É notizia di qualche giorno fa che Asmara, la capitale dell’Eritrea, è stata inserita nella lista dei Patrimoni dell’Umanità dall’Unesco – e poiché nella motivazione si fa esplicito riferimento alle opere urbanistiche intraprese durante la colonizzazione e, in particolare, sotto l’Impero, i nostalgici potranno avere d’ora in poi una terza insospettabile motivazione, dopo la bonifica dell’Agro Pontino e i celebri treni in orario, per magnificare i tempi di “quando c’era lui”. Se tutto va bene l’Agro Pontino lo vedrò coi miei occhi tra qualche ora, prima tappa delle vacanze. In Africa Orientale ci sono invece stato con la fantasia, leggendo questo appassionante romanzo ambientato per lo più nei mesi successivi alla Campagna d’Etiopia, quando i cinegiornali annunciavano in Italia che la guerra era finita e stravinta, mentre sul campo ancora si combatteva – e si sarebbe combattuto praticamente senza sosta fino alla conquista inglese (en passant si fa notare che in effetti per i veterani dell’Etiopia, riciclatisi poi magari a Salò, la guerra durò complessivamente nove anni, senza effettive interruzioni, se non di scenario).
Dichiarare la fine della guerra, però, non era solo la classica mossa di propaganda per abbonire le masse. Negando agli avversari lo statuto di belligeranti e retrocedendoli alla stregua di ribelli se ne poteva fare un po’ quello che si voleva senza troppe preoccupazioni e persino con un carisma di legittimità. É questa quella che viene chiamata, a un certo punto, «la forza del diritto: parti da un assunto sbagliato, ne fai discendere una serie di conseguenze corrette e il tutto sembrerà perfettamente logico» (discorso che vale, tra l’altro, anche per certa teologia). Protagonista della vicenda è appunto un intelligente e onesto giudice militare, Vincenzo Bernardi, incaricato dal viceré Graziani di sbrogliare una matassa ingarbugliata nella regione del Goggiam, dove sta montando una rivolta che il governatore teme sia stata pilotata dai suoi avversari per scalzarlo dalla poltrona. Per implicita ammissione degli autori si tratta di un viaggio nel cuore di tenebra italiano, solo che al posto di Kurtz, laggiù, nei luoghi non segnati sulle mappe, troviamo squadristi che dopo aver vissuto la loro primavera di bellezza coloniale si sono ritrovati loro malgrado a presidiare il buco del culo del mondo, arraggiandosi come meglio credono. Il contesto è quello di uno stato d’eccezione permanente, in cui un oscuro geometra di Ardea, per dire, si trova ad avere un assoluto potere di vita e di morte sugli abissini, prima di rientrare nella quotidianità di provincia, al congedo, e chiedersi se sia stata davvero la stessa persona ad aver fatto tutto quello che aveva fatto (un po’ come i torturatori di Abu Ghraib e tutte quelle brave persone che, quando cambiano le regole sociali, da volontari della pro loco diventano magari i peggiori aguzzini).
Di fronte a ciò che man mano vede e scopre, Bernardi – che è uno scafato, mica una mammoletta: uno che aveva costruito argomenti giuridici per giustificare rappresaglie – non può fare a meno di rividere le nitide categorie con cui si era buttato nella missione. Che cos’è la verità? Quella storica, i fatti come sono realmente andati, oppure quella processuale, quella cui si accede attraverso le prove? «Io – dice, in un momento di autocoscienza – ho sempre preferito la prima, eccome se l’ho preferita... ma ora mi diventa chiaro che l’unica verità possibile è quella relativa, umana, imperfetta. La verità assoluta, in nome della quale tante volte abbiamo ucciso, è inaccertabile e inaccettabile. Qualcuno ha detto che le convinzioni sono nemiche della verità più delle bugie... Devo ammetterlo e lo ammetto: ho cercato la verità anche in fondo a grida di dolore, sempre credendo di essere nel giusto, mentre avrei dovuto accettare il rischio di fallire». Questa riflessione metagiuridica e garantista percorre tutto il racconto, ma non inganni. Ci muoviamo perlopiù tra l’avventura esotica, la docu-fiction, una spruzzatina di romance e la spy-story in cui tutti giocano una partita senza sapere esattamente quale sia la maglia della loro squadra. Gli autori hanno scovato alcuni documenti d’archivio, hanno provato a unire i puntini e hanno tirato fuori una ricostruzione verosimilmente falsa, con personaggi in gran parte esistiti, per suggerire una fascinosa ipotesi storiografica, su cui sorvolo onde evitare spoiler (ma che chiama in causa i grossi calibri di Roma).
Il tutto è condito molto bene, coi tempi giusti, e con un sapiente ricorso all’inserimento di documenti ufficiali a scandire le varie tappe della vicenda. Non sarà andato tutto esattamente così? Che importa? Del resto, non sempre si può arrivare alla verità tutta intera e alla giustizia che ne consegue. «Come si può portare giustizia dove l’intrecciarsi capriccioso delle circostanze, del trascorrere degli anni, della ragione di Stato, ha reso impossibile la celebrazione di un processo?»: sono queste le riflessioni che Bernardi rimastica nell’epilogo, all’inizio degli anni ’50, quando accoglie la sentenza che condanna il camerata Kappler non già per la strage in sé delle fosse Ardeatine, ma per aver ucciso cinque civili in più di quelli previsti dagli ordini ricevuti (tutto vero, tra l’altro). E allora si può considerare questo libro come una grande allegoria della nostra torbida storia patria, specie in questi giorni in cui si ricorda Via D’Amelio e arrivano le prime sentenze di Mafia Capitale. La verità assoluta, forse, è al di là delle nostre possibiltà, forse non la sapremo mai fino in fondo, forse non tutti i torti saranno compensati da una pena (il torto stesso tende a volatilizzarsi, in base a chi vince le guerre: lo stesso atto si converte in una medaglia o nell’ergastolo, a seconda delle situazioni). E tuttavia, là dove non arriva il diritto, c’è ancora un modo per provare a fare giustizia: «cercare la verità, per far sì che qualcuno la raccontasse». «Accendete la luce e cercate», qualcosa ne uscirà.