La doccia fredda per Mondovì giunse l’8
agosto 1562, quando a Blois venne stipulato un nuovo accordo per regolare
definitivamente le questioni che la pace di Cateau-Cambrésis aveva lasciato in
sospeso tra la Francia e lo Stato Sabaudo. Le trattative non furono semplici da
sbrogliare, anche perchè si inserirono in un quadro complessivo tutt’altro che
sereno. In appena tre anni, infatti, la corona francese aveva cambiato per ben
tre volte titolare: a Enrico II (di cui Emanuele Filiberto aveva sposato la sorella
proprio nel giorno della morte, il 10 luglio 1559) erano succeduti prima il
figlio Francesco II (morto nel dicembre 1560), quindi il secondogenito Carlo
IX, che era solo un ragazzino e governava sotto la tutela della madre, Caterina de’
Medici. Il massacro di Wassy del marzo 1562, inoltre, aveva dato il via a quel
lungo periodo di torbidi e di violenti conflitti interconfessionali che
avrebbero dilaniato la Francia per oltre un trentennio. In tale contesto
Emanuele Filiberto dovette a malincuore rinunciare alle pretese su Pinerolo, ed
anzi si vide persino costretto a consegnare ai transalpini Perosa e Savigliano; in cambio
ottenne però la restituzione di quattro delle cinque piazzeforti ancora sotto
il controllo francese: Chieri, Chivasso, Villanova d’Asti e finalmente
l’agognata Torino, che il Savoia considerava strategica per il controllo del
Piemonte. Il ritiro delle truppe francesi avvenne il 12 dicembre successivo e
il 7 febbraio 1563 Emanuele Filiberto poteva finalmente fare il suo ingresso
solenne nella sua nuova capitale.
Torino, Monumento a Emanuele Filiberto |
L’insediamento della corte ducale a Torino fu
senza dubbio uno degli eventi chiave di quegli anni, ma porto con sè – per
quanto ci riguarda – tutta una serie di complicazioni. A liberazione avvenuta,
il Comune di Torino non tardò infatti a rivendicare gli antichi diritti e a
invocare la riapertura dell’Università dopo la lunga inattività di cui abbiamo
parlato. Gli argomenti avanzati erano solidi, poiché i torinesi potevano
contare sulla concessione rilasciata a suo tempo da Ludovico di Savoia-Acaia,
nonché sul diploma imperiale e la bolla papale che certificavano la fondazione
dello Studio all’inizio del XV secolo. Tali diritti – questo il punto – non
erano mai stati revocati da nessuno: l’occupazione francese aveva semplicemente
imposto un’interruzione forzata alla didattica, che quindi poteva e doveva
riprendere regolarmente il suo corso nel momento in cui erano venute meno le cause della sospensione. E poichè fra i privilegi garantiti
all’Università di Torino vi era quello, anch’esso mai revocato, di poter essere
l’unica istituzione del genere entro i confini del ducato sabaudo, la sua
ricostituzione doveva coincidere con l’immediata chiusura dell’altra sede che
in quel momento stava svolgendo analoga funzione in Piemonte, evidentemente in
modo illegittimo, vale a dire, appunto, Mondovì. Temendo che il loro progetto
naufragasse ancor prima di poter veramente decollare, i monregalesi,
allarmatisi, intrapresero tutte le iniziative che ritennero utili per azionare
le adeguate contromisure, inviando delegazioni al duca per esortarlo a non
assecondare l’interpretazione fornita dal Comune di Torino. Anche Mondovì, del
resto, poteva vantare il suo diploma ducale, firmato per di più dallo stesso Emanuele
Filiberto poco più di due anni prima, e non da un suo lontano antenato, nel quale peraltro non si presentava
affatto l’Università monregalese come una succursale temporanea di quella
torinese, ma come uno Studio interamente nuovo e autonomo, dotato perciò degli
stessi diritti che a suo tempo erano stati conferiti a quello più antico. Se
per far valere le proprie ragioni Torino si riallacciava a delle prerogative
ancora medievali, l’argomento giuridico su cui Mondovì faceva leva era invece
estremamente moderno, a prima vista perfettamente adatto a un’epoca in cui si
andavano formando in tutta Europa i nuovi Stati assoluti. Emanuele Filiberto –
sosteneva questa campana – conosceva perfettamente quali erano i documenti in
mano ai torinesi, e quale il loro contenuto; se perciò aveva ritenuto di
fondare una nuova Università a Mondovì era perchè, semplicemente, riteneva
giuridicamente corretto farlo, ed essendo il duca la fonte unica del diritto
all’interno del proprio stato, ciò che stabiliva aveva valore di legge e nessuno
poteva appellarsi ad altre norme, per quanto antiche, per contrastare le sue decisioni. Ad essere
illegittima non sarebbe stata dunque la creazione dell’Università monregalese, ma la
pretesa di Torino di contraddire la volontà del principe.
