione europea, abbraccia la carriera editoriale perché comprende che quello è, appunto, il modo per ottenere potere in un paese in cui, in quanto donna, non sarebbe ancora riuscita, neanche oggi, a diventare presidente). Chi è, dunque, Hearst? «Un visionario. Difficile dirlo. Piuttosto, un innovatore, un imprenditore, un evento della natura».
In forza di questo suo potere, Hearst è «soddisfatto di rimanere al suo posto, come outsider, sì, ma in grado di terrorizzare tutti gli insider». Finché il «populista milionario» non accetta più di essere trattato con sufficienza dai circoli dell’America bene e decide di entrare in politica anche lui, contro «l’unico uomo verso il quale (…) mostrava segni d’invidia», ossia proprio quel Roosevelt che ritiene essere una sua creazione («siamo stati noi a inventarlo», esaltando oltre ogni misura le vittorie ottenute dal gruppo di volontari da lui comandato in occasione della presa di Cuba, quando Roosevelt divenne una sorta di eroe nazionale). Con questa scelta, appare davvero sulla scena «un’entità nuova, singolare e potente (…) Il creatore (…) cercava di creare se stesso. Era come se uno specchio, invece di riflettere un’immagine, ne avesse proiettata una al di fuori di sé. Hearst era in grado di modificare, in svariati modi, la realtà, ma questa doveva esistere prima che lui potesse operare la sua strana magia. Poteva uno specchio deformante riflettere se stesso se non aveva niente davanti? Hearst era reale?». Fino a quel momento la repubblica americana - «o comunque si volessero definire gli Stati Uniti» – era stata governata «nel migliore dei modi da una classe di ricchi proprietari responsabili» che lasciava di tanto in tanto votare la gente per salvare le apparenze. Teddy Roosevelt era uno splendido leader “popolare”, ma del tutto innocuo, se non addirittura funzionale al mantenimento di questo status quo: “l’americano” per cui si batte è infatti un artificio che esiste solo nella sua testa. Invece «Hearst era diverso, riusciva a suscitare nel popolo reazioni imprevedibili, era in grado di inventare problemi, e poi soluzioni – inventate anch’esse ma non per questo meno popolari. Ora la contesa avveniva tra i pochi dall’animo nobile, guidati da Roosevelt, e Hearst, il vero inventore del mondo moderno. Ciò che Hearst decideva in modo del tutto arbitrario si trasformava in notizia e i pochi potenti erano obbligati a reagire alle sue invenzioni. Sarebbe però riuscito – ed era un punto alquanto discusso dai pochi – a creare le notizie in modo tale da impadronirsi di una delle cariche più alte dello stato, se non addirittura della più alta?». Allora la testuggine si chiuse e l’assalto del barbaro venne respinto: da parte di Vidal non c’è nessuna concessione alla retorica impiegata per escluderlo, ma neanche la minima simpatia per Hearst. Tanto più che l’attacco si è solo spostato su un altro fronte: «ma io andrò avanti – dice, infatti, il magnate, dopo la sua sconfitta – e continuerò a descrivere il mondo in cui viviamo, che diventerà quello che dirò io». E noi ci siamo pienamente dentro.
(finito il 20 aprile 2021)
Ho parlato di
Impero
(Fazi 2019)
trad. di B. Marietti
712 pp. | 20 €
(ed. or.: Empire, 1987)