martedì 24 agosto 2021

Hap & Leonard

Amo mia moglie perché è una persona speciale per una serie incalcolabile di motivi, tra cui annovererei anche la misteriosa capacità di provare un’analoga passione per quei zuccherosissimi film natalizi tutti rigorosamente uguali, dal lieto fine già scritto e iper-rassicurante (in cui una donna in carriera ma in crisi di mezza età torna nei luoghi d’origine e con l’aiuto di un anziano vicino di casa simile a Santa Claus si reinnamorerà del belloccio con cui flirtava al liceo) e contemporaneamente però anche per le storie violentissime e sboccate, piene di sangue e droga, in cui di solito una banda di malcapitati, per risolvere il pasticcio in cui si è cacciata, ne combina uno ancora più grande lasciandosi dietro una scia infinita di morti ammazzati. A questo secondo filone appartengono, oltre a nostre serie feticcio come Fargo o Better Call Saul, anche i libri di Joe R. Lansdale, di cui Anna mi ha tessuto nel corso degli anni lodi così convincenti da indurmi infine, l’estate scorsa, a portarmeli in spiaggia al posto dei romanzi di fantascienza che solitamente mi accompagnano nelle sortite al mare. Che dire? Aveva ragione, meritano eccome – a patto che si apprezzi quel particolare tipo di spirito che si esprime in battute di questo tenore: «- A proposito, amico, di che segno sei? - Dello Stronzo» (una cosa che a sentirla così può sembrare robaccia da Bagaglino, ma inserita nel contesto giuro che mi fece ridere come un deficiente per diversi minuti).

Questo libro, in particolare, raccoglie le prime tre avventure di Hap e Leonard, tre romanzi concatenati come le stagioni di una serie tv che a grandi linee si potrebbero ricondurre al genere noir, anche se i due protagonisti non sono propriamente dei detective, ma semplicemente una coppia squinternata di amici per la pelle, di quelli che litigano a volte anche pesantemente, ma si salvano di continuo la vita l’un l’altro, e che per ragioni diverse (compreso un certo senso della giustizia, pur non essendo propriamente dei boy scout) finiscono spesso immischiati in faccende torbide e pericolose, in cui occorre saper menare le mani e da cui si esce spesso con le ossa rotte. Cose che possono capitare facilmente, del resto, se uno dei due è un gigante nero omosessuale che non le manda mai a dire, anche se vive in una contea del Texas orientale dove in molti sono fermamente convinti che la guerra civile era meglio se l’avesse vinta il generale Lee e a cui bastano pretesti assai più blandi per tirare fuori il cappio dal cassetto e improvvisare una forca sulla pubblica piazza. Sono quei posti assurdi ai confini della civiltà dove vive gente che non puoi credere veramente che esista finché non la vedi in qualche improbabile programma di Dmax oppure mentre assalta il Campidoglio.

Scrivendo l’introduzione alla raccolta del primo ciclo di storie di Preacher, un fumetto che per ambientazione e tematiche può essere accostato ai suoi romanzi (l’altro nome che salta sempre fuori è quello di Tarantino), il texano Lansdale notava, senza crederci troppo, che «sarebbe carino se prima o poi qualcuno facesse notare che dal Texas arrivano anche delle brave persone e delle belle cose, e non solo il male». Quando, più di vent’anni fa, lessi quel volume (intitolato, non a caso, “Texas o morte”), la mia anima candida lo trovò spaccone e totalmente fuori dalla realtà. Spaccone lo era e continua ad esserlo, ma forse (pur nell’esagerazione, che rientra nelle regole del genere) così fuori dalla realtà no: quel mondo ha davvero qualcosa di profondamente marcio dentro, venuto poi su come un rigurgito tra le presidenze Bush e Trump. Attraverso le peripezie dei suoi eroi, Lansdale esplorava questa sorta di spaventosa Transilvania postmoderna già all’inizio degli anni Novanta, evitando il compiacimento in cui prodotti come questi talvolta inciampano, ma giocando piuttosto su una gamma di sentimenti oscillanti, come diverse stazioni radio, tra il cinico realismo di Leonard e la malinconica rassegnazione di Hap, un «orfano degli anni Sessanta», che per un po’ ci aveva davvero creduto alla possibilità di cambiare il mondo. Ai tempi uno era stato in Vietnam, l’altro era finito in carcere come obiettore di coscienza: ora tirano entrambi a campare, facendo di volta in volta quello che sembra loro meglio fare, con una certa disillusione. Il tono però è leggero; la narrazione in prima persona ti assicura che i due in qualche modo la svangheranno, così da potersi gustare pienamente il come lo faranno; e anche se il lieto fine è sempre offuscato da qualche perdita e certi elementi disturbanti restano un po’ sul gozzo, alla fine della fiera ciò che veramente dà la nausea sono solo le porcherie come i Twinkies e le Dr. Pepper che questi indefessi texani ingurgitano continuamente, ignari che al mondo esista del cibo degno di questo nome.

