Provo un po’ di vergogna nel confessare che non avevo mai letto nulla di Lidia Rolfi e molta di più per aver pensato che quella vergogna dovesse ricadere su di me in quanto monregalese, anziché – come dovrebbe essere – in quanto italiano, se non in quanto essere vivente e pensante, giacché qui non si tratta evidentemente di esaltare una concittadina, per quanto meritevole di massima stima, bensì di riconoscere che un libro come questo, che riesce a tenere insieme l’immediatezza della testimonianza diretta di una ventenne, senza nulla concedere al patetico, e la lucidità della riflessione matura di una settantenne - una lucidità oltretutto calorosa, appassionata, tutt’altro che fredda, e proprio per questo fieramente antiretorica - meriterebbe senza dubbio di trovare assai più spazio nella nostra sbiadita memoria collettiva, per quel che racconta, ovvio, ma anche per le questioni, ancora attualissime, che pone e che lo rendono sorprendentemente moderno. Non so mai bene quanto siano efficaci le letture imposte dalla scuola (io che da studente le ho spesso rifiutate, quanto più le percepivo come “canoniche”), ma se quelle che propongono alle mie classi non dovessero superare la diffidenza degli allievi, i colleghi di italiano si consolino sapendo di trovare in me un discepolo docile, ancorché ritardatario. É proprio in questo modo, infatti, che ho colmato la presente lacuna.
Da come si apre il libro, uno potrebbe aspettarsi di trovarsi immerso in un clima d’euforia. In fondo la data posta in calce è quella del 26 aprile del ‘45, la guerra a un passo dalla fine, i lager finalmente aperti, il diritto di essere vivi non più insidiato dall’arbitrio di un qualunque sottoufficiale delle SS che gioca a fare Dio: a pensarci con raziocinio non ha nessun senso, ma la tentazione di immaginarsi questo momento come una grande festa collettiva, una sorta di gloriosa marcia dei redenti, è quanto mai forte. Basta però voltar pagina perché ogni ipotesi di melassa sparisca nello stesso fagotto in cui viene avvolto il corpo senza vita di una donna violentata e strangolata – e proprio non importa nulla che la vittima sia una donna tedesca, dunque una “cattiva”, e i suoi aguzzini dei soldati russi, ossia, in quel momento, dei “buoni”. Non lo è per noi, ma neppure per la giovanissima maestra, poi staffetta partigiana, poi internata che racconta costernata l’evento e che qualche motivo in più di noi per esigere una rivalsa ce l’avrebbe pure avuto. «La vendetta dei vincitori aveva ricominciato a reclamare le sue vittime e come sempre a pagare non erano le responsabili, le Aufscherinnen del Lager, ma quelle donne costrette a subire per vendetta lo stesso trattamento che altre donne, in Russia, avevano subito dai tedeschi invasori. La vendetta! Sì, qualche volta, nei momenti peggiori, potevo anche averla desiderata o almeno pensata, ma non così, non in quel modo, non a guerra finita. Quella notte stentai a prendere sonno. Quella notte mi è tornata tante volte, troppe volte, alla memoria, una goccia nel mare della vergogna della guerra, una goccia che non sono ancora riuscita a far evaporare, che non vuole evaporare, che emerge sempre quando vedo i mucchi di corpi senza vita dei Lager o quelli delle tante altre guerre che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il mondo».
