La data del 12 dicembre 1969 dovrebbe essere scolpita nella memoria storica della Repubblica almeno quanto l’11 settembre 2001 lo è in quella americana (ma mi verrebbe da dire mondiale), così come l’immagine dell’atrio sventrato della Banca Nazionale dell’Agricoltura dovrebbe produrre in noi italiani lo stesso angosciante senso di smarrimento suscitato dallo squarcio di Ground Zero. Che non sia esattamente così, se non ai piani nobili della società, e ovviamente per chi è stato travolto direttamente da quella vicenda, mi pare persino triviale dirlo, anche senza citare quei sondaggi secondo cui, per gli adolescenti di oggi, la strage di Piazza Fontana, quando evoca ancora qualcosa, richiama confusamente una stagione di violenze percepita però come un pastone unico, le cui responsabilità sono infatti attribuite indistintamente ora alla mafia ora alle Brigate Rosse. Che non sia facile raccontarla, quella strage, lo dico per esperienza diretta di insegnante, perché ci sono una marea di addentellati di cui tenere conto se si vuole darne un inquadramento un minimo sensato, ma anche per il cortocircuito concettuale in cui rischi di ingolfarti quando, da un lato, ti sforzi di mostrare ai tuoi studenti l’inconsistenza logica dei vari complottismi odierni e, dall’altro, però ti trovi poi costretto a parlare effettivamente di depistaggi e manipolazioni, ancorché documentati, per spiegare come mai, a cinquant’anni di distanza, conosciamo bene o male chi ha messo le bombe, ma nessuno è in carcere per questo (“ma possibile che sia davvero accaduto tutto questo?” - classica obiezione: “ma dai, prof, non è credibile”). Il che offre un’ulteriore conferma del fatto che, se si vuole nascondere la verità, lo strumento più efficace resta quello di intorbidare le acque, perché peggio che non sapere affatto come stanno le cose è saperlo abbastanza, ma non poterci fare quasi niente, con questo sapere.
Là dove il magistrato non può arrivare, arriva però lo storico, il cui lavoro può aiutarci a mettere ordine e fare sintesi, portando a galla il rimosso, come una sorta di psicoterapia sociale. Il libro di Mirco Dondi, rielaborazione di un capitolo di un suo più ampio volume dedicato alla strategia della tensione, parte appunto dalla cronaca della giornata del 12 dicembre per allargarsi, ovviamente - e non potrebbe essere altrimenti -, al contesto entro cui si inserì la strage e alle infinite conseguenze (processuali e non), che ne derivarono, fissando così una serie di punti che, fra le tante ombre ancora presenti, dovremmo ormai cominciare a considerare irrevocabile patrimonio comune della nostra coscienza civile. Primo punto: nel 1969 il Paese è in fibrillazione; la spinta riformista dei primi governi di centro-sinistra sembra essersi esaurita prima di avere raccolto tutte le esigenze provenienti da una società in trasformazione; ai vertici delle istituzioni e all’interno della Democrazia Cristiana - che delle istituzioni è il perno inamovibile, ma che è a sua volta un microcosmo tutt’altro che monolitico - si scontrano almeno due strategie diverse, l’una (rappresentata da Moro, allora ministro degli Esteri) interessata a governare politicamente questi processi, non disdegnando l’idea di costruire un asse con lo stesso Partito Comunista, nel quadro di una estensione delle garanzie democratiche, l’altra (ben espressa da Rumor, in quel momento Presidente del Consiglio) intenzionata invece a contenere le forze progressiste anche attraverso il ricorso a una modifica dell’assetto costituzionale in senso moderato-conservatore, con l’avallo dello stesso Presidente Saragat, che per un po’ di tempo sembra persino cullare l’idea di intestarsi un’operazione analoga a quella effettuata un decennio prima da De Gaulle in Francia; in questo secondo senso, lo stillicidio incontenibile di manifestazioni, di proteste e anche di episodi violenti può diventare il facile pretesto cui appellarsi per invocare un ritorno all’ordine che incontri il consenso di un’opinione pubblica impaurita e bisognosa di riferimenti più solidi del milionesimo governo balneare. Perchè non sollecitare allora questa soluzione, uscendo fuori dalle regole del gioco democratico «con operazioni di disturbo (destabilizzanti ma incruente)» da attribuire poi ad eversori “rossi”? Anche gli americani, del resto, approverebbero.