(finito il 23 agosto 2020)

Ho parlato di


Joe R. Lansdale
Hap & Leonard
Una stagione selvaggia. 
Mucho Mojo. 
Il mambo degli orsi
(Einaudi, 2014)

trad. di C. Prinetti, V. Curtoni, S. Massaron

748 pp. | 18 €

(ed. or. 1990, 1994, 1995)

martedì 17 agosto 2021

Il compagno

In pieno trip pavesiano, dopo La luna e i falò, ho subito ripescato dalla mia biblioteca personale quest’altro libro, anch’esso già presente sin dai tempi del liceo (fa fede il prezzo in lire), ma a differenza dell’altro non ancora letto, forse perché, dopo averlo comprato, lo sentii liquidare dal professore di italiano fra i testi che Pavese avrebbe scritto più per senso del dovere che per reale ispirazione (credo che lui ritenesse che il Pavese autentico fosse quello “mitico”, non quello soffocato nelle maglie del realismo per esigenze di partito). Effettivamente qui lo spunto è scopertamente politico: provare a mostrare per quali vie un uomo qualunque, appartenente alla schiera dei tanti che “per sé fuoro” e con la loro conformistica e indifferente acquiescenza avevano garantito la durata del regime, fosse potuto poi passare all’opposizione, ancor prima dell’8 settembre. Ne è uscito un racconto nettamente spaccato in due, per temi, atmosfere e ambientazione.

Introdotta da un incipit vagamente melvilliano («mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra»), la prima parte scansiona i malesseri di un tabaccaio della provincia torinese, un giovane adulto – diremmo noi oggi – stufo della vita che conduce e tuttavia incapace di trovare altra sistemazione soddisfacente, spesso tentato dall’idea di trasformare la ribotta in professione, trattenuto però sempre dalla sensazione piccolo borghese che quello di musicista nelle balere in fondo non sia davvero un mestiere. A ingarbugliargli ulteriormente la vita compare un giorno Linda, ragazza intraprendente ed emancipata, di cui lui ovviamente si innamora come un adolescente («era come avessi messo le radici nel suo sangue», «Linda l’avevo nella pelle come il sangue»), ma che, pur ricambiandone l’affetto, non ha nessuna voglia di legarsi e di essere la sua ragazza sempre («devi abituarti alla mia vita. Io non voglio dipendere da te né dagli altri»). Che ci sia la dittatura, il fascio, ma cosa volete che gliene importi a Pablo? Il suo mondo gira intorno ai tira e molla di Linda e alla prostrazione che questa instabilità gli comporta. Alle volte gli capita di svegliarsi di colpo e poi di restare a lungo nel letto. «Mi pareva di averci un grosso affanno e di essere come un bambino, più solo di un cane, aver fatto qualcosa di brutto e di senza speranza. Non avevo più scampo, non osavo sentirmi, avrei voluto non svegliarmi e morir lì». É capitato a tanti di passarci, così come è capitato a tanti di sciogliere questa inerzia in invettive da zerbino incattivito: «pensavo come sono le donne. (…) Anche Linda. Se per loro ogni uomo è davvero lo stesso, tanto varrebbe che si dessero a uno solo, che gli andassero dietro come il cane al padrone. E invece no, vogliono sempre avere la scelta, e la scelta la fanno mettendoli insieme, giocando con tutti, cercando in tutti un tornaconto. Così stan male tutti quanti, e anche loro alla fine non hanno un amico». Se la storia si interrompesse qui, sarebbe la cronaca di una disperazione irrisolta, un girare a vuoto come nelle nottate passate da Pablo in compagnia di un paio di amici a cantare completamente ubriachi per strada, provando quel «piacere di sentirsi a terra, di esser come schiacciato e non cedere». Nessuna via d’uscita: condizione drammatica, eppure – si sente – profondamente sincera. 

