martedì 2 luglio 2024

Taràs Bul'ba

Anche se tutte le evidenze sembrerebbero attestare il contrario, aspetterei ancora prima di liquidare come una semplice boutade il parere espresso nella sua corrispondenza con Einstein dal dottor Freud, secondo cui il processo di incivilimento porterà poco per volta la nostra specie a introiettare una sorta di istintiva repellenza per ogni forma di guerra. Pensate per un attimo a come abbiamo reagito alla notizia dell’invasione russa dell’Ucraina, quando ci siamo chiesti con sgomento come fosse possibile che la guerra (e una guerra classica, fatta cioè di reticolati, prime linee, sconfinamenti, non quella versione “umanitaria”, “preventiva”, “asimmetrica”, “sporca” che ci è stata venduta dalla caduta del muro di Berlino in poi) potesse scoppiare proprio da noi, in città come le nostre, attorno a stadi che in tempi meno interessanti farebbero risuonare la musichetta della Champions League. E pazienza se questa costernazione rivela la cattiva coscienza di noi anime belle vissute, come si dice, nel più duraturo periodo di pace sperimentato dal nostro continente (i conflitti nella ex Jugoslavia a quanto pare li derubrichiamo istintivamente a scontri tribali balcanici, qualcosa di fatale come le zuffe fra gli animali nella savana): tale miscuglio di stupore, paura e inquietudine rivela appunto che, se non per virtù o sincero spirito di fratellanza, quantomeno per convenienza, utilità e quieto vivere, la guerra è qualcosa che ormai non ci piace più tanto fare (almeno quando ci tocca direttamente).

Ma se noi oggi simpatizziamo senza neanche porci il minimo dubbio con Archiloco quando abbandona lo scudo sul campo per salvare la pelle, non è sempre stato così. Al contrario, tutta l’epica che ha espresso i codici di condotta esemplari della nostra civiltà, e che ancora in gran parte assorbiamo a scuola, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, passando per le saghe nordiche e quelle dei paladini di Francia, ci presenta la guerra non solo come una triste necessità cui è doveroso applicarsi, ma come qualcosa di bello, onorevole, compiutamente virile – e le stesse canzoni trobadoriche, messe momentaneamente da parte le dolci maniere e la bella cortesia, ci ricordano che per secoli il canto degli uccellini all’inizio della primavera è stato per il buon cavaliere il segnale al suono del quale scuotersi di dosso il torpore invernale e rimettersi finalmente in sella alla ricerca della fama promessa a chi avesse irrigato con quanto più sangue possibile quei paesaggi bucolici riemersi dal disgelo.

Così andavano le cose un po’ dappertutto nel mondo, ma forse così andavano ancor di più, «nel difficile XV secolo», in quell’«angolo seminomade d’Europa» posto lungo l’imprecisato confine con l’Asia, dove per chilometri e chilometri non si incontravano «mai villaggi, solo sempre la stessa steppa, infinita, libera, bellissima», anche perché – come nello stato di natura hobbesiano – nessuno si azzardava a costruire più di un rifugio di paglia per sé e per i suoi familiari, ben conscio che tutto il suo lavoro sarebbe stato spazzato via, presto o tardi, dall’inevitabile incursione dei predoni mongoli. Eppure in queste inospitali regioni tanto remote e selvagge che per Plinio non potevano accogliere se non mastodontici scontri tra draghi e altre creature colossali qualcuno che sta perfettamente a proprio agio c’è: sono i guerrieri cosacchi – uomini fieri, rudi, liberi, che fecero dell’isola di Chortycja, sul Dnepr, primo nucleo della Zhaporizzja oggi famosa per la sua centrale nucleare, il centro di una singolare repubblica militare, una roccaforte preclusa alle donne, dove i maschi adulti trascorrevano la maggior parte del tempo nella «gozzoviglia, segno dell’ampia sfrenatezza della loro libertà interiore», interrotta solo dalle stagionali spedizioni intraprese ora contro i tartari, ora contro i turchi, ora contro quei polacchi rinnegati che avevano abiurato la santa fede ortodossa per abbracciare quella cattolica, nobilmente convinti com’erano «che fosse indifferente dove combattere pur di combattere, perché non è bene che un uomo d’onore viva senza battaglie» e che un giovanotto superi una certa età senza mai essersi buttato nella mischia. Sì, ci saranno cadaveri dappertutto, «ma grande sarà il bene in una simile distesa di morte sparpagliata in lungo e in largo! Nessuna impresa magnanima va distrutta, e non si perderà la gloria cosacca come non va perduto nemmeno un granello di polvere nella canna di un fucile. Ci sarà, ci sarà un bandurista con la barba canuta sul petto, e forse sarà un vecchio con la testa bianca ma ancora nel pieno della sua forza virile, saggio spirito, capace di parlare di loro con la sua parola profonda e possente. E si spargerà per tutto il mondo la loro gloria».

É esattamente questo genere di gloria quella cui ambiscono anche Ostap e Andrij, i due figli che il vecchio Taras Bul’ba accompagna tutto orgoglioso per la prima volta al raduno annuale del suo popolo, perché diventino, come lui, due cosacchi tutti d’un pezzo, nonostante i piagnucolii della mamma dinanzi all’alta probabilità che nessuno dei due avrebbe mai più fatto ritorno a casa. E sarebbe diventata sicuramente una grande epopea, la loro storia, se a cantarla fosse stato un anonimo bardo d’altri tempi, anziché un romanziere moderno, con una maggiore sensibilità per le ambiguità del reale. Il destino di questi fratelli è, infatti, totalmente opposto - almeno secondo i codici di condotta cosacchi - eppure, alla fin fine, anche così terribilmente simile da imporre qualche domanda. Andrij, innamoratosi di una bella polacca durante l’assedio di Dubno, abbandona in segreto il proprio accampamento per seguirla all’interno della città compiendo quello che agli occhi di Taras Bul’ba non può non apparire come il più spregevole dei tradimenti. Il figlio, in realtà, ha le sue ragioni («chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data come patria? La patria è quel che l’anima nostra cerca, quel che per lei è più dolce d’ogni altra cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria!», afferma, rivolgendosi alla ragazza amata), ma sono argomenti che il padre semplicemente non può capire, tant’è che sarà lui stesso a trafiggerlo con la propria spada quando finiranno per reincontrarsi, a riparazione di un’onta quasi sacrilega («io ti ho generato, io ti ucciderò»: questa è la sua elementare legge morale). Ostap, al contrario, è la luce dei suoi occhi: forte e impavido come pochi altri, paga però la sua irruenza con la cattura, sempre ad opera dei polacchi – e tale è stato il terrore da lui seminato in battaglia che la pena a cui verrà sottoposto dovrà risultare memorabile. In quel secolo brutale, il suo supplizio diventa così un autentico spettacolo che richiama tutti i cittadini di Varsavia, comprese «una moltitudine di vecchie, le più devote, una quantità di fanciullette e di donne, le più delicate, che in seguito per tutta la notta avrebbero sognato cadaveri insanguinati»; anche i macellai presenti commentano sotto il palco «con l’aria dell’intenditore» le tecniche di squartamento impiegate dal boia. Ad una