Per uno strano ma non così raro cortocircuito pop, qualche anno fa un capostruttura della rete televisiva HBO deve aver pensato che un libro del 2004 ambientato in un ipotetico 1940 sarebbe potuto essere il punto di partenza ideale per una miniserie che avesse voluto parlare di quanto stava accadendo nel 2018. Aveva appena cominciato a diffondersi la notizia di intromissioni russe nelle elezioni che avevano portato Trump alla Casa Bianca e un titolo come “il complotto contro l’America” sembrava effettivamente perfetto per attirare l’attenzione del pubblico. Quella serie, però, non l’ho vista, quindi, ringraziandola per il pretesto che m’ha offerto, smetto subito di parlarne. Ho invece letto, l’estate scorsa, il romanzo di Philip Roth che l’ha ispirata – e l’ho volutamente letto in un momento in cui una conferma di Trump era comunque nel novero delle possibilità, giusto per provare il brivido di leggerlo anche come una potenziale, sinistra, profezia.
Sin dalle prime pagine non si tarda infatti a constatare che le convergenze tra quel libro e l’attualità sono abbondanti, e il fatto che esso sia stato scritto in tutt’altro contesto comprova una volta di più la capacità rabdomantica della grande letteratura di percepire misteriosamente le correnti profonde della storia. Un esempio per tutti, il più banale: ben prima di diventare uno slogan elettorale di Trump, l’espressione “America First” era stata usata per designare un comitato fondato allo scopo di difendere la linea isolazionista americana all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il cui portavoce fu realmente quel Charles Lindbergh che, grazie alla promessa di tener fuori gli USA dal conflitto, nell’ucronia di Roth si immagina essere eletto a sorpresa presidente degli Stati Uniti nel novembre del ‘40 al posto di Roosevelt (ripeto: oggi questa informazione più o meno l’abbiamo assimilata, se abbiamo seguito con un minimo d’attenzione l’ultima campagna presidenziale a stelle e strisce, ma il volume uscì in piena temperie neo-con, quando l’America si era lanciata nel problematico e tutt’altro che isolazionista progetto di esportare la democrazia - e l’idea che quel motto potesse di lì a poco tornare di moda era assai meno ovvia di quanto possa sembrare ora). Quanto a Lindbergh, si tratta proprio dell’aviatore reso celebre dal primo volo transatlantico, una delle icone più rappresentative dei ruggenti anni ‘20, «il leggendario eroe americano che riesce a fare l’impossibile contando solo sulle proprie forze», ma anche noto antisemita e simpatizzante del regime nazista (che gli restituì la cortesia, attribuendogli la croce dell’Ordine dell’Aquila Tedesca, mai rinnegata). Roth qui non si inventa nulla, così come non sembra inventarsi neanche la voce narrante attraverso cui racconta la storia, che è quella di un bambino di nome Philip (come lui), ebreo di Newark (come lui), nato nel 1933 (come lui). Non saprei dire quanto sia veritiero il ritratto che vien fuori di sé e dell’ambiente in cui è cresciuto, ma se non è autentico, è del tutto verosimile. Come mi pare consigliasse Bradbury a chi avesse voluto scrivere un buon racconto di fantascienza - altera anche solo un elemento nell’ordine della realtà e poi prova a descrivere semplicemente quello che succede – così, più che un vero e proprio thriller fantapolitico, come ci si potrebbe anche aspettare, questo romanzo è piuttosto il racconto di quella che sarebbe potuta tranquillamente essere la storia della famiglia Roth e della traumatica iniziazione alla vita adulta di Philip se il corso degli eventi avesse preso una piega leggermente diversa, e in questo sta davvero il suo pregio.
«Ogni mattina, a scuola, giuravo fedeltà alla bandiera della nostra patria. Ne cantavo le meraviglie con i miei compagni durante i programmi collettivi. Ne osservavo con entusiasmo le feste nazionali, e senza ripensamenti sul mio feeling per i fuochi artificiali del Quattro Luglio o il tacchino del Ringraziamento o le due partite del Decoration Day. La nostra patria era l’America. Poi i repubblicani nominarono Lindbergh e tutto cambiò». Di punto in bianco questo ragazzino che colleziona francobolli con l’effigie degli eroi americani (tra cui lo stesso Lindbergh) e che non conosce altra lingua oltre a quella del suo paese natale perde di colpo la «sicurezza personale che io avevo dato per scontata come figlio americano di genitori americani di una città americana in un’America in pace col mondo», scoprendo improvvisamente che agli occhi degli altri l’unica cosa che conta è che lui e i suoi siano ebrei. Di fronte alla marea montante di un’ostilità che si fa senso comune e comincia a superare gli argini che proteggono il corso regolare della loro vita, come quando ai Roth, durante una vacanza, viene chiesto di cambiare albergo per un fantomatico errore nella prenotazione, Philip vede per la prima volta piangere suo padre («una pietra miliare, nell’infanzia, quando le lacrime degli altri sono più insopportabili delle proprie») e prende pian piano coscienza che la madre fa «tutto il possibile per nascondere ai figli il suo terrore sotto un sottilissimo strato di coraggio». Eppure, «l’essere ebrei non era né una disgrazia né una sfortuna né una cosa di cui andare “fieri”. Ciò che erano era ciò di cui non potevano liberarsi: ciò di cui non avrebbero mai neanche potuto pensare di liberarsi. L’essere ebrei derivava dall’essere se stessi, come l’essere americani. Era quello che era, era nella natura delle cose come avere arterie e vene, ed essi non manifestarono mai il minimo desiderio di cambiarlo o di negarlo, indipendentemente dalle conseguenze».