Con questa amara constatazione comincia il complicatissimo ritorno di Lidia a quella sua vita “di prima” che non potrà mai essere una vita “come prima”, perché lei, nel frattempo, è cambiata tantissimo, mentre il piccolo mondo antico da cui era stata strappata con la forza durante una retata nazifascista no, e ora di una donna intelligente, grintosa ed emancipata come lei non sa proprio che farsene. Neanche un conflitto mondiale ha scardinato il principio per cui «le donne per bene stanno a casa, allevano i figli, servono gli uomini, oppure insegnano, ricamano, cucinano. Poi ci sono le altre e io avrei potuto essere una di quelle». Per la sua particolarissima storia di donna deportata – e deportata non per ragioni razziali, ma perché impegnata in prima persona nella lotta di Liberazione – non c’è spazio neanche nel racconto condiviso che comincia a costruirsi sin dalle prime tappe dell’odissea dei reduci, figuriamoci a casa, dove deve sopportare i rimproveri dei familiari e le maldicenze di quei vicini che la sanno sempre più lunga di tutti. Che tocchi fare i conti con quelli che vivono sicuri nelle loro tiepide case e pretendono di emettere sentenze sull’universo mondo dall’alto della loro sedia a dondolo, passi pure: Lidia ha le spalle larghe. Fa molto più male il disprezzo dei professori universitari che non sopportano il privilegio accordato ai partigiani di iscriversi con un anno di retroattività ai loro corsi e le regalano voti minimi con domande di una banalità umiliante («due mesi non bastano per preparare seriamente il mio esame»: così parlò il titolare di Storia della filosofia), e ancor più l’allusione di quel capo partigiano secondo cui «le partigiane si fanno uccidere, non si fanno prendere prigioniere» (sottintendendo, come tanti altri, un’infamante connivenza col nemico). Più di ogni altra cosa, tuttavia, brucia soprattutto l’esclusione dal diritto di voto il giorno del 2 giugno, quando, sì, le donne sono per la prima volta ammesse ai seggi, ma solo quelle che hanno compiuto la maggiore età (ventun anni, allora) da almeno sei mesi – non lei, dunque, che ventuno li aveva fatti ad aprile ‘46. «Avevo avuto il diritto di combattere in nome della libertà e della democrazia, ma ero immatura per esprimere il mio voto. Fascisti, collaboratori, borsisti neri, arteriosclerotici, analfabeti, anormali, votarono tutti, portarono i malati in barella e i ciechi con l’accompagnatore, votarono anche i moribondi e io li guardai salire in quello che avrebbe dovuto essere il mio seggio, invidiosa di quel diritto che a me una legge che sembrava ingiusta aveva sottratto». Non è l’unica incongruenza: quando, superato il concorso, potrà scegliere la sua destinazione definitiva, scoprirà che «le poche sedi in città erano tutte classi maschili, riservate ai maestri maschi. (…) Le quarte e le quinte maschili delle città, tutte sedi comode, accessibili con i mezzi pubblici, erano riservate ai maschi». Per lei e quelle come lei, pluriclassi vacanti in montagna o in alta Langa.
A malincuore Lidia prende atto che la Resistenza ha prodotto figli e figliastri. Non era questa la giustizia «di cui si discuteva in montagna», quando, da fanatica adoratrice di Mussolini, era andata incontro a una rapidissima educazione politica, mettendosi in gioco in prima persona. La caduta del Duce ha solo portato a galla la pervasività di quella legge non scritta - assai più radicata del fascismo istituzionale, e in un certo senso garante del suo successo - che torna a stringersi intorno a Lidia come un cappio arcaico e patriarcale, soprattutto nel comparto scolastico, dove lei lavora, controllata e schedata da solerti funzionari insofferenti verso chiunque sgarri dalle buone vecchie tradizioni, anche se nei loro uffici ora è appeso il ritratto del Presidente della Repubblica anziché quello del Re. Tant’è che il dubbio le viene: «mi convincevo sempre di più che la liberazione era stata una gran buffonata, che i fascisti erano ancora tutti al loro posto e che forse avevano avuto ragione quelli rimasti alla finestra in attesa degli eventi». Non chiediamoci allora da dove saltino fuori i Vannacci: semplicemente, non si sono mai mossi di lì.
(finito il 10 ottobre 2021)
Ho parlato di
L'esile filo della memoria
(Einaudi 2021)
230 pp. | 12 €
(ed. or.: 1996)