Ma naturalmente non è che puoi mandare direttamente Rumor a piazzare qualche petardo nei cassonetti: occorre perciò reclutare manovalanza a buon mercato. Ed è qui – secondo punto – che il piano di destabilizzazione “leggera” agognato da un pezzo dello Stato si incontra con il piano di destabilizzazione “pesante” coltivato da un manipolo di neofascisti e da altri pezzi dello Stato (reduci di Salò o comunque ufficiali poco amanti della Costituzione che avevano giurato di servire) - da quelli, cioè, che non si accontenterebbero del presidenzialismo, ma vorrebbero direttamente i colonnelli e una bella sterzata autoritaria, come era avvenuto poco prima in Grecia e come sarebbe avvenuto poco dopo in Cile o in Argentina, approfittando delle condizioni offerte dalla guerra fredda. Qui si entra nella zona grigia degli ammiccamenti e delle ambiguità, per cui è difficile individuare una precisa catena di comando, posto che ci sia effettivamente stata, quantomeno in termini penalmente perseguibili: il meno che si può dire è che, con opportune sollecitazioni e attestate operazioni di infiltrazione, si sono offerte solide coperture e si è lasciato libero corso al furore ideologico di un gruppo estremista nero utile allo scopo, Ordine Nuovo, dalle cui fila provengono non per nulla tutti i principali protagonisti della stagione delle stragi (e attorno a cui gravitarono personaggi che, scagionati dalle inchieste, avrebbero comunque esercitato un ruolo politico non irrilevante nella successiva storia repubblicana, come Pino Rauti).
Gli ordinovisti meritano due parole. Dondi ne dà questo efficace ritratto: «la maggior parte di loro ha meno di 30 anni nel 1969 (…). Appartengono a classi sociali medio-alte. Il loro elitarismo dello spirito si traduce nel disprezzo verso le classi meno abbienti. (…) Li accompagna il mito della violenza, enunciata ed esibita, il culto del coraggio e della forza fisica, la spietatezza nei confronti del nemico che può ritorcersi anche verso il camerata che non rispetta le consegne. Un gruppo chiuso, autoreferenziale che rifiuta il mondo contemporaneo e la rapida trasformazione politica e sociale che percorre anche l’Italia. (…) Ordine nuovo si differenzia rispetto al Movimento sociale per un tratto ideologico filonazista. Gli ordinovisti si sentono degli eletti, in tutto superiori ai militanti missini (…). É un mondo senza orizzonte sociale, proteso a un conflitto distruttivo, privo di qualsiasi polo relazionale. L’unico bisogno è la gerarchia, in una sfasata quanto ossessiva percezione della guerra». Tali miliziani si considerano - zarathustranamente - uomini del grande disprezzo, novelli samurai impegnati in una lotta senza quartiere contro tutto ciò che c’è di materiale e volgare nel mondo moderno, la cui suprema ipostasi è rappresentata da quella sorta di Grande Satana che sono gli Stati Uniti, ma con i quali però si alleano, perché a questa confraternita di superuomini piace, appunto, giocare alla guerra, ma solo tenendosi bene attaccati alla gonnella di mamma Nato. Vorrebbero tanto identificarsi con gli aristoi che governano lo stato ideale di Platone, ma della Repubblica ricordano piuttosto il bovaro Gige, che può permettersi qualsiasi malefatta grazie al suo anello dell’invisibilità. É proprio per senso di impunità, infatti, che, dopo una serie di attentati dimostrativi, Franco Freda, l’ideologo del gruppo, «uno degli uomini peggiori che l’Italia abbia prodotto, e che ha ripagato l’Italia con il peggio di sé» (come lo ha definito Enrico Deaglio), decide a un certo punto di alzare la posta, architettando una strage che lascia sul campo 17 morti e 88 feriti, ma che sarebbero potuti anche essere di più se fosse scoppiata anche una seconda bomba depositata alla Banca Commerciale Italiana (senza dimenticare gli ordigni che, contemporaneamente, esplosero a Roma, all’Altare della Patria e presso una filiale della BNL). Ma che importa? «“In fondo era plebe”», confesserà più tardi uno dei militanti coinvolti nell’azione. E che sarà mai? «Nulla se paragonato a Hiroshima, Nagasaki o ai bombardamenti su Dresda», commenterà un altro (Delfo Zorzi, che poi in Giappone ci è finito per davvero e tuttora là vive).
