Raggiunta più o meno l’età in cui Tolstoj scrisse Guerra e pace, ho pensato che, non essendo capace di fare altrettanto, fosse giunto per me il momento quantomeno di leggerlo – e così facendo, senza volerlo, dato che l’ho cominciato prima che gli eventi precipitassero, avevo già trovato anche una buona risposta a chi mi avrebbe poi chiesto cosa avessi fatto durante il lockdown del 2020 (DAD e orto a parte, ovviamente). Del resto, è solo grazie al lockdown se, un pezzo alla volta, con incedere direi quasi liturgico, l’ho percorso tutto da cima a fondo in un periodo di tempo relativamente circoscritto, senza smarrirmi per strada. Il rischio, in teoria, è concreto. Apprendo dagli slavisti che il termine russo mir, “pace”, se scritto con una grafia leggermente diversa da quella consueta, che però negli autografi lo stesso Tolstoj era solito alternare all’altra, può significare qualcosa come “mondo”, “universo”, “comunità”, “tutti” – come se nella sua stessa testa un altro modo di leggere il titolo potesse essere, appunto, qualcosa tipo “La guerra, l’universo e tutto quanto”, per parafrasare Douglas Adams. Solo che Adams – pensi - fa dell’ironia, mentre qui, man mano che procedi, ti viene davvero il sospetto che il vecchio Leone ci abbia sul serio provato a raccogliere in un libro “tutto quanto”. D’altronde – si legge in una delle tante digressioni saggistiche e metanarrative in cui sembra spiegarti le regole del gioco – come la matematica e la fisica moderne hanno elaborato gli strumenti concettuali per studiare la continuità del moto e determinarne le leggi, così chi si propone di comprendere davvero la storia dell’uomo dovrebbe smettere di occuparsi dei fenomeni di cui tratta come se fossero episodi discreti, «quando in realtà nessun avvenimento ha né può avere un inizio, ma ciascun avvenimento deriva sempre da un altro, senza soluzione di continuità», e concentrarsi perciò su «quegli elementi omogenei, infinitamente piccoli, che determinano il moto delle masse», ovvero l’infinita quantità delle scelte individuali, a loro volta condizionate da infinite altre scelte precedenti, che costituiscono, prese tutte contemporaneamente, il vero motore degli eventi. A un certo punto uno dei personaggi principali fa un sogno e nel sogno sogna un mappamondo: «quel mappamondo era una sfera viva, oscillante, senza dimensioni. Tutta la superficie della sfera era costituita da gocce compattamente serrate le une alle altre. E tutte quelle gocce si muovevano, si mescolavano e ora alcune di esse confluivano in un’unica goccia, ora da una goccia se ne formavano altre, numerose. Ogni goccia tendeva a espandersi, a occupare uno spazio maggiore, ma le altre, che tendevano allo stesso scopo, la serravano, e a volte la annientavano, altre volte si fondevano con essa. “Ecco la vita”». Wow.
Ed è così che, in queste pagine, la potenza sovrumana della storia mondiale, colta in uno dei momenti più decisivi per la nostra civiltà («il movimento bellicoso delle masse dei popoli europei da Occidente a Oriente, e poi da Oriente a Occidente», che noi per sintesi indichiamo come l’apogeo e il crollo di Napoleone), si incarna misteriosamente nelle intrecciate vicende, spesso del tutto minimali, di decine di personaggi, uno più memorabile dell’altro, prevalentemente russi, ma proprio perché russi, quando a scrivere è un russo, depositari di verità universali (uno dei modi di riassumere il romanzo, ponendoci dal punto di vista dell’autore, potrebbe appunto essere questo: quella volta che l’Occidente razionalista provò a strapparsi il cuore dal petto convinto di vivere lo stesso di intelligenza e buone maniere, ma per fortuna si spezzò gli artigli sull’anima adamantina dei russi, i quali resistettero e salvarono momentaneamente l’integrità dell’Europa). Abbastanza controintuitivamente, tuttavia, e in contrasto coi luoghi comuni che fanno di quest’opera il prototipo di tutti i “mattoni”, Tolstoj dimostra una padronanza totale dell’enorme massa narrativa che gestisce (ci saranno, qui dentro, almeno tre o quattro romanzi diversi che si fondono l’uno nell’altro, mescolando continuamente i generi - più decine di racconti), nonché un invidiabile senso del ritmo e ammirevole scorrevolezza: superata la consueta fatica che si prova con tutti i russi di capire chi è chi, non c’è praticamente una parola fuori posto e non c’è momento di stanca, se non giusto nel finale, che è sorprendentemente fiacco, ma che proprio per questo sembra il modo con cui, dopo averti ammaliato, il prestigiatore ti rivela il suo trucco. Ovvero che puoi raccontare una storia di mille e cinquecento pagine, in cui controlli ogni minimo dettaglio e che dissemini di decine di singoli episodi ciascuno dei quali potrebbe, da solo, giustificare l’esistenza intera di uno scrittore (ne cito qualcuno a caso: la partita a carte in cui Rostov perde tutto, il duello tra Pierre e Dolochov, la battuta di caccia al lupo nella neve, la visita all’ospedale militare dove è ricoverato Denisov, il modo in cui l’amministratore capo di Pierre si fa beffe dei suoi tentativi di riforma nelle sue tenute, il parto del figlio di Andrej, praticamente tutte le scene di battaglia...), solo per dire, paradossalmente, perché è proprio il contrario di quello che stai mostrando al lettore, che la vera storia nessuno ha sul serio il potere di controllarla e che alla fine nulla, ma proprio nulla, può eguagliare la quieta, e alle volte persino anche un po’ triste felicità di un sereno interno familiare.