Poi, d’improvviso, uno scatto, quasi un moto involontario di sopravvivenza. Bisognoso di cambiare aria, Pablo coglie un’occasione che gli si presenta per andare a Roma a cercare lavoro. Agli occhi di un piemontese, la capitale appare come «una grande città dove tutti ci mangiano e dànno da mangiare. (…) Roma è osteria, e ci fa sempre sereno. (…) Dappertutto la gente è a merenda, che gode». «L’aria di Roma è proprio fatta per star svegli», lì l’estate «non finisce mai» e per un musicista come lui non sarebbe tanto difficile tirare giù un guadagno suonando stornelli ai tavolini dei locali. Ma Pablo preferisce fare il manovale e qui, a contatto con le persone che entrano nella sua vita e che a poco a poco lo includono in discorsi che non è opportuno fare in pubblico, avviene una maturazione umana che è prima di tutto una maturazione civile. Non è un processo immediato, perché il nostro parte proprio da zero e spesso cade dalle nuvole quando gli altri ammiccano. Per intenderci, quando un militante appena rientrato dalla Spagna (siamo ai tempi della guerra civile) gli chiede «com’è che sei Pablo? Sei stato laggiù?», la risposta è «macché. Suonavo la chitarra». E a chi incalza: ma a Torino non parlavi di quello che succede in Italia? «Che Torino. Sapevo appena ballare» (a quanto pare, sotto la Mole non erano tutti iscritti a GL). Superate le diffidenze iniziali, il ragazzo che prima sfogliava i giornali giusto per dare un’occhiata alle pagine sportive comincia a informarsi, a leggere i testi clandestini che gli passano sottobanco, e più si informa più capisce tante di quelle cose che prima non pensava neanche fossero da capire, ma che fossero semplicemente così e basta. Le sue nuove convinzioni sono condivisibilissime («per capire le cose bisogna studiare, non le sciocchezze che insegnavano a scuola a noialtri, ma com’è che si legge il giornale, com’è fatto un mestiere, chi comanda il mondo. Si dovrebbe studiare per saper fare a meno di quelli che studiano. Per non farsi fregare da loro»), eppure – rispetto alla sofferta amarezza dei primi capitoli – queste dichiarazioni sanno un po’ di posticcio, come accade quando ci si preoccupa un po’ troppo di spiegare la morale della favola. Perché in fin dei conti non si capisce bene esattamente com’è che Pablo elabori davvero la sua conversione fino a riconoscere che «quei rossi erano miei». Lo scandaglio interiore sembra avere meno corda a disposizione per questo genere di esplorazione e la sensazione (a cui forse certi inserti didascalici vorrebbero porre rimedio) è che quella di Pablo sia una scelta dettata dal bisogno di trovare un posto nel mondo, dei legami solidi (compresi quelli con un’altra donna), un riconoscimento, piuttosto che da una autentica adesione ideologica. Il che, peraltro, rende forse il romanzo persino più interessante e moderno di quanto potrebbe apparire a prima vista.

A leggerlo oggi, in effetti, non ci si rispecchia forse molto nella conquista di una propria identità politica da parte del protagonista (il cui sviluppo, peraltro, è aperto, perché il romanzo si chiude prima ancora che cominci la guerra, e chissà se l’avranno poi ammazzato, Pablo, o se è ancora vivo). Colpiscono molto, invece, gli accenni a come lui e tutti i suoi coetanei siano sprofondati nel totalitarismo. Quando si risveglia dal sonno autoritario, quasi quarantenne, Pablo si rende conto che non sa ben ridir come v’erano entrati, in quella selva - che non sa davvero nulla di com’erano andate le cose nel 1920 e nel 1921. «Eravamo ragazzi. (…) Non si è capito, a quell’età, quel che successe». Purtroppo le cose non cessano di accaderci continuamente sotto il naso, ma ci vogliono magari vent’anni perché tutti riescano a vederle. Ne sanno qualcosa a Kabul.

(finito il 23 agosto 2020)

Ho parlato di


Cesare Pavese
Il compagno
(Einaudi, 1990)

162 pp. | 13.000 lire

(ed. or. 1947)

mercoledì 4 agosto 2021

La luna e i falò

Poiché, tra le mie fissazioni personali, accanto a mappe e confini, rientrano anche gli anniversari letterari, non è strano che, in vista dei 70 anni dalla morte di Pavese, abbia deciso di riaprire uno dei suoi libri, che non rileggevo dai tempi del liceo, e che già all’epoca mi aveva colpito moltissimo per la sua profonda stratificazione simbolica (curiosamente, tempo di lettura e tempo della narrazione hanno coinciso: i giorni della Madonna d’agosto).

