Immergersi nella lettura di questi racconti dell’esordiente Cortázar (anno di pubblicazione 1951) è come sprofondare in una concatenazione di sogni, quando ti capita di assecondare come perfettamente normale ciò che, d’altra parte e allo stesso tempo, avverti andare contro ogni ordine logico: lettura per questo impegnativa, non tanto per lo stile, che è limpido, quanto per il fatto che ad ogni riga può accadere letteralmente qualunque cosa e non ci si può perciò concedere la minima distrazione. Che fai, per esempio, se, dopo aver cominciato una storia in cui si narra in modo del tutto ordinario di come il protagonista si stia ambientando nell’appartamento di Buenos Aires messogli a disposizione da un’amica momentaneamente trasferitasi a Parigi, d’improvviso leggi che «proprio fra il primo e il secondo piano ho sentito che stavo per vomitare un coniglietto»? Ti fermi almeno tre volte per esser sicuro di non aver visto male. Eppure è proprio così: «non gliene avevo mai detto niente, non per slealtà creda, solo che uno non si mette a spiegare alla gente che di tanto in tanto vomita un coniglietto. Poiché mi è sempre capitato mentre ero solo, tenevo la cosa per me, come ci si tengono per sé le prove di tante cose che accadono (o facciamo accadere) nell’assoluta intimità». Diventa persino complicato riassumerli, racconti così – e forse fuorviante: anche per questo mi ricordano i sogni, la cui incongruità manifesta, al risveglio, non necessariamente ricompone il sommovimento che ti hanno creato dentro, neanche a distanza di anni. Certi sogni fatti da bambini non ci continuano forse a rigirare tuttora a pelo di coscienza? E proprio perché si tratta di esperienze profondamente intime – le più intime, forse, che si possano immaginare – non ci risulta quasi impossibile spiegare agli altri perché ci suscitino tanto orrore o tanta dolcezza? Non apparirebbero forse, ad orecchie estranee, non meno bizzarre ed insulse di un coniglietto vomitato? E non sono forse - i nostri pensieri inconfessabili, quelli che hanno il potere di portarci alla rovina – come questi coniglietti, che continuiamo a vomitare e a vomitare e a vomitare senza riuscire più a controllarli?
Anche il racconto che dà il titolo alla raccolta mette in scena la vicenda apparentemente normalissima di una bambina che va a trascorrere una parte delle vacanze da alcuni parenti nella loro casa di campagna. Niente di che, appunto, se non fosse che per le stanze di quella grande magione si aggira una tigre, ragion per cui occorre sempre preoccuparsi di chiudere bene le porte che conducono da un locale all’altro, onde evitare di imbattersi nell’animale durante i suoi spostamenti e finire sbranati. Come per i conigli di cui sopra, anche qui l’informazione è buttata lì con nonchalance, come una cosa del tutto ovvia, mentre i familiari della bambina discutono se lasciarla partire oppure no («a me, credimi, non piace che vada (…). Non tanto per la tigre, in fin dei conti ci stanno molto attenti. Ma quella casa così triste...»). Sarà suggestione, eppure sono certo di averla sognata anch’io, con qualche leggera variante, una situazione così, quasi fosse una sorta di archetipo (di cui la bersaniana mucca nel corridoio è come una versione popolare padana) – questa idea, intendo, di un mostro che si aggira famelico sotto il tuo stesso tetto e che c’è, eccome se c’è, anche se si va avanti come se non ci fosse e tutt’intorno la vita continua a scorrere con la sua consueta routine (basta non aprire la porta sbagliata!).