Sul punto, invece, il nuovo presidente ha ben altre idee: per lui gli ebrei non sono veramente americani e approfittano della loro enorme influenza per spingere gli USA verso una guerra distruttiva e assolutamente senza senso («invece di riconoscere apertamente che eravamo una piccola minoranza di cittadini ampiamente superati nel numero dai nostri connazionali cristiani, tendenzialmente impossibilitati a conseguire pubblici poteri dall’ostacolo del pregiudizio religioso e sicuramente non meno fedeli ai principi della democrazia americana di un ammiratore di Hitler»). Prendendo le mosse dall’antisemitismo, Roth finisce però per tratteggiare, attraverso la figura di Lindbergh, alcuni aspetti caratteristici della politica contemporanea. Il suo discorso di candidatura è di appena quarantatre parole, praticamente un tweet: la scelta non è tra me e Roosevelt – dice – ma tra me e la guerra, poiché io farò di tutto per difendere la democrazia impedendo che l’America partecipi a un altro conflitto mondiale. É così all’inizio e sarà così sempre. A parlare, per lui, è la sua stessa persona. Quando avverte un minimo segnale di crisi, indossa la sua tuta e vola in più città che può, dove ogni volta lo attendono «migliaia di cittadini che si erano radunati per vedere il loro giovane presidente con la sua famosa giacca a vento e il caschetto di pelle da aviatore». E ogni volta questa leggenda vivente ribadisce che, da quando è presidente, nessun giovane americano è morto in battaglia e nessun altro sarebbe morto finché fosse rimasto in carica. Di lui ci si può fidare, lui che «era la normalità elevata a proporzioni eroiche, un uomo perbene con una faccia onesta e una voce comune che aveva clamorosamente mostrato all’intero pianeta il coraggio di assumere il comando e la forza di fare la storia». In quelle occasioni, mentre i cinegiornali mostrano a ripetizione le immagini di un mondo in fiamme, «tutto ciò che il presidente dice alla folla è: “Il nostro paese è in pace. La nostra gente è al lavoro. Ora torno a Washington per fare in modo che le cose vadano avanti così”». E se ciò comporta un’alleanza formale con Hitler e una cena di gala per Ribbentrop alla Casa Bianca, poco male (quand’anche Hitler fosse un dittatore, e Lindbergh non lo pensa, sarebbe comunque un “utile dittatore” con cui si può scendere a patti perché funge da estremo riparo contro il ben più terrificante pericolo del comunismo sovietico). Il messaggio ripetuto ossessivamente, e che alla gente piace tantissimo sentirsi ripetere, è che «nella pacifica America di Lindbergh, l’autonoma fortezza a oceani di distanza dalle zone di guerra del mondo» nessuno è in pericolo. Sì, nessuno è in pericolo, chiosa Philip, «tranne noi».
Per la verità Lindbergh, da vero uomo-immagine, non si espone mai più di tanto, ma la sua amministrazione (con l’ultrarazzista Henry Ford agli Interni) sì. La strategia adottata è sottile, ed è in un certo senso il rovescio della medaglia dei ghetti e dei campi di concentramento sperimentati in Europa. Qui le libertà formali sono garantite, ma si procede a disgregare le comunità ebraiche, disperdendo i loro membri negli immensi territori del paese, per isolarli in mezzo a cittadini bianchi e cristiani (quei “veri” americani che si erano presi la loro terra di Canaan strappandola ai nativi a suon di pallottole), e viceversa favorendo il trasferimento di non-ebrei nei quartieri ebraici. A parole si tratta di una lodevole pratica di integrazione, nei fatti il progetto mira a «indebolire la solidarietà della struttura sociale ebraica, come pure di ridurre la forza elettorale che una comunità israelitica poteva avere alle elezioni locali e congressuali», in modo da farla restare perennemente minoritaria senza alterare formalmente le regole democratiche (metodo peraltro ancora impiegato oggi, in Texas e non solo, contro neri e latinos, per impedire che una maggioranza demografica si trasformi prima o poi in maggioranza politica). E quando qualcuno comincia a lamentarsi, quando un importante giornalista ebreo, Walter Winchell (anche lui realmente esistito), si candida contro Lindbergh - “ma cosa vogliono questi ebrei?”, si risponde, come si fa oggi coi braccianti stranieri quando scioperano per le condizioni schiavistiche cui sono sottoposti nei campi di pomodori; “ma cosa si sono messi in testa?”, “chi si credono di essere?”. In questo clima surriscaldato non tardano a scoppiare autentici pogrom, che la stampa benpensante etichetta ovviamente «come la risposta inopportuna ma inevitabile e perfettamente comprensibile» alle attività di quei piantagrane semiti che vogliono erodere con le loro provocazioni l’unità della patria. Insomma, se un ebreo protesta, è la prova di una cospirazione in corso, e la sua protesta va repressa senza pietà; se lo si uccide, invece, è solo legittima difesa, e se si è esagerato un po’ bisogna pur capire chi ha caricato la pistola. Solidarietà ai poliziotti, non a chi è ucciso dai poliziotti. E così via, e così via – tutte cose che abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, sia pure con interpreti diversi.
