Quando ho voglia di civettare, a chi mi dà del “filosofo”, rispondo – per celia, ma neanche poi tanto – che in realtà, propriamente parlando, mi considero piuttosto uno “storico delle idee”. Non si tratta di falso ideologico, in quanto tale competenza è effettivamente riportata sul mio titolo di studio. Ma se già è stato e continua ad essere complicato spiegare che cosa diavolo sia la filosofia, figuriamoci la storia delle idee. E poi perché proprio “storia delle idee” e non, come sarebbe ragionevole attendersi, “storia della filosofia”? Perché fare sempre i difficili?
Burrow si è inventato un’immagine che non mi dispiace, come abbozzo di risposta: «mi pare che il modo migliore di comprendere un periodo sia quello di pensare a esso come a un insieme di circoli che si intersecano dal punto di vista tematico, in cui gli stimoli, le aspirazioni, le speranze, le amarezze e le angosce intellettuali dei comportamenti trovano la loro genesi e divengono oggetto di investimento emotivo. É difficile che qualcuno possa ambire a collocarsi all’interno di ognuno di questi circoli; è peraltro vero che sono molti quelli che si muovono in più d’uno di essi. Le idee, invece – e con esse tutto ciò cui si riferiscono e di cui sono espressione – hanno proprio la caratteristica di rimbalzare, trasformandosi, da un circolo all’altro. Ecco perché un approccio puramente e semplicemente disciplinare alla vita intellettuale del passato è troppo limitativo. I discorsi e i dibattiti, e con essi gli stessi modi di discutere e di argomentare, hanno travalicato i limiti che, a costo di essere arbitrari, noi stessi abbiamo eretto». Così, grosso modo, in un libro di storia delle idee è più facile trovare capitoli dedicati a come una certa metafora abbia agito in contesti profondamente diversi (dall’idraulica al giardinaggio: non ci sono limiti) piuttosto che alla stringente ricostruzione dell’impalcatura logica di un argomento sostenuto da questo o quel filosofo.
Burrow si è inventato un’immagine che non mi dispiace, come abbozzo di risposta: «mi pare che il modo migliore di comprendere un periodo sia quello di pensare a esso come a un insieme di circoli che si intersecano dal punto di vista tematico, in cui gli stimoli, le aspirazioni, le speranze, le amarezze e le angosce intellettuali dei comportamenti trovano la loro genesi e divengono oggetto di investimento emotivo. É difficile che qualcuno possa ambire a collocarsi all’interno di ognuno di questi circoli; è peraltro vero che sono molti quelli che si muovono in più d’uno di essi. Le idee, invece – e con esse tutto ciò cui si riferiscono e di cui sono espressione – hanno proprio la caratteristica di rimbalzare, trasformandosi, da un circolo all’altro. Ecco perché un approccio puramente e semplicemente disciplinare alla vita intellettuale del passato è troppo limitativo. I discorsi e i dibattiti, e con essi gli stessi modi di discutere e di argomentare, hanno travalicato i limiti che, a costo di essere arbitrari, noi stessi abbiamo eretto». Così, grosso modo, in un libro di storia delle idee è più facile trovare capitoli dedicati a come una certa metafora abbia agito in contesti profondamente diversi (dall’idraulica al giardinaggio: non ci sono limiti) piuttosto che alla stringente ricostruzione dell’impalcatura logica di un argomento sostenuto da questo o quel filosofo.
La buttò lì, da profano: il nostro pensiero, complessivamente inteso, è uno strumento con cui cerchiamo di orientarci nel mondo, nè più nè meno che con le nostre mani; e come per risolvere un problema tecnico proviamo anzitutto a servirci di ciò che ci capita – appunto – per le mani, allo stesso modo facciamo col nostro pensiero, che è assai più contaminato ed elastico di quanto non ci piaccia credere: si usa quel che si ha a disposizione, e se questo non pare efficace, si prova qualcos’altro, spesso improvvisando, sulla base di analogie, esperienze pregresse o il ricordo di quanto si è letto in un vecchio romanzo d’avventura. Se si aggiunge che la storia è contigente, condizionata dagli ambienti e dai contesti, pare anche a me che studiare il modo in cui interagiscono questi pensieri (che chiamiamo “idee”, ma hanno i piedi ben piantati per terra) ci aiuti a capire qualcosa di quel che è successo (e alle volte anche di quel che succede) molto più che immaginare filosofi che discutono astrattamente fra di loro dall’alto di ipotetiche torri d’avorio. Il linguaggio tecnico spesso scende come la nottola di Minerva a cercare di giustificare visioni suscitate in modo tutt’altro che lineare e anche le questioni apparentemente più aride trovano un senso all’interno di una cornice e sotto la pressione di questioni vitali. Raccontare, perciò, l’incontro tra Wagner e Bakunin sulle barricate di Dresda nel 1848 o soffermarsi sui travagli interiori dei tanti intellettuali inglesi che abbandonarono la tonaca, ancora necessaria all’epoca per insegnare in molte Università d’Oltremanica, e cercarono altre soddisfazioni per il loro disilluso desiderio religioso – che sono poi alcune delle cose che descrive Burrow – ci permetterebbe di arrivare al punto assai più che confrontare solo i testi canonici della Grande Tradizione Filosofica Occidentale, anche se questo significa andarsi a occupare di personaggi al limite un po’ bislacchi.
Inciso: quando in un’ora di sostituzione, a uno studente poco amante della filosofia, ho accennato a Feuerbach presentandolo come una sorta di guru dei rivoluzionari tedeschi, uno che teneva conferenze sul vero senso del cristianesimo mentre si cercavano di rovesciare regimi che sull’alleanza col cristianesimo avevano basato la loro forza, (sì lo so ne ho fatto un Marcuse ante-litteram, ma in quel contesto mi sembrava appropriato), alla fine questi mi ha detto “beh, ma così in effetti è interessante”. Chiuso inciso.
Il problema con la storia delle idee è che, a riassumerle, certe ricostruzioni sembrano un pot-pourri un po’ generico (e sinceramente qui Burrow se la va anche cercare, provando a tenere insieme forse un po’ troppe cose in un arco di tempo forse un po’ troppo ampio, per risultare davvero perspicuo). Quindi io potrei anche qui provare a sintetizzare l’idea di base, secondo cui, dopo le grandi speranze suscitate dalle rivolte di metà Ottocento si sarebbe generato il classico riflusso, per cui, mancato l’appuntamento con l’apocalisse, si sarebbe cercato sfogo nell’ironia o in un materialismo che non fu altro che un idealismo sotto mentite spoglie, molto romantico e assai poco darwiniano (nonostante a Darwin spesso si richiamasse). Potrei dire come la gabbia di ferro di un sistema sociale sempre più integrato e l’illusione di un determinismo assoluto siano entrate in tensione con il volontarismo più o meno eroico di chi intendeva scrollarsi di dosso il peso della storia o riproporre miti arcaici contro la degenerazione civilizzatrice del tempo presente, attingendo al serbatoio di forze irrazionali provenienti da regni che si sottraevano al controllo dell’etica, della responsabilità, della coscienza. Però, messa giù così, sa un po’ di niente. Bisogna proprio leggersele direttamente, le pagine dedicate alla teosofia, a Frazer, a List, a Lagarde, a Gurdjeff, a Huysmans, a Renan, a Sorel, ai vari miti regressivi di fine secolo – e poi provare a giocare a “trova le differenze”, sotto l’ombrellone, sfogliando il giornale del mattino.
(finito il 6 luglio 2017)
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