Meravigliose controfigure dell’autore sono, in tal senso, gli accademici della guerra che, alla vigilia dello scontro, dettano letteralmente agli ufficiali interi piani di battaglia perché li eseguano punto per punto. Poveri illusi, questi «teorici che amano talmente la loro teoria da dimenticare lo scopo della teoria stessa, cioè la sua applicabilità pratica»; spesso tedeschi (e dunque hegeliani fino al midollo), costoro non si rendono conto che non ci può essere mai scienza «in un ambito simile, in cui, come sempre avviene nelle cose pratiche, non è possibile determinare nulla a priori, e tutto dipende da innumerevoli condizioni, l’importanza delle quali si precisa poi tutt’a un tratto, in un solo istante, che nessuno sa mai quando arriva». Fin dall’antichità, per spiegare i successi militari, ci si è inventati il concetto di “genio” e lo si è attribuito ai più celebri strateghi di ogni tempo. «Ma nelle azioni di guerra il merito del successo non spetta a loro, ma all’uomo che nelle fila grida: “siamo perduti!” o che grida: “urrà!”», a quell’imprevedibile variabile – cioè – che sposta l’inerzia in una direzione oppure nell’altra. Coloro che sono sulla cresta dell’onda non se ne avvedono e pensano, al contrario, di essere loro a dettare i tempi alla storia: ne è tipico esempio quel supremo commediante che per Tolstoj fu Napoleone, talmente rapito dalla sua pantomima da finire per crederci davvero e che proprio per questo non riuscì mai a capacitarsi di come, da un certo momento in poi, tutto quello che toccava, anziché trasformarsi, come prima, in oro, cominciò invece a diventare sorprendentemente merda – e senza che lui avesse affatto cambiato il suo modo di agire (lezione che certuni politici nostrani pare non abbiano ancora assimilato a dovere). «Napoleone, che ci viene presentato come colui che era alla guida di tutto questo movimento (così come ai selvaggi la figura intagliata sulla prua della nave sembrava la forza da cui la nave era guidata), Napoleone, in tutto questo periodo della sua attività, era simile a un bambino che, tenendo strette le cinghe fissate all’interno della carrozza, si immagina di esser lui a guidarla». Tutto l’opposto del suo rivale Kutuzov, il quale, anziché scimmiottare l’imperatore, si presenta non già come un «grand homme, che la mente russa non riconosce», bensì come uno «di quei rari uomini, sempre solitari, che intuendo i voleri della Provvidenza sottomettono a essa il loro volere personale». Kutuzov «non parlò mai di sé, non recitò nessuna parte, sembrò sempre essere il più semplice e il più ordinario degli uomini, e diceva le cose più semplici e ordinarie. (…) Questa semplice, modesta, e perciò autenticamente grandiosa figura non poteva calarsi nella forma falsa dell’eroe europeo, presunto dominatore di uomini, che la storia s’è inventata». Proprio per questo è stato sminuito da tutti – osserva Tolstoj – compresi gli stessi storici russi, colpevolmente plagiati dalla mentalità francese: eppure è l’unico che ha capito tutto e ha lasciato che gli eventi seguissero il corso che erano inevitabilmente costretti a seguire, finché, esaurito il suo compito, non gli restò altro da fare se non la morte, «ed egli morì» (anziché querelare da Sant’Elena contro il destino cinico e baro).
