Amo mia moglie perché è una persona speciale per una serie incalcolabile di motivi, tra cui annovererei anche la misteriosa capacità di provare un’analoga passione per quei zuccherosissimi film natalizi tutti rigorosamente uguali, dal lieto fine già scritto e iper-rassicurante (in cui una donna in carriera ma in crisi di mezza età torna nei luoghi d’origine e con l’aiuto di un anziano vicino di casa simile a Santa Claus si reinnamorerà del belloccio con cui flirtava al liceo) e contemporaneamente però anche per le storie violentissime e sboccate, piene di sangue e droga, in cui di solito una banda di malcapitati, per risolvere il pasticcio in cui si è cacciata, ne combina uno ancora più grande lasciandosi dietro una scia infinita di morti ammazzati. A questo secondo filone appartengono, oltre a nostre serie feticcio come Fargo o Better Call Saul, anche i libri di Joe R. Lansdale, di cui Anna mi ha tessuto nel corso degli anni lodi così convincenti da indurmi infine, l’estate scorsa, a portarmeli in spiaggia al posto dei romanzi di fantascienza che solitamente mi accompagnano nelle sortite al mare. Che dire? Aveva ragione, meritano eccome – a patto che si apprezzi quel particolare tipo di spirito che si esprime in battute di questo tenore: «- A proposito, amico, di che segno sei? - Dello Stronzo» (una cosa che a sentirla così può sembrare robaccia da Bagaglino, ma inserita nel contesto giuro che mi fece ridere come un deficiente per diversi minuti).
Questo libro, in particolare, raccoglie le prime tre avventure di Hap e Leonard, tre romanzi concatenati come le stagioni di una serie tv che a grandi linee si potrebbero ricondurre al genere noir, anche se i due protagonisti non sono propriamente dei detective, ma semplicemente una coppia squinternata di amici per la pelle, di quelli che litigano a volte anche pesantemente, ma si salvano di continuo la vita l’un l’altro, e che per ragioni diverse (compreso un certo senso della giustizia, pur non essendo propriamente dei boy scout) finiscono spesso immischiati in faccende torbide e pericolose, in cui occorre saper menare le mani e da cui si esce spesso con le ossa rotte. Cose che possono capitare facilmente, del resto, se uno dei due è un gigante nero omosessuale che non le manda mai a dire, anche se vive in una contea del Texas orientale dove in molti sono fermamente convinti che la guerra civile era meglio se l’avesse vinta il generale Lee e a cui bastano pretesti assai più blandi per tirare fuori il cappio dal cassetto e improvvisare una forca sulla pubblica piazza. Sono quei posti assurdi ai confini della civiltà dove vive gente che non puoi credere veramente che esista finché non la vedi in qualche improbabile programma di Dmax oppure mentre assalta il Campidoglio.
Scrivendo l’introduzione alla raccolta del primo ciclo di storie di Preacher, un fumetto che per ambientazione e tematiche può essere accostato ai suoi romanzi (l’altro nome che salta sempre fuori è quello di Tarantino), il texano Lansdale notava, senza crederci troppo, che «sarebbe carino se prima o poi qualcuno facesse notare che dal Texas arrivano anche delle brave persone e delle belle cose, e non solo il male». Quando, più di vent’anni fa, lessi quel volume (intitolato, non a caso, “Texas o morte”), la mia anima candida lo trovò spaccone e totalmente fuori dalla realtà. Spaccone lo era e continua ad esserlo, ma forse (pur nell’esagerazione, che rientra nelle regole del genere) così fuori dalla realtà no: quel mondo ha davvero qualcosa di profondamente marcio dentro, venuto poi su come un rigurgito tra le presidenze Bush e Trump. Attraverso le peripezie dei suoi eroi, Lansdale esplorava questa sorta di spaventosa Transilvania postmoderna già all’inizio degli anni Novanta, evitando il compiacimento in cui prodotti come questi talvolta inciampano, ma giocando piuttosto su una gamma di sentimenti oscillanti, come diverse stazioni radio, tra il cinico realismo di Leonard e la malinconica rassegnazione di Hap, un «orfano degli anni Sessanta», che per un po’ ci aveva davvero creduto alla possibilità di cambiare il mondo. Ai tempi uno era stato in Vietnam, l’altro era finito in carcere come obiettore di coscienza: ora tirano entrambi a campare, facendo di volta in volta quello che sembra loro meglio fare, con una certa disillusione. Il tono però è leggero; la narrazione in prima persona ti assicura che i due in qualche modo la svangheranno, così da potersi gustare pienamente il come lo faranno; e anche se il lieto fine è sempre offuscato da qualche perdita e certi elementi disturbanti restano un po’ sul gozzo, alla fine della fiera ciò che veramente dà la nausea sono solo le porcherie come i Twinkies e le Dr. Pepper che questi indefessi texani ingurgitano continuamente, ignari che al mondo esista del cibo degno di questo nome.
(finito il 23 agosto 2020)
Ho parlato di
Hap & Leonard
Una stagione selvaggia.
Mucho Mojo.
Il mambo degli orsi
(Einaudi, 2014)
trad. di C. Prinetti, V. Curtoni, S. Massaron
748 pp. | 18 €
(ed. or. 1990, 1994, 1995)