Jonathan Coe è un autore che ha il dono. C’è chi scrive meglio, certo, ma come sa raccontare lui ne ho trovati pochi. Niente da fare: apri il libro e parte il pilota automatico finché ti accorgi di essere già arrivato all’ultima pagina, senza inciampi o cadute di ritmo. Qui gestisce qualcosa come almeno una dozzina di personaggi, le cui storie private, a volte privatissime, si intersecano in vario modo fra di loro e con eventi di rilevanza pubblica, alternando una pluralità di registri che variano dal comico al drammatico, senza perdere mai la consueta leggerezza. Di questi personaggi, tutti a loro modo protagonisti, la maggior parte sono vecchie conoscenze per gli aficionados di Coe, che per l’occasione è andato infatti a ripescare gli eroi del suo romanzo forse più amato, La banda dei brocchi, nonostante le loro vicende sembrassero aver trovato la loro naturale conclusione in un altro libro non per nulla intitolato Circolo chiuso. Semplice operazione di marketing per coinvolgere lo zoccolo duro dei suoi fan? Sì, forse. Ma anche una consapevole ritrattazione, che non poteva avere la stessa efficacia se avesse impiegato personaggi diversi. Chi conosce Coe sa quanto sia affascinato da quello che sarebbe potuto succedere e non è successo e da quello che invece è successo e non si sa bene perché e per come sia successo, ma sa anche che di solito ingarbuglia le tessere del puzzle solo per divertirsi poi a riconnetterle tutte quante. Quindici anni dopo è come se fosse costretto ad ammettere che, in effetti e suo malgrado, quella storia non era affatto finita come aveva pensato. «La vita è un’avventura. Non si sa mai che cosa si troverà. A volte ti capita qualcosa di bello, altre volte qualcosa di brutto, e molto spesso qualcosa di molto strano. É questa l’Inghilterra. Dobbiamo farcene una ragione».
Ecco, appunto, ma com’è che l’Inghilterra è diventata così strana? Middle England suona un po’ come la proverbiale “pancia del paese”, quella provincia neanche poi troppo profonda, ad appena due-tre ore di treno o pullman da Londra, che appare però più lontana, ai moderni globetrotters, di una qualsiasi altra capitale europea, e che fa dire a una dei personaggi, giunta ad Hartlepool, contea di Durham, «quella era l’Inghilterra, il suo paese; eppure le sembrava di essere del tutto estranea a quell’angolo di mondo». Il referendum sulla Brexit ha portato allo scoperto delle linee di confine diverse da quelle degli atlanti tradizionali, faglie che attraversano il paese dividendo le famiglie e i compagni di scuola, i genitori dai figli, i mariti dalle mogli. E chi poteva immaginarselo? Appena quattro anni prima, la sera di venerdì 27 luglio 2012, l’intero popolo britannico si era rispecchiato compiaciuto nella cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra, un vero trionfo dell’immaginario pop inglese: sono una decina di pagine intensissime, quelle in cui tutti, ma proprio tutti gli attori messi in scena da Coe si ritrovano a commentare quello che vedono sullo schermo del proprio televisore – e i “brocchi” di un tempo, i nerd degli anni ‘70 e ‘80, rabbrividiscono nel constatare che alla fine avevano ragione loro. Tutta quella musica di nicchia che li aveva condannati ai margini della vita sociale «eccola, che veniva trasmessa al mondo intero, presentata come un esempio del meglio della cultura britannica. Vendetta! Era arrivata l’ora della vendetta!». Di fronte a questo spettacolo che tiene insieme la regina e i Sex Pistols, James Bond e i Pink Floyd, Mike Oldfield e Mr. Bean, anche la più anticonformista del lotto twitta entusiasta «il mio è un paese straordinario». Quella sera tutti avrebbero voluto essere inglesi. «Quella sera l’Inghilterra sembrava un paese tranquillo e organizzato, un paese in pace con se stesso. L’idea che una trasmissione televisiva avesse potuto unire tanti milioni di persone così diverse gli faceva pensare alla sua infanzia e lo faceva sorridere. Andava tutto bene e il fiume sembrava essere d’accordo con lui».