Poi, a un certo punto, nell’ottobre del 1942, la situazione sfugge definitivamente di mano e Lindbergh, dopo un ultimo volo, scompare senza che nessuno sappia più niente di lui. Ironizzando sui complottisti di ogni tempo, sempre pronti a credere a qualunque scemenza per apparire più scaltri di quelli che semplicemente riconoscono l’ovvio, Roth lascia balenare che anche dietro l’elezione di Lindbergh potrebbe esserci un ben preciso piano nazista e che siano stati gli stessi nazisti ad architettarne pure la sparizione quando la sua permanenza alla Casa Bianca non sembrava più utile ai loro scopi, escogitando anche una ricostruzione dei fatti a suo modo credibile, come peraltro sembrano credibili tutti i complotti di questo mondo, perché unendo i puntini in ordine sparso possono sempre venire fuori un sacco di immagini anche più suggestive dell’arido vero. Che sia andata davvero così oppure no, però, poco importa. Quando gli attacchi contro gli ebrei si fanno sempre più insistenti, Philip osserva che le persone che li hanno provocati «non avrebbero avuto bisogno di molti incoraggiamenti per trasformarsi in una folla irragionevole e violenta grazie all’opera dei filonazisti che avevano progettato e felicemente scatenato i disordini». Che è come dire che, ci siano o no i russi dietro a Trump, il problema vero è in realtà lo sciamano di Capitol Hill e quelli della sua stessa forza, a cui basta un niente per sentirsi autorizzati a passare all’azione e nei confronti dei quali bisognerebbe fare di tutto meno che sovraeccitarli (e ricordate invece Trump ai Proud Boys? “Stand back and stand by!”). Non c’è bisogno di romanzieri per inventare simili personaggi: quelli sono già tutti lì fuori, e costituiscono le autentiche cellule dormienti che attentano alla stabilità delle nostre democrazie. L’unico vero complotto contro l’America è appunto quello che una parte stessa di americani (guarda caso, quelli che si presentano come i più patriottici di tutti) ordisce contro gli autentici valori della loro patria. «Loro credono che noi ci illudiamo di essere americani», afferma a un certo punto il padre di Philip. Lindbergh – continua - «ha il coraggio di chiamarci altri? È lui l’altro. Quello che sembra il più americano di tutti… e che è il meno americano!». Una contraddizione non molto diversa da quella di chi sventolando un simbolo giacobino come il tricolore aggredisce i valori promossi dalla Rivoluzione francese, di chi rivendica il diritto alla diversità d’opinione solo per potere togliere diritti a quelli che a sua volta considera diversi, di chi parla sempre di popolo ma difende un’idea puramente individualistica ed egocentrica di libertà. O, per citare gli ultimi venuti, dei fascisti con Mussolini tatuato sul cuore che scendono adesso in piazza sbraitando contro la dittatura e appellandosi alla Costituzione.
E allora vien veramente da dire che sì, «è vero, c’è un complotto, e io faccio volentieri il nome delle forze che lo animano: isterismo, ignoranza, rancore, stupidità, odio e paura. Che spettacolo ripugnante sta dando il nostro paese!». A pronunciare queste parole, nella finzione, è il sindaco di New York Fiorello LaGuardia, che rappresenta agli occhi di Roth quella parte di società americana conservatrice magari, ma non demagogica, di cui oggi si sente terribilmente la mancanza. É questa una componente del pool di anticorpi di cui, secondo l’autore, l’America disporrebbe e che la renderebbe alla fine capace di espellere, non senza qualche sussulto febbrile, il virus lindberghiano, tant’é che, passata la tempesta, la storia ritorna sui binari che conosciamo – e sia pure con un ritardo di due anni ci saranno un terzo mandato di Roosevelt, una Pearl Harbor e uno sbarco in Normandia. «Preso alla rovescia, l’implacabile imprevisto era quello che noi a scuola studiavamo con il nome di “storia”, la storia inoffensiva dove tutto ciò che nel suo tempo è inaspettato, sulla pagina risulta inevitabile. Il terrore dell’imprevisto: ecco quello che la scienza della storia nasconde, trasformando un disastro in un’epopea». Resteremo particolarmente esposti a questo terrore fintanto che «la sfacciata vanità di certi perfetti idioti» continuerà ad esercitare «un’influenza decisiva sulla sorte di altre persone».
(finito l'11 agosto 2020)
Ho parlato di
Il complotto contro l'America
(Einaudi, 2014)
trad. di V. Mantovani
434 pp. | 13,50 €
(ed. or.: The Plot Against America, 2004)