Da buon accolito della sodalitas battiatesca, quando sento nominare Carlo Gesualdo, principe di Venosa, non posso trattenermi dal completare il distico aggiungendovi subito che fu musicista assassino della sposa: l’uomo rientra, infatti, in quella selezionatissima compagnia di spiriti eletti che il Maestro ci ha fatto conoscere evocandoli nelle sue canzoni come antidoto all’insopportabile protrarsi della fine del mondo. Questa è stata però solo la scintilla che ha acceso la curiosità per un libro che brilla poi di una potente luce propria – sebbene questa luce duelli senza tregua, pagina dopo pagina, con una non meno potente oscurità, come avviene nelle tele di Caravaggio, che qui non a caso compare in un cameo (sotto forma di «pittore delle annegate»), accanto a Giordano Bruno (il «distruttore di madonne»), accanto al povero, irrequieto, Tasso, quasi a ricordarci che, se nell’età di Shakespeare in Italia non ci fu nessun autore che possa essere posto sullo stesso piano di Shakespeare, ci furono però decine di personaggi degni di essere protagonisti di una delle sue tragedie, spiriti perennemente sospesi tra il tormento e l’estasi e nei quali questa febbrile tensione generò un dinamismo al tempo stesso meraviglioso e fatalmente autodistruttivo. Meno noto degli altri, Carlo Gesualdo merita nondimeno di stare al loro fianco.
«Io credo che se mai un uomo è stato realmente capace di perdere se stesso dentro qualcosa, ebbene, quell’uomo è il principe mio quando ascolta, e sembra entrare dentro un enorme tempio sonoro che lo avvolge, lo protegge, lo culla e gli fa dimenticare il mondo» - così lo descrive, ad esempio, un suo servitore. Carlo, tuttavia, non si limita ad ascoltare musica, ma la produce, ed anzi, per tutta la vita - non pago di essere riconosciuto come uno dei più grandi madrigalisti del suo tempo - appare letteralmente divorato dall’ossessione di trovarne una «mai ascoltata prima, che non avesse toni, che vagasse nell’infinito e nell’indistinto». Chi ha maggior competenza di me in materia assaporerà meglio tutti i dettagli tecnici di questa sfida, ma ne capisco quanto basta per intuire il travaglio di un artista che in punto di morte confessa di aver letto «libri che non si potevano leggere, e dentro questi libri si dicevano meraviglie, il mondo era più complesso di come io lo immaginavo e lo sapevo, era santo ed eretico insieme, era fluido e mutevole, era bello e feroce». Le sette note e i loro soliti accordi non sono più sufficienti per descrivere tanta magnificenza. Ahimé, «la musica non è infinita. (…) Infiniti però sono i mondi. Immaginate: esistono mondi, e sistemi che non sono questo, in cui forse i rapporti tra i suoni sono differenti, e molteplici, e inimmaginabili da chi, come noi, vede solo questa parte della creazione. (…) Io voglio che niente di ciò che ho fatto vada perduto, e voglio soprattutto fare mie tutte le combinazioni possibili e finora inesplorate. Voglio che in me si esaurisca tutta la musica possibile». Nientemeno.
Eppure quest’uomo ripropostosi di musicare «la voce di Dio», questo «meraviglioso tessitore di incastri», «questo genio fuori moda, che però ha immaginato, ben prima di molti altri, delle strade che la musica ha atteso secoli per percorrere», fu anche un omicida, e della peggior specie, uccisore della bellissima e amatissima moglie Maria d’Avalos, colta in flagranza di coito con l’amante, e con lui sventrata nel talamo, pur fra mille ripensamenti, per difendere l’onore del casato. Non sarà questo, peraltro, l’unico dramma patito da chi avrebbe «voluto soltanto poter cacciare e comporre» e invece si ritrova, dopo il delitto, a vivere quasi recluso nel maniero di famiglia, in un’Irpinia che assomiglia molto a come l’avrebbe potuta descrivere un esorcista dell’epoca, percorsa nottetempo da uomini-lupo soggiogati dalle streghe e puntellata di cavità fumanti simili agli sfiatatoi dell’inferno. Lo stesso castello dei Gesualdo, con tutte quelle stanze sotterranee da cui sembrano levarsi mostruosi lamenti, pare quasi la trasposizione fisica della psiche frantumata del suo ultimo signore. E insomma, vien facile chiedersi come può proprio un tale uomo «aver creato queste meravigliose cattedrali di suoni». La risposta che a un certo punto Carlo dà a se stesso, con un certo malsano autocompiacimento, è che «Dio ha voluto mandarmi il nutrimento di un dolore naturale, potente, che mi squassa nel corpo ma, sono sicuro, mi permetterà di comporre come non ho composto mai». E tuttavia, come imparerà sulla sua stessa pelle, «non si raggiungono certi abissi impunemente».
