Tra le tante possibilità che ti offre l’insegnamento in una scuola superiore c’è anche quella di poter ritornare, a distanza di vent’anni (per ora), sulle piste letterarie già battute nella tua adolescenza per proporre ai tuoi studenti di oggi quel che un tempo affascinò lo studente che fosti. E dato che non basta andare a memoria per reggere il confronto con chi sta al gioco e decide inopinatamente di assecondarti, ecco che ne approfitti per riprendere davvero certi libri in mano, magari in edizione più recente, e per rileggerli con l’occhio e la testa di chi nel frattempo ha macinato migliaia di altre pagine e stabilito centinaia di altre connessioni (massì, esageriamo).
In un appunto datato marzo 2000 (ultimo anno di liceo) collocavo, appunto, Conrad fra gli autori eletti del mio canone personale. Di lui mi affascinava soprattutto – annotavo – «il suo modo di descrivere il mare come nemico metafisico». Questo, però, è un romanzo di terra, o tutt’al più un romanzo di fiumi: il Tamigi, anzitutto, la «tranquilla via d’acqua» che dal centro economico del mondo moderno «conduceva agli estremi confini della terra» e dunque anche alla foce di quell’altro imponente fiume africano, risalire il quale era invece «come viaggiare indietro nel tempo sino ai più lontani albori del mondo, quando la vegetazione cresceva sfrenata sulla terra e i grandi alberi erano re». Qui è appunto la foresta, non il mare, con il tifone o la bonaccia, a incombere minacciosa sui protagonisti del racconto: «alberi, alberi, milioni di alberi, imponenti, immensi; che s’arrampicavano altissimi; e ai loro piedi abbrancato agli argini per difendersi dal fiume, quel sudicio battello si trascinava come un pigro scarafaggio che striscia sul pavimento di un nobile porticato». Dall’antichità remotissima pietrificata in questo paesaggio ancestrale riemerge una «verità spogliata del manto del tempo». Anche se qui il cielo è perennemente terso, l’aria è soffocante e «non c’è gioia nello splendore del sole». Troppa luce, anzi stordisce: «qualcosa di mostruoso e di libero» assale le ingenue sicurezze di chi si spinge avanti, sempre più avanti, presumendo di estendere il raggio luminoso della civiltà e sprofondando invece incautamente «nel cuore di un’immensa tenebra». É ciò che accade a Kurtz, musicista prestato al commercio d’avorio, «un uomo notevole» che fissa così a lungo l’abisso finché l’abisso non se lo prende e se lo divora, come il povero islandese leopardiano sbranato dai leoni dopo il rivelatorio dialogo con la natura. Marlow, il narratore, si ferma un attimo prima di varcare la soglia, ma tanto gli basta: «nel sole accecante di questo paese avrei conosciuto il demone flaccido, pretenzioso e miope di una follia rapace e spietata», l’oscuro movente che tiene in piedi quella farsa che è la storia umana abbandonata a se stessa.
«“Voi non potete capire. Come potreste? - con un solido pavimento sotto i piedi, tra vicini sempre pronti ad applaudirvi o a saltarvi addosso, voi che v’insinuate guardinghi tra il macellaio e il poliziotto, nel sacro terrore della forca, dello scandalo e dei manicomi – come potete immaginare in quali particolari regioni dei tempi primordiali i suoi piedi senza pastoie possano condurre un uomo sulla via della solitudine – di una solitudine totale senza neanche un poliziotto – sulla via del silenzio – di un silenzio totale, dove non si può neppure udire la voce ammonitrice di un vicino gentile che si fa tramite sussurrante dell’opinione pubblica?». “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case...” ripeterà di lì a poco Primo Levi: perché, di lì a poco, sarebbe crollata la messinscena autoconsolatoria su cui si reggeva la benpensante società europea, capace di esorcizzare la violenza solo perché aveva saputo spostarla un po’ più in là, dove gli ideali andavano continuamente a infrangersi sulla muraglia immota della giungla eterna – e l’orrore del colonialismo si sarebbe ritorto contro l’Europa producendo l’orrore dei lager. Questa confessione presentata quasi come un sogno, con «quella mescolanza di assurdità, di sorpresa e di smarrimento, in un fremito di spasmodica rivolta, quell’impressione di essere prigionieri dell’incredibile che è l’essenza stessa dei sogni», costituisce anche per i suoi tratti visionari uno dei più potenti e geniali apologhi dell’intera parabola occidentale, un’apocalisse in piena regola, rivolta a chi ha orecchi per intendere. Pubblicato nel 1899, Cuore di tenebra chiude idealmente l’Ottocento delle magnifiche sorti e progressive, ma il suo battito continua a pulsare sangue umano, oltre le stragi novecentesche, dalle ferite aperte di questo piccolo scorcio di XXI secolo.
(finito il 20 ottobre 2018)
Ho parlato di
Ho parlato di
Joseph Conrad
Cuore di tenebra
(Feltrinelli, 2013)
trad. di E. Capriolo
(Feltrinelli, 2013)
trad. di E. Capriolo
124 pp. | 6 €
(ed. or. Heart of Darkness, 1899)
(ed. or. Heart of Darkness, 1899)