La luna e i falò è anzitutto un romanzo sulle radici, sulla necessità di averne («un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti») e sul desiderio che ogni uomo prova, a sua volta, «di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione». Questa esigenza è troppo seria per annacquarla in una rappresentazione oleografica del piccolo mondo antico con le sue buone cose di una volta. Tornato nella sua terra natale, trascorsi vent’anni e una guerra mondiale, dopo essersi spinto fino in fondo all’America per scoprire che anch’essa «finiva nel mare», che il mondo è rotondo e «tutte le carni sono buone e si equivalgono», il narratore – noto solo con l’antico e sfuggente soprannome di Anguilla – si ritrova felicemente travolto da tutto il vissuto risvegliatosi in lui «al tintinnio di una martinicca, al colpo di coda di un bue, al gusto di una minestra, a una voce che senti sulla piazza di notte»: girando fra le vigne, come in una personalissima recherche, dice fra sé e sé «io sono scemo (…) da vent’anni me ne sto via e questi paesi mi aspettano». Persino la predica del parroco non gli dispiace più («così sotto quel sole, sugli scalini della chiesa, da quanto tempo non sentivo più la voce di un prete dir la sua»), poiché anche la religione non è altro che coreografia, come accade in tante feste patronali di campagna. «Più le cose e i discorsi che mi toccavano eran gli stessi di una volta – delle canicole, delle fiere, dei raccolti di una volta, di prima del mondo -, più mi facevano piacere. E così le minestre, le bottiglie, le roncole, i tronchi sull’aia».

A ricordargli che quelle colline incantate sono però anche piene di mostri e «cose nere», di cinghie, di miseria e di rabbia, ci pensa il vecchio amico Nuto, uno che da giovane aveva fama di giramondo, dal momento che, suonando il clarino nelle orchestrine, aveva attraversato addirittura tutta la vallata fino a Canelli, ma che poi si era sposato, aveva messo su famiglia e una bottega di falegnameria, e non si era più mosso da lì, a differenza dell’antico sodale. Certo – sembra dirgli – la Langa è meravigliosa per venirci in vacanza come fai tu ora (perché Anguilla, in effetti, si è stabilito a Genova), altra cosa è viverci: se così non fosse, perché mai te ne saresti andato? L’aver ora qualche soldo da parte ti ha fatto dimenticare cosa voleva dire essere un servitore e un bastardo qual eri tu, trovatello senza famiglia e «senza nome»? Ecco, queste cascine sono ancora piene di «meschini» che fanno una «vita bestiale, inumana». Con la guerra, per un momento, il mondo ha fatto irruzione in questa remota periferia, svegliando «i miserabili del paese», costringendo anche i «più tonti» a prendere coscienza del fatto che quella che a loro appariva come una condizione naturale immodificabile era in realtà il frutto di un’ingiustizia e un sopruso dei prepotenti; poi - «passata la grandine» si era tornati a credere a quegli stessi prepotenti di prima, sbucati nel frattempo fuori «dalle cantine, dalle ville, dalle parrocchie, dai conventi», e a pensare, su loro istigazione, che «tutti i partigiani erano degli assassini». Insomma, chiede Nuto all’amico, che cosa ci trovi «in questi paesacci»?

Queste due voci si rincorrono ininterrottamente per tutto il romanzo, a volte sovrapponendosi, a volte contrastandosi: l’una sussurra con rammarico che in fondo tutto è rimasto uguale; l’altra, con altrettanto rammarico, conclude che invece tutto è cambiato. Il proposito di reimmergersi nel mondo perduto dell’infanzia risulta velleitario perché quel mondo, in realtà, non è mai veramente esistito, essendo più che altro il prodotto di una ricostruzione tendenziosa della memoria. Non meno illusoro è però pensare di trasformare ciò che quel mondo davvero è, come gli eventi recenti sembrerebbero dimostrare, perché «tutto sommato solo le stagioni contano (…) e sulle colline il tempo non passa». Ciò non impedisce, tuttavia, che, grazie all’interessamento dei due amici, almeno un “meschino”, un ragazzino storpio di nome Cinto, sopravvissuto a una sanguinosa tragedia familiare, trovi una sistemazione e una possibile via d’uscita a un’esistenza altrimenti senza sbocchi: in questo caso il rogo della sua casa e la morte violenta dei suoi parenti diventa davvero, come nei tradizionali falò di san Giovanni, occasione di rigenerazione. Per un momento, è come se Pavese avesse individuato un punto d’equilibrio tra ragione e destino, impegno e disincanto, vicinanza e lontananza, permanenza e fugacità, territorialità e cosmopolitismo, mito e storia (per me questa è la grande promessa della provincia, dove, al netto di tutte le sue piccinerie, una vita più umana è ancora praticabile). Si tratta, però, di un attimo appena. Spesso il fuoco divora e basta, lasciando solo cenere, come ricorda la chiusa, assai più amara, del romanzo.

(finito il 15 agosto 2020)

Ho parlato di


Cesare Pavese
La luna e i falò
(Einaudi, 1999)

140 pp. | 18.000 lire

(ed. or. 1950)