Ciò che fa di questo libro qualcosa di molto diverso dall’ennesimo romanzo storico – soprattutto dall’ennesimo romanzo storico in cui un personaggio più o meno famoso viene ingaggiato come detective – è la sua complessa stratificazione, oltre che l’assoluta qualità di una scrittura capace di reggere l’urto con l’indicibile. Del resto, Andrea Tarabbia ha indubbia personalità e non teme di misurarsi coi giganti: basti pensare che anche qui il punto di partenza, se non proprio uno scartafaccio, è comunque una presunta cronaca seicentesca. Con un gioco di specchi che sarebbe piaciuto molto a Umberto Eco, ma che è anche tipico dell’epoca barocca qui messa in scena, non è però per niente chiaro chi stia veramente raccontando la storia che ci viene proposta. Colui che, effettivamente, dice di farlo, ossia un servo nano e deforme del protagonista, «una creatura infelice» che però sembra visibile esclusivamente al suo padrone e solo vagamente percepito da fattucchiere o altri alienati – e che col passare della pagine si finisce per sospettare non essere altro che la proiezione di un grumo oscuro e informe presente nel cuore stesso di Carlo Gesualdo, nel qual caso sarebbe dunque egli stesso, obliquamente, l’autore delle sue memorie? Oppure Igor Stravinskij, che si dice essersi imbattuto nella cronaca in questione mentre stava lavorando alla sua riscrittura strumentale di alcune opere vocali di Gesualdo (il Monumentum pro Gesualdo da Venosa, appunto, eseguito per la prima volta nel 1960), e che quella cronaca si immagina annotare e commentare man mano, come se la stessimo leggendo noi per la prima volta con lui, ma che potrebbe averla in realtà scritta lui stesso per intero, fingendo solo di chiosarla, così da entrare più in sintonia possibile con la mente dissociata del suo protagonista e svelarne i suoi più inconfessabili segreti? Senza dimenticare, per restare sempre dalle parti di Eco, che pure qui si vagheggia di un presunto libro perduto, nella fattispecie il settimo volume dei madrigali di Gesualdo, nel quale l’autore, in una sorta di delirio, proclama di essere infine riuscito a fornire una partitura della sua musica impossibile – ma di cui, evidentemente, non c’è alcuna traccia documentata.
Affiora in questo ostentato inganno quasi una dichiarazione di poetica. Come già accennato, Gesualdo lamenta a un certo punto che «la musica presto finirà: si esauriranno tutte le combinazioni possibili tra le note, tutte le mescolanze di suoni, le dissonanze, le arditezze. Ogni cosa presto ci sembrerà la copia di qualcosa che abbiamo già ascoltato, e poi copia di copia, e poi copia di copia di copia. E così all’infinito, in un vortice che è quanto c’è di più vicino alla disperazione». A lui risponde implicitamente Stravinskij, quando afferma «che non esiste una creazione totalmente nuova, vale a dire che non appoggi su qualcosa che è già stato fatto prima di noi», aggiungendo, con una citazione nella citazione (questa volta da Picasso), «che il motivo fondamentale dell’arte non è la creazione, ma il dialogo, o il conflitto, con chi è venuto prima di noi». «Se non trovo resistenza, - conclude – ogni sforzo risulta inconcepibile: non si può costruire sul niente, qualsiasi lavoro risulterebbe vano». E non vale forse tutto ciò anche per la letteratura? Questo libro non va dunque preso come un resoconto attendibile della vita di un musicista cinquecentesco, né vuole esserlo, specie nel momento in cui vira decisamente sul visionario, quanto piuttosto l’esito del personale corpo a corpo intrattenuto con Carlo Gesualdo da Tarabbia, che in questo modo produce qualcosa che ricorda, sì, tante cose che abbiamo già letto (io ci ho ritrovato, per esempio, i sughi e gli umori di Camporesi, i tribunali della coscienza di Prosperi, nonché molti echi di quella letteratura medica rinascimentale su cui ho speso non pochi anni della mia vita), ma riesce ciò nonostante ad essere anche qualcosa di profondamente nuovo e diverso, attraverso cui possiamo comunque capire qualcosa in più anche di quell’epoca, perché se vogliamo davvero capire qualcosa non abbiamo altra scelta che provare a rifarlo.
Metto dunque da parte la mia consueta diffidenza verso le grida editoriali, che annunciano ad ogni uscita l’apparizione di un impareggiabile genio, e per una volta mi accodo al giudizio del risvolto del copertina, secondo cui questo è un romanzo importante, destinato a durare. Quantomeno, se lo meriterebbe.
(finito il 27 giugno 2021)
Ho parlato di
Madrigale senza suono
(Bollati Boringhieri 2019)
378 pp. | 16,50 €