Attraverso l’innesto fantastico, Cortázar disvela tuttavia ciò che si annida in ogni racconto, compreso quello che definiremmo “realista”, giacché – sono parole sue – «un racconto è significativo quando spezza i propri confini con quell’esplosione di energia spirituale che illumina bruscamente qualcosa che va molto oltre il piccolo e talvolta miserabile aneddoto che narra», come «una specie di frattura del quotidiano» o un’onda anomala nel fluire degli eventi. La sua è una scelta pienamente consapevole, come illustrano i due lucidissimi saggi che arricchiscono questa edizione, in cui egli condivide alcune considerazioni teoriche sul racconto breve in genere e su quello fantastico in particolare, riallacciandosi esplicitamente a una tradizione che vede in Poe il proprio iniziatore. Scrive, infatti, Cortázar che il racconto «si propone come una macchina infallibile destinata a compiere la propria missione narrativa con la massima economia di mezzi», potenziando «vertiginosamente un minimo di elementi». Per questo, pur non essendo scritto in versi, è più simile alla poesia che alla prosa: in quel peculiare combattimento che la letteratura intraprende con il lettore, deve vincerti per knock out, e non ai punti, come farebbe invece un romanzo.
Ma alla poesia il racconto breve si avvicina anche perché la sua stesura corrisponde più a una pratica terapeutica che a un “mestiere”. In quanto scrittore di racconti, Cortázar rivela infatti di sentirsi come posseduto, di volta in volta, da un tema che si agglutina «al margine della mia volontà, al di sopra o al di sotto della mia coscienza raziocinante, come se io non fossi altro che un medium attraverso il quale passasse e si manifestasse una forza estranea». Scrivere, a questo punto, diventa per lui l’unico modo per liberarsi di quell’ignoto predatore giunto da chissà dove ad attentare la sua psiche, l’unico espediente per sgravarsi di quel «coagulo abominevole» precedente ogni pensiero «che bisognava strapparsi a colpi di parole», quasi come una sorta di autoesorcismo. Questa medesima esperienza è, appunto, quella che egli offre, mediata, al lettore, dopo esserne scampato. «Nei miei racconti non c’è il minimo merito letterario, il minimo sforzo. Se alcuni si salvano dall’oblio è perché sono stato capace di ricevere e di trasmettere senza troppe perdite quelle latenze di una psiche profonda, e il resto è una certa abilità di veterano nel non falsificare il mistero, nel conservarlo il più vicino possibile alla sua fonte, col suo tremore originale. I racconti di questa specie si incorporano come cicatrici indelebili al corpo di qualunque lettore che li meriti: sono creature viventi, organismi completi, cicli chiusi, e respirano. Loro respirano, non il narratore», il quale, anzi, è «il primo a essere sorpreso dalla sua creazione, lettore turbato di se stesso».
Insomma, è come se quella specie di recettore ipersensibile e perennemente in funzione che è lo scrittore di racconti si rivolgesse al lettore per dirgli “lo senti anche tu quel rumore sinistro in sottofondo?” - e il lettore, che fin lì aveva vissuto tranquillo e non ci aveva mai fatto caso, di punto in bianco non possa più fare a meno di udirlo e interrogarsi su che cosa mai lo stia producendo (per la verità, l’effetto si può produrre anche con la luce e lo stupore, ma il motivo più diffuso in questi brevi pezzi mi sembra piuttosto essere la percezione di una minaccia indefinita). «Il racconto deve nascere ponte, deve nascere passaggio, deve fare il salto che proietti la significazione iniziale, scoperta dall’autore, a quell’estremo più passivo e meno vigile e molte volte persino indifferente che chiamiamo lettore». Per questo la grande letteratura è capace di toccare tutti - «a diversi livelli, sì, ma raggiungendo un po’ ognuno» - e per questo leggere la grande letteratura è un’esperienza totalizzante da cui «si esce come da un atto amoroso, esausti e fuori dal mondo circostante, cui si fa ritorno a poco a poco con uno sguardo di sorpresa, di lento riconoscimento, molte volte di sollievo, e tante altre di rassegnazione», sicuramente più consapevoli di quanto sia profonda e stratificata quella realtà di cui ci limitiamo spesso a sfiorare appena la superficie.
(finito il 26 dicembre 2020)
Ho parlato di
Bestiario
(Einaudi 2014)
trad. di F. Nicoletti Rossini e V. Martinetto
156 pp. | 11 €
(ed. or.: Bestiario, 1951)