Quando, soprattutto tra i miei studenti, qualcuno prima o poi tira fuori la domanda se credo o no in Dio – l’ultima volta proprio ieri, al bar, dopo la fine delle lezioni –, provo sempre un sottile imbarazzo, non tanto perché fatichi a esplicitare un’appartenenza (lo dico, infatti, quasi subito che sono un chierichetto emerito e che porto ancora addosso i residui di tutto l’incenso scaricato a suo tempo nei turiboli), quanto per i sottintesi impliciti all’uso di quel verbo – credere – che rendono impossibile dare una risposta secca, in termini di sì o no. Cosa mi sta chiedendo davvero chi mi sta ponendo la domanda? E come potrebbe interpretare una mia risposta affermativa o negativa? Siamo sicuri che se io dicessi di “credere”, lui, udendo quella parola, intenderebbe la stessa cosa che intendo io? Per esempio, nella società ultrapolarizzata in cui viviamo, una tale affermazione non rischierebbe di essere intesa né più né meno che come l’espressione di una tifoseria, un tenere per Jahvé o per Allah come si tiene per la Juve o per l’Inter? É davvero questo quello che intenderei dire? E poi, anche tra chi dice di credere, siamo sicuri che ci sia davvero accordo su cosa credere con chi dovrebbe condividere la stessa fede? Per restare nel mio ovile, in cosa crede davvero quel particolare credente che dice di credere nel Dio cristiano in versione cattolica e che, almeno ogni domenica, fa come me la sua professione di fede tra l’omelia e la preghiera universale? Pensiamo realmente le stesse cose quando sovrapponiamo le nostre voci l’una all’altra? Di più, orientiamo realmente le nostre vite nella stessa direzione, pur celebrando un rito di comunione?
A chi si sentisse toccato da tale intrico di questioni mi sento di suggerire questo ponderoso volume di cui venni a conoscenza suppergiù una quindicina d’anni fa, quando mi capitò di partecipare ad un seminario che ne usava alcune parti come filo conduttore – e che, dopo molto tempo, mi sono poi deciso a leggere per intero. Il teologo gesuita che lo scrisse si era infatti riproposto di provare a ripercorrere, all’alba del nuovo millennio, l’asse portante del Credo e di rielaborarlo in linguaggio corrente, allo scopo di illustrare il senso di espressioni coniate a suo tempo per fare sintesi, ma che senza adeguato retroterra rischiano appunto di restare puro flatus vocis. «Questo libro – spiegava appunto nelle prime righe – è un invito. (…) Mentre tanti libri propongono dei contenuti, io vorrei presentare un itinerario. (…) Io quindi non mi faccio l’obbligo di affrontare tutti gli argomenti della fede cristiana. (...) L’importante non è dire tutto, bensì esprimere ciò di cui si parla, secondo un ordine e un movimento che siano significativi per il lettore. Questo libro che parlerà del cristianesimo, intende quindi rivolgersi alla persona umana in quanto persona. L’esperienza umana di tutti e di ciascuno sarà in certo qual modo il suo punto di partenza. Un vangelo che non si rivolgesse all’esperienza umana più profonda non interesserebbe nessuno. Una risposta che non corrisponde ad una domanda non è una risposta: è un parlare vano. (…) Vorrei dare la testimonianza personale della mia fede dicendo: ecco ciò che mi rende felice, ecco ciò che mi fa vivere. (…) La testimonianza che io cerco di dare è dunque quella di un’esperienza che si rivolge ad altre esperienze. Io ho vissuto questa cosa: corrisponde forse a qualche cosa per te?». Detto altrimenti: al di là del formulario imparato a memoria, abbiamo realmente ancora qualcosa da dire?
In fondo, il progressivo svuotamento di chiese progettate per racchiudere un popolo che, in quelle proporzioni, vi si raduna giusto per la messa di Natale o per certi funerali, in ossequio a tradizioni e riti sociali condivisi, è forse dovuto, più che alla durezza del messaggio che vi si proclama, alla sua sostanziale indecifrabilità, che ne facilita la riconversione in un più abbordabile paganesimo, spesso proprio ad opera di chi più sbraita di essere cristiano e per cui il credere fa immediatamente rima con l’obbedire e il combattere. Mettere alla portata di tutti, con estrema chiarezza di linguaggio, i risultati di una teologia aggiornata, non convertirà probabilmente nessuno, però può aiutare chi crede a chiarire a se stesso il nucleo vitale della propria fede ed anche mostrare al non credente che, dopotutto, il cristianesimo ha un volto e delle risorse – come sono anche state chiamate – non proprio deprecabili. Ciò potrebbe garantire a tutti quegli uomini di buona volontà a cui l’angelo annuncia la pace di percorre comunque dei tratti di strada assieme, interpellandosi a vicenda, nel rispetto delle reciproche differenze, ma consapevoli che si sta cercando di andare, con mezzi diversi, nella stessa direzione. Anche perché lo spaventoso analfabetismo religioso che paradossalmente appesta il nostro paese di campanili fa solo il gioco degli sbandieratori di rosari che non sapranno quello che fanno ma si fa sempre più fatica a perdonare.
(finito il 19 novembre 2021)
Ho parlato di
Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo
(Queriniana 2000)
trad. di P. Crespi
536 pp. | 42 €
(ed. or.: Croire. Invitation à la foi catholique pour les femmes et les hommes du XXIe siècle, Paris 1999)