E invece no, invece dietro le quinte della messinscena serpeggiava un rancore che, di lì a poco, sarebbe stato riversato sulla scheda referendaria fino a traboccare dalle urne. Alle pietre miliari del rock prog avrebbe fatto allora da controcanto la tradizionale (e peraltro bellissima) Adieu to Old England. Già, perché al referendum non si è scelto sulla base di ponderate considerazioni sugli accordi commerciali e quegli altri tecnicismi che stanno facendo continuamente saltare l’intesa con la UE, ma unicamente per una questione di principio. Chi non è dei nostri è contro di noi, ecco tutto. Anche se i nemici peggiori non sono neanche gli stranieri in sé e per sé, ma quelli di noi che li difendono, che prendono sempre le loro parti, gli schiavi del politically correct, i buonisti, i comunisti col rolex, quelli che non conoscono chi è Cicciogamer: «non capisci come siete esasperanti, tu e tutti quelli come te, con quell’aria di superiorità morale che avete sempre nei nostri confronti?», domanda un marito alla moglie. Se vincerà la Brexit, e vincerà – continua – sarà «per via di quelli come te».
Coe, che credo si senta chiamato in causa da una simile accusa, ma che è di Birmingham, e quindi ha un po’ più il polso dei rumours diffusi oltre la Circle Line di Londra, prova a storicizzare questo malessere (e perciò sarà forse letto ancora fra un secolo come fonte storica per questi tempi interessanti, come accade oggi coi naturalisti francesi dell’Ottocento). Non bastano i pregiudizi, infatti, per spiegare lo spaesamento della Vecchia Inghilterra, che ha anche delle buone ragioni dalla sua. Uno dei più convinti sostenitori della Brexit, per dire, è un anziano operaio in pensione che, rimasto vedovo, vuole farsi a tutti i costi accompagnare dal figlio sul luogo in cui sorgeva la sua fabbrica solo per scoprire con sconcerto che quel che non è stato demolito di quel sito è stato trasformato in un centro commerciale: «un edificio non è solo un posto, ti pare? (…) É anche la gente. La gente che ci sta dentro. Non sto dicendo… cioè, lo so che facevamo macchine di merda. Lo so che i tedeschi e i giapponesi ne costruiscono di migliori. Non sono stupido. (…) Quello che non capisco è come finirà. Come facciamo ad andare avanti in questo modo. Non produciamo più niente. Se non produciamo più niente, non abbiamo niente da vendere, perciò come… come faremo a sopravvivere? (…) Se non c’è la fabbrica, come fa la gente a trovare i soldi da spendere nei negozi?».
Di questo disagio la politica non sa minimamente farsi carico. David Cameron viene descritto da Coe attraverso le parole di un portavoce che lo idolatra come una specie di Renzi d’oltremanica, un conservatore dinamico che si riempie la bocca di slogan ad effetto e che finirà travolto dalla sua stessa scelta di drammatizzare il conflitto con un referendum mal posto che denota la sua totale incapacità di comprendere gli umori del paese (non che i laburisti siano messi meglio; quanto all’Ukip, sa solo amplificare i problemi senza preoccuparsi di come risolverli: si può leggere quasi tutto il romanzo con la mente all’Italia). La fragilità del sistema vien fuori all’indomani dei risultati. In poche parole, «siamo fottuti (…). Siamo completamente e irrimediabilmente fottuti. É un caos. (...) Nessuno era pronto. Nessuno sia cosa sia la Brexit. Nessuno sa come attuarla. (…) Nessuno sa cosa voglia dire Brexit» - ed in effetti lo stiamo vedendo. Anche se un barlume di speranza resta acceso, quando si annuncia la nascita, prevista proprio per il 29 marzo 2019, giorno in cui sarebbe dovuta scattare l’uscita dall’Europa, del figlio di una delle coppie più segnate dall’esito referendario, la loro «incerta dichiarazione di fede in un futuro ambiguo e ignoto (…): il loro bellissimo bimbo Brexit».
Non ci provo neanche a ricostruire gli snodi della trama, che – come si sarà intuito – è ricca di giravolte e di connessioni inaspettate. Mi piace il modo in cui Coe prova a riannodare i fili della storia recente del suo paese, offrendo una ricostruzione che appare coerente con l’idea che mi ero fatto e con molti altri commenti che si sentono in giro. Per certi versi pone sul tappeto le stesse questioni che solleva Houellebecq, ma quanto quest’ultimo è ruvido e disturbante, tanto Coe è educato e corretto come un ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Ed è proprio questo l’unico sospetto che resta al termine della lettura: non è che in fondo mi sembra così convincente semplicemente perché mi dice in bella forma le cose che voglio sentirmi dire? Ci penserò su.
