giovedì 23 novembre 2023

La Primula rossa

Se questo libro fosse stato scritto oggi da un irriverente autore postmoderno che si fosse celato dietro allo pseudonimo di una baronessa ungherese per poter liberamente pasticciare con i tipici clichés dell’eroe senza macchia e senza paura al fine di mostrarne tutta la loro ambiguità, qualcuno evocherebbe senz’altro il colpo di genio. Ma qui, a differenza che nel racconto di Borges, non siamo alle prese con un novello Pierre Menard e con il suo tentativo di riscrivere, parola per parola, il Don Chisciotte tre secoli dopo: qui è già davvero tutto messo nero su bianco, sin dall’inizio, con una trasparenza così candida da non poter non suscitare un po’ di imbarazzo nel sia pur moderato nerd che mi porto dentro e che si è emozionato tante di quelle volte per le avventure dei suoi miti in calzamaglia.

Prototipo novecentesco di tutti i successivi campioni mascherati (questo suo esordio data appunto 1905), la Primula Rossa è infatti il leader di una rete segreta di nobiluomini inglesi (nobiluomini nell’animo come nel patrimonio, va da sé), i quali fingono solo di essere dandy preoccupati esclusivamente di come occupare il tempo fino alla prossima ora del thé, mentre in realtà organizzano degli spericolati blitz nella Parigi giacobina per sottrarre i poveri aristocratici alla lama della ghigliottina e scortarli verso le bianche scogliere di Dover, dove potranno finalmente tornare a respirare l’aria pulita della civiltà anziché il puzzo della feccia sanculotta (sarebbero tecnicamente anche loro taxisti del mare, ma poiché trasportano dei ricchi signori anziché dei poveri cristi non lo si dice e anziché gli strali dei benpensanti si guadagnano i sospiri delle loro figlie adolescenti). Nessuna concessione nemmeno all’ombra di una sfumatura, figuriamoci alle radici sociali o politiche dei problemi. Alla principessina Orczy, scampata anch’essa da piccola a una rivolta contadina, pare del tutto inconcepibile che qualcuno possa voler rovesciare il mondo incantato della sua infanzia asburgica. Per lei i buoni sono sempre aquile impavide che frangono le correnti a mille piedi d’altezza e i cattivi squallidi ratti sprofondati nella melma del loro bieco risentimento, «belve assetate di sangue, belve sotto spoglie umane, che aspettavano la preda per dilaniarla senza pietà come un branco di lupi affamati, solo per soddisfare il proprio odio».

Partendo da simili premesse, ripetute quasi come un mantra, oggi si potrebbe arrivare a immaginare ronde di Macho-men pronte a fare da scudo ai molestatori accusati di violenza da gruppuscoli di frigide femministe isteriche per aver dato una pacca sul sedere a una bella ragazza senza il suo consenso o giustizieri israeliani che si avventurano nei cunicoli di Gaza uccidendo chiunque passi loro a tiro perché, se non è un terrorista, sarà comunque complice di un terrorista, fosse pure un neonato: non è purtroppo così difficile da immaginarselo, una sorta di super-Capezzone che spara raggi letali addosso ai servi che si permettono di non prostrarsi in adorazione dei padroni. Ora, che personaggi come Tony Stark e Bruce Wayne se ne vadano in giro a picchiare teppisti da quattro soldi per sfogare i loro conflitti interiori irrisolti, ammantandoli così di un’aura fascinosa e romantica da bei tenebrosi, mentre le rispettive aziende multimilionarie contribuiscono a scavare solchi sempre più profondi di autentica ingiustizia vendendo armi agli sceicchi o speculando sulle materie prime, lo si è in fondo sempre saputo, ma abbiamo fatto finta di non vederlo, perché col tempo si è cercato di edulcorarlo e perché comunque ogni tanto si ha pure il bisogno di accantonare tutte le complicazioni del mondo, alleggerirsi la coscienza del peso di non sapersi districare tra le ragioni e i torti e abbandonarsi con semplicità di cuore a una versione lineare degli eventi, chiarissima, in cui il bianco sta da una parte, il nero dall’altra e tutto si risolve a cazzotti – se no, sai che pesantezza (del resto, non sterminavo anch’io, senza troppi rimorsi, la feccia ribelle, quando mi si sollevava contro a Europa Universalis?). Alla fin fine, anche l’avventura della Primula Rossa è così meravigliosamente ingenua, prevedibile e priva di spessore da risultare perfino divertente - e va dunque gustata per quello che è, una potente macchina narrativa che, se a distanza di un secolo, perde ogni tanto di brio, non è per colpa sua, ma perché, proprio per la sua efficacia, è stata saccheggiata da migliaia di sceneggiature successive che hanno contribuito a forgiare il nostro immaginario collettivo. Tuttavia, diretta com’è, un po’ di veleno in corpo te lo lascia, nel momento in cui ti sbatte in faccia che le presunte grandi responsabilità sono solo un modo per ingentilire (e legittimare) il fatto che ci debbano essere dei grandi poteri, suscitandoti il terribile sospetto che sotto la maschera dell’Uomo Ragno non ci sia mai stato tuo fratello Peter Parker, ma Elon Musk.

(finito il 12 novembre 2021)

Ho parlato di


Emma Orczy
La Primula rossa
(Feltrinelli 2020)

trad. di G. Carlotti

304 p. | 11 €

(ed. or.: The Scarlet Pimpernel, 1905)