Con uomini di tale risma, dunque, una parte di Stato ha trovato accordi e intese inconfessabili, così inconfessabili che, anche se le cose si erano spinte ben oltre il limite implicitamente pattuito, ogni possibile contatto andava a questo punto in ogni caso insabbiato e l’attenzione dirottata altrove. Perciò si procedette comunque, come prestabilito, con la pista anarchica, l’arresto “pilotato” del "mostro" Valpreda, la falsificazione delle prove, l’assassinio di Pinelli, con tutto ciò che ne discese. Il paradosso storico, se vogliamo, è che in questo modo i profeti della destabilizzazione finirono per diventare agenti di una stabilizzazione molto diversa da quella che si erano immaginati. Nessuna proclamazione di stato d’assedio venne dopo la strage e nessuna legge speciale – anzi, l’unica misura repressiva da parte del governo fu la proibizione di una manifestazione missina prevista per il 14 dicembre che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto sfociare in un attacco diretto alle sedi dei sindacati e dei movimenti di sinistra. Rumor avrebbe poi pagato, per così dire, il suo “tradimento” con un attentato fallito nel 1973, un po’ come i mafiosi si sarebbero vendicati su Lima nel 1993 dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxiprocesso. Sono indizi di una responsabilità politica inaggirabile - terzo punto. Già di per sé l’idea di un ricorso a operazioni coperte andrebbe considerata, più che come come un segno di forza, come «una manifestazione di debolezza» da parte di una classe dirigente che dimostrò in quel modo «l’incapacità di dominare, nel quadro della democrazia, le agitazioni sociali», ma ancor più grave è «conoscere la trama e non operare affinché questa venga sventata» e poi tacere perché «la trama è talmente irriferibile da delegittimare le carriere di rispettabili statisti». Così irriferibile che, a tutt’oggi, non ci sono colpevoli condannati e uno come Freda è ancora a piede libero, titolare come allora delle Edizioni di Ar (dove “ar” sta appunto per “aristocratico”: “così e così deve essere, costi quel che costi in termini di spiacevolezze”, si legge sulla pagina di presentazione del loro sito), opinionista per un certo tempo di Libero (giusto per ricordare l’albero genealogico della Seconda Repubblica) e folgorato infine nientemeno che da Salvini e da Trump (i quali sarebbero stati liquidati da un vero oligarca greco come demagogici imbonitori). Certo, «non tutti sanno tutto, ma lo Stato dispone di una cospicua mole di informazioni, dal momento che i suoi servizi sono il bacino di raccolta di numerosi fonte italiane e straniere. Su Ordine Nuovo (…) le conoscenze dello Stato (…) permetterebbero la completa neutralizzazione (…) -, a maggior ragione nel momento in cui la strategia dell’esplosione mortale scavalca la tattica istituzionale delle bombe dimostrative. Se ciò non è avvenuto e, al contrario, molti aderenti sono stati protetti dallo Stato, non resta che ammettere la compromissione delle istituzioni che alla fine hanno valutato come ugualmente funzionale ai loro scopo anche la strategia del sangue. Altri, fra coloro che all’interno dello Stato hanno attivato le azioni, sono rimasti vittime del loro stesso progetto». Per questo piazza Fontana è la «strage dell’innocenza perduta», in quanto «lo Stato ha disatteso il suo ruolo di salvaguardia della sicurezza dei cittadini rompendo il patto sociale alla base della sua legittimazione».
Gli ordinovisti, che già si sentivano ministri in pectore del nuovo organigramma autoritario, divennero così dei comuni ricattatori, cosa che non li trattenne tuttavia dal seminare altro sangue negli anni successivi, sempre inseguendo ipotetici progetti di rovesciamento dell’ordine costituito che non arrivarono mai da nessuna parte, non tanto perché l’impresa fosse titanica (svuotiamo una volta per tutte di ogni retorico idealismo il loro delirio suprematista), ma perché probabilmente l’obiettivo effettivo di chi si serviva dei loro attentati non era mai stato davvero quello. Al settarismo élitario di chi si crede superiore a tutto e a tutti perché pensa di essere la reincarnazione degli eroi omerici e al pragmatismo immorale di chi ritiene che sia suo compito tutelare in ogni modo lo status quo e la propria rendita, posizioni apparentemente opposte eppure andate così spesso a braccetto con i loro bla bla sullo Stato, la bandiera e la nazione, preferisco il composto silenzio dei milanesi che, con la loro semplice presenza ai funerali delle vittime, gridarono in modo inequivocabile il loro no pasarán! La cultura cattolica ha elaborato l’idea che il popolo di Dio abbia un suo sensus fidei di cui anche il magistero deve tenere conto: nella misura in cui un analogo concetto può essere ripreso nella sfera laica, quella è l’autentica patria in cui pienamente mi riconosco.
(finito l'11 aprile 2020)
Ho parlato di
12 dicembre 1969
(Laterza, 2018)
256 p. | 18 €