(finito il 23 maggio 2019)
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E invece no, invece dietro le quinte della messinscena serpeggiava un rancore che, di lì a poco, sarebbe stato riversato sulla scheda referendaria fino a traboccare dalle urne. Alle pietre miliari del rock prog avrebbe fatto allora da controcanto la tradizionale (e peraltro bellissima) Adieu to Old England. Già, perché al referendum non si è scelto sulla base di ponderate considerazioni sugli accordi commerciali e quegli altri tecnicismi che stanno facendo continuamente saltare l’intesa con la UE, ma unicamente per una questione di principio. Chi non è dei nostri è contro di noi, ecco tutto. Anche se i nemici peggiori non sono neanche gli stranieri in sé e per sé, ma quelli di noi che li difendono, che prendono sempre le loro parti, gli schiavi del politically correct, i buonisti, i comunisti col rolex, quelli che non conoscono chi è Cicciogamer: «non capisci come siete esasperanti, tu e tutti quelli come te, con quell’aria di superiorità morale che avete sempre nei nostri confronti?», domanda un marito alla moglie. Se vincerà la Brexit, e vincerà – continua – sarà «per via di quelli come te».
Coe, che credo si senta chiamato in causa da una simile accusa, ma che è di Birmingham, e quindi ha un po’ più il polso dei rumours diffusi oltre la Circle Line di Londra, prova a storicizzare questo malessere (e perciò sarà forse letto ancora fra un secolo come fonte storica per questi tempi interessanti, come accade oggi coi naturalisti francesi dell’Ottocento). Non bastano i pregiudizi, infatti, per spiegare lo spaesamento della Vecchia Inghilterra, che ha anche delle buone ragioni dalla sua. Uno dei più convinti sostenitori della Brexit, per dire, è un anziano operaio in pensione che, rimasto vedovo, vuole farsi a tutti i costi accompagnare dal figlio sul luogo in cui sorgeva la sua fabbrica solo per scoprire con sconcerto che quel che non è stato demolito di quel sito è stato trasformato in un centro commerciale: «un edificio non è solo un posto, ti pare? (…) É anche la gente. La gente che ci sta dentro. Non sto dicendo… cioè, lo so che facevamo macchine di merda. Lo so che i tedeschi e i giapponesi ne costruiscono di migliori. Non sono stupido. (…) Quello che non capisco è come finirà. Come facciamo ad andare avanti in questo modo. Non produciamo più niente. Se non produciamo più niente, non abbiamo niente da vendere, perciò come… come faremo a sopravvivere? (…) Se non c’è la fabbrica, come fa la gente a trovare i soldi da spendere nei negozi?».
Di questo disagio la politica non sa minimamente farsi carico. David Cameron viene descritto da Coe attraverso le parole di un portavoce che lo idolatra come una specie di Renzi d’oltremanica, un conservatore dinamico che si riempie la bocca di slogan ad effetto e che finirà travolto dalla sua stessa scelta di drammatizzare il conflitto con un referendum mal posto che denota la sua totale incapacità di comprendere gli umori del paese (non che i laburisti siano messi meglio; quanto all’Ukip, sa solo amplificare i problemi senza preoccuparsi di come risolverli: si può leggere quasi tutto il romanzo con la mente all’Italia). La fragilità del sistema vien fuori all’indomani dei risultati. In poche parole, «siamo fottuti (…). Siamo completamente e irrimediabilmente fottuti. É un caos. (...) Nessuno era pronto. Nessuno sia cosa sia la Brexit. Nessuno sa come attuarla. (…) Nessuno sa cosa voglia dire Brexit» - ed in effetti lo stiamo vedendo. Anche se un barlume di speranza resta acceso, quando si annuncia la nascita, prevista proprio per il 29 marzo 2019, giorno in cui sarebbe dovuta scattare l’uscita dall’Europa, del figlio di una delle coppie più segnate dall’esito referendario, la loro «incerta dichiarazione di fede in un futuro ambiguo e ignoto (…): il loro bellissimo bimbo Brexit».
Non ci provo neanche a ricostruire gli snodi della trama, che – come si sarà intuito – è ricca di giravolte e di connessioni inaspettate. Mi piace il modo in cui Coe prova a riannodare i fili della storia recente del suo paese, offrendo una ricostruzione che appare coerente con l’idea che mi ero fatto e con molti altri commenti che si sentono in giro. Per certi versi pone sul tappeto le stesse questioni che solleva Houellebecq, ma quanto quest’ultimo è ruvido e disturbante, tanto Coe è educato e corretto come un ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Ed è proprio questo l’unico sospetto che resta al termine della lettura: non è che in fondo mi sembra così convincente semplicemente perché mi dice in bella forma le cose che voglio sentirmi dire? Ci penserò su.
(finito il 23 maggio 2019)
Ho parlato di
Jonathan Coe
Middle England
(Feltrinelli, 2018)
trad. di M. Castagnone
400 p. | 19 €
(ed. or. Middle England, 2018)