Su questo sfondo maestoso si muovono appunto una marea di personaggi, tutti a loro modo epici quanto quelli dostoevskijani sono meschini e grotteschi, in cerca più o meno tutti della chiave che consenta di dare un senso a quello che stanno facendo (ne cito uno per tutti, che così ragiona quando intuisce di essere a un passo dalla morte: «perché mi dispiaceva tanto separarmi dalla vita? C’era qualcosa in questa vita, che io non capivo e che ancora non capisco»). E, tra continui abbagli e passi falsi, grandi slanci e successive depressioni, per qualcuno arriva davvero, improvvisamente, quel momento in cui si mostra il disegno divino, perfetto equilibrio tra tutte le forze del bene e del male – per citare Mario Venuti. Ma proprio come diceva quel testo: è stato un attimo, soltanto un attimo. Ferito apparentemente a morte sul campo di Austerlitz, il principe Andrej Bolkonskij riapre gli occhi, steso sul prato: «sopra di lui non vi era più nulla, all’infuori del cielo (…) Come ho fatto a non vederlo prima, questo cielo così alto? E come sono felice d’averlo conosciuto finalmente. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, all’infuori di questo cielo infinito. Non c’è nulla, nulla, all’infuori di lui. Ma anche lui non c’è, non c’è nulla, soltanto il silenzio, la pace. E Dio sia lodato!…». Ma ce ne sono a bizzeffe di questi istanti rivelatori, che sembrano socchiudere per un attimo la porta e permetterci di capire, appunto, chi tira i fili di “tutto quanto”. Nessuno sembra però trovare una risposta definitiva, non fin che resta in vita. Chi ci si avvicina di più, forse, è un personaggio che entra in scena dopo pagina mille, in mezzo a un gruppo di prigionieri, e ne esce poco dopo, descritto come «la personificazione di tutto ciò che è russo, buono e rotondo». Quella che questo robusto contadino possiede è sicuramente una verità, ma non una verità logica, nonostante il nome filosofico, Platon Karataev: «cantava le canzoni non come le cantano i cantori, quando sanno che li si ascolta, ma così come cantano gli uccelli (…). I proverbi che riempivano i suoi discorsi (…) erano quegli adagi del popolo che sembrano tanto insignificanti se presi di per sé, e rivelano a un tratto una profonda saggezza, quando invece li si dice a proposito. Diceva spesso una cosa completamente opposta a un’altra che aveva detto prima, ma sia una cosa sia l’altra erano giuste. (…) Ogni sua parola e ogni sua azione erano il manifestarsi di quell’attività, a lui ignota, che era la sua vita. Ma anche la sua vita, come lui la intendeva, non aveva alcun senso se presa di per sé. Aveva senso soltanto come parte d’un intero, ed era questo intero che egli sentiva sempre. Le sue parole e le sue azioni fluivano da lui con la stessa regolarità e necessità e immediatezza, con cui il profumo emana da un fiore».
Se devo essere sincero, però, in questo gioco a nascondino che Tolstoj fa con il lettore, il mio preferito è un personaggio ancora più evanescente, che c’è sempre anche se nessuno se ne accorge, «quel timido, piccolo Dochtùrov» che, anche nei giorni decisivi della guerra, si fa trovare pronto al posto giusto al momento giusto, svolgendo un incarico fondamentale ai fini della vittoria russa senza per questo mai uscire dall’ombra. «Un uomo che non capisce il funzionamento d’una macchina, al vederla in moto potrà avere l’impressione che la parte più importante di quella macchina sia la scheggia che per caso vi è caduta dentro, e che ne viene fragorosamente stritolata, intralciandone il funzionamento. Un uomo che non conosce il meccanismo d’una macchina, non può capire che una delle parti più essenziali del meccanismo stesso non è la scheggia che sta guastando e intralciando tutto quanto, bensì il piccolo perno di trasmissione, che gira in un angolo, senza far rumore. (…) Dochtùrov (…) era anche lui uno di quegli ingranaggi che, pur senza stridere né far rumore, e passando sempre inosservati, costituiscono la parte più essenziale della macchina». In un mondo sempre più popolato da rumorosi imbonitori, provo un amore sconfinato verso questi giusti che ostinatamente continuano a salvarci senza neppure che ce ne rendiamo conto.
(finito l'11 aprile 2020)
Ho parlato di
Guerra e pace
(Mondadori 2012)
Trad. di I. Sibaldi
LXXVIII-1334 p. | 16 €
(ed. or.: Vojnà i mir, 1865-1869)