El Greco, Ritratto di Pio V (particolare) |
In realtà, quello in cui si era cacciato il
duca era un autentico vicolo cieco giuridico, in cui entrambi i contendenti
avevano buone carte da giocare. Il problema è che due Università in uno Stato
così piccolo non avrebbero potuto resistere, nè la corte avrebbe potuto
mantenerle entrambe: una soluzione, dunque, andava in qualche modo trovata al più presto. La
pressione su Emanuele Filiberto – lo si può immaginare – fu da subito enorme e
il duca dovette nominare un’apposita commissione governativa per esaminare il
caso. Nel frattempo, comunque, onde evitare che l’attività universitaria, da
lui così fortemente voluta, andasse incontro a un’altra sospensione, egli
concesse una deroga a Mondovì perchè continuasse le lezioni in attesa del
verdetto e continuò a incaricare normalmente professori per quella sede. Tra
suppliche, interpellanze e ricorsi, se ne andarono così via altri tre anni,
senza che si riuscisse a trovare un’intesa soddisfacente. Nel 1566, l’elezione
al soglio di Pietro del cardinale Ghislieri col nome di Pio V sembrò segnare un
punto a favore di Mondovì, che si vide prontamente confermare dal suo ex
vescovo i privilegi già riconosciuti quattro anni prima dal suo predecessore
Pio IV. Ma più della benedizione papale, agli occhi di Emanuele Filiberto,
poterono i soldi. L’11 maggio 1566 i torinesi calarono infatti l’asso vincente:
inoltrando al duca l’ennesime domanda per riaprire la scuola, essi la fecero
accompagnare con un cospicuo donativo di quattromila scudi da investire
nell’Università, racimolato attraverso una cordata composta da alcuni ricchi
privati cittadini. Fu proprio l’ingente disponibilità finanziaria messa sul
tavolo da Torino a decidere una contesa che invece, sul piano strettamente
giuridico, era in perfetto stallo.
Ironia della sorte, di fronte a questa
evoluzione Emanuele Filiberto esercitò proprio quella forma arbitraria di
potere che i monregalesi gli avevano riconosciuto e che gli permetteva di
tranciare d’imperio un burocratico nodo gordiano, ma in un senso assai diverso
da quello auspicato a Mondovì. Nonostante le ulteriori perizie raccolte e
nonostante l’estremo tentativo di ottenere ancora un rinvio, adducendo a motivo
l’imminente inizio delle lezioni, l’Università di Mondovì dovette piegarsi alla
volontà del duca, che il 22 ottobre 1566 assegnò definitivamente a Torino
l’esclusiva sui diritti universitari e il giorno dopo intimò ai professori
incaricati a Mondovì di trasferirsi seduta stante a Torino per cominciarvi i loro corsi il successivo 3 novembre. Per
Emanuele Filiberto si trattò di un vero affare. Il Comune di Torino si sobbarcò
per intero la spesa del trasporto dei bagagli dei docenti e si preoccupò di
riattrezzare, sempre a proprie spese, le strutture destinate all’insegnamento;
pur di riavere l’Università, esso si impegnò inoltre a versare ogni anno mille
scudi per coprire i costi di gestione e cedette al duca persino l’usufrutto dodicennale
sulle gabelle cittadine su vino e carni. A Mondovì sarebbe invece rimasta la
tipografia di Torrentino, ora in mano ai suoi eredi, probabilmente perchè il
ceto imprenditoriale torinese, che più si era speso per la riapertura dello
Studio, non vedeva di buon occhio il trasferimento di un’impresa commerciale
già avviata e voleva godere in proprio dei vantaggi economici garantiti dalla
presenza dell’Università. Le motivazioni che spinsero Emanuele Filiberto a una
scelta di quel tipo non furono però solo strettamente finanziarie. Lo
spostamento dell’Università a Torino rientrava infatti in un più articolato
progetto volto a rafforzare la centralità di Torino come capitale dello stato,
negli stessi anni in cui il duca si cimentava anche con la costruzione della
cittadella fortificata e con il trasferimento della Sindone da Chambéry (un
atto che ricapitolava, anche simbolicamente, il trasferimento di competenze,
poteri e interessi dei Savoia dall’area francese a quella italiana).
Ferrante Vitelli, Progetto realizzato per la cittadella di Mondovì, (c) Archivio di Stato di Torino |
Con il 1566, di per sè, Mondovì non vide
completamente annullati tutti i propri diritti: restò infatti in vigore la
possibilità di promulgare titoli, ma il divieto di tenere lezioni pubbliche
rendeva quella monregalese una pura “università di carta”, come sono state
talvolta chiamate le sedi che si limitavano a conferire le lauree senza che vi si svolgesse una qualche forma di
didattica. Negli abitanti della città rimase però soprattutto un senso di
profonda frustrazione, che riesplose in diverse occasioni, anche in forma
violenta, come quando Emanuele Filiberto decise di aumentare il prezzo del
sale. Fu proprio per tenere meglio sotto controllo questa città orgogliosa e
ribelle che il duca decise di innalzare anche qui una cittadella fortificata,
nel 1573, con la motivazione ufficiale che trattavasi di una misura preventiva
onde difendersi meglio da eventuali attacchi degli ugonotti francesi. Oggi
quella cittadella, segno di antico dominio, è uno dei tanti contenitori vuoti
di una città che continua ad avere quasi gli stessi abitanti di allora, ma
distribuiti su una superficie sempre più ampia, quasi ad indicare anche sul
piano topografico un progressivo allentarsi dei legami sociali, che auspico sinceramente
possano invece tornare a rafforzarsi, con un colpo di reni che ci trascini
fuori da un destino di apparente declino e ci rimetta in movimento, magari
proprio a cominciare dal maggio prossimo.
Nessun commento:
Posta un commento