Da ragazzino, desideroso com’ero di conoscere tutto il conoscibile e tuttavia consapevole di non sapere in realtà nulla del mondo (ancora nulla, mi piaceva credere, nella mia beata ingenuità), stimolato da un gioco venuto fuori quasi per caso facendo interagire fra loro i diversi pupazzetti che mi giravano per casa, per un certo periodo pensai che forse potesse valere la pena di forgiarmene uno tutto mio, di mondo, con la sua geografia, la sua storia e la sua mitologia, di cui fossi detentore unico e coscienza assoluta senza dover attraversare l’estenuante fatica del concetto. Vi centrifugai ciò che avevo saccheggiato dalle mie disperse letture, buttandoci dentro pure tutte le mie incipienti manie per le mappe, gli alberi genealogici, le lingue fittizie, e in generale per quelle ampie sezioni introduttive di giochi di ruolo a cui non avevo mai giocato e che chissà come mi erano comunque finite per le mani (non mi stancherò mai di sottolineare di avere avuto un’infanzia predigitale, quando le cose non erano così facilmente accessibili come oggi, specie in provincia, e certi incontri avevano davvero del miracoloso). Quel poco che ebbi il coraggio di sottrarre al piano della pura fantasia lo annotai su carta e purtroppo o per fortuna è pressoché del tutto andato perduto, salvo – ma queste vennero poi molto tempo dopo – le pagine iniziali di un possibile romanzo che in quel mondo avrei avuto intenzione di ambientare. Per un sussulto di lucidità o per mera pigrizia, però, non ci ho creduto abbastanza. Frank Herbert è invece uno di quelli che (come Asimov, come George Lucas, come Tolkien, come Eiichiro Oda) ci ha creduto fino in fondo e ne ha tirato fuori questo libro pazzesco che è Dune, con tutto il ciclo che ne consegue (per ragioni affettive gli preferisco pur sempre quello di Hyperion, che però senza Dune sarebbe stato inimmaginabile).
Qui si entra pianissimo, a poco a poco, proprio come se il corpo dovesse prendere davvero confidenza con un’altra gravità o il respiro con un’altra atmosfera. Tecnicamente, credo sia la parte più difficile da scrivere, perché si tratta di spiegare una alla volta le regole d’ingaggio disponendo le pedine sul tavolo, non solo senza disorientarti troppo, ma facendoti già un po’ provare l’ebbrezza del gioco. Per me – che sono capace di apprezzare la cornice più del dipinto (anche se qui la distinzione è opaca, in quanto la cornice, in un certo senso, è essa stessa il dipinto) - fu un’esperienza folgorante, immersiva, affrontata tutta d’un fiato, tanti anni fa, prima di abbandonare inopinatamente la lettura di colpo - mi piacerebbe pensare perché abbacinato dalla grandezza della visione (qualcosa di simile mi è davvero capitato, con Melville, con Dostoevskij, con Proust), ma più probabilmente per qualche fortuita coincidenza della vita (andando a rivedere le date, credo ci fosse di mezzo l’esame di ammissione al TFA, che assorbì per mesi quasi tutte le mie energie mentali). La curiosità per il film di Villeneuve mi ha spinto a riprendere il filo e a seguirne lo sviluppo sino alla fine. Ed è stato in quest’occasione che ho scoperto che, superata la parte iniziale, poi il libro accelera, eccome se accelera. Certo non è brevissimo – sono circa 700 pagine nella mia edizione – ma a soppesarlo tutto, a lettura finita, non sembra veramente possibile che ci stiano davvero tutte quelle cose, lì dentro (tant’è che il film stesso, in due ore e mezza, riesce a riprenderne solo la metà, a occhio e croce).
Naturalmente, come si conviene all’epica, che vive di archetipi, non tutti gli ingredienti sono originali. Abbiamo anche qui, come altrove, progetti segreti pianificati su scala cosmica e millenaria, frutto dell’interazione tra religione e genetica. Anche qui, come altrove, c’è un eletto e forse pure un’eletta che devono svelarsi al mondo, e la cui natura elettiva (almeno per lui) coincide con la precognizione di un possibile futuro in cui sembrerebbe responsabile di massacri di cui non vorrebbe macchiarsi – e dunque anche qui, come altrove, si assiste alla lotta tra un destino apparentemente segnato e gli scarti della libera individualità. Anche qui, come altrove, abbiamo un sistema politico feudalizzato, con casate in lotta per il potere, un imperatore truffaldino e gilde di commercianti che giocano una partita tutta loro. La stessa onomastica sembra voler veicolare subliminalmente qualche suggerimento: il protagonista e il suo clan sono infatti Atreides, esattamente come Agamennone e Menelao e tutta la loro stirpe di omerici parenti serpenti protagonisti di saghe e tragedie. Ma, esattamente come quando si beve un cocktail, ciò che si valuta è la capacità di far risaltare in modo nuovo gusti già noti, quel che suscita la mia infinita ammirazione è la padronanza, anche di dettaglio, con cui Herbert riesce a tenere tutto insieme in un universo coerente e intrigante, senza mai perdere ritmo narrativo.
Di specificamente suo ci aggiunge l’attenzione alla peculiare ecologia del pianeta Arrakis (alter ego di Dune), una sorta di gigantesco e inospitale deserto, dove i liquidi sono così preziosi che un atto come uno sputo è considerato un gesto di estrema cortesia, di cui non importerebbe nulla a nessuno, come avviene per analoghi scatoloni di sabbia della nostra Terra, se il suo sottosuolo non fosse l’unico luogo dello spazio in cui si trova il melange, una spezia capace di suscitare fortissime esperienze allucinogene e al tempo stesso necessaria per la navigazione spaziale, equivalente in un certo senso al petrolio per la moderna economia industriale (il libro esce pur sempre alla metà degli anni ‘60, e questo spiega in parte lo strano connubio tra psichedelia e terzomondismo). Tutto ciò rende il pianeta appetibile e conteso, ma solo in quanto oggetto di sistematico sfruttamento, come se questa fosse l’unica modalità d’interazione con l’ambiente praticabile dall’uomo. Su Arrakis vive però anche una popolazione autoctona, i Fremen, considerati da tutti gli altri popoli dell’Impero poco più che dei barbari. E invece è proprio all’interno di questa comunità periferica e schiacciata dalla storia galattica che nasce un’idea nuova. «Dobbiamo fare su Arrakis quello che non è mai stato tentato per un intero pianeta (…). Dobbiamo usare l’uomo come una forza ecologica costruttiva, inserire in questo mondo una vita terrestre, adattata: una pianta qui, là un animale, un uomo. Per trasformare il ciclo dell’acqua e creare un nuovo paesaggio». L’intero ecosistema di Arrakis può essere trasformato in meglio, con ricadute positive per tutti, se si abbandona la logica del profitto di chi arriva da fuori e si accolgono le intuizioni di chi vi ha sviluppato la propria originale cultura maturando con esso un’inedita forma di convivenza. Alexander von Humboldt avrebbe apprezzato molto tutto questo.
Al di là della sua capacità di generare intelligente godimento attraverso l’intreccio e il contesto, credo proprio siano questi temi a mantenere Dune in splendida forma, a distanza di sessant’anni. Più che il gusto di questo vecchio nerd, ne sia testimone l’entusiasmo di quel mio studente, appena maggiorenne (e, mi permetto di dire, proprio uno della “mia” cricca: ora fa storia), che i romanzi della serie se li è divorati tutti, uno dopo l’altro, con una tale voracità da spingere la lettura, tutte le mattine, fino all’inizio delle lezioni, e riprenderla, poi, quasi sempre, ad ogni suono di campanella. Niente da dire, caro Frank, hai proprio fatto centro.
(finito il 1 ottobre 2021)
Ho parlato di
Dune
(Fanucci 2012)
trad. di G. Cossato e S. Sandrelli
700 pp. | 4,90 €
(ed. or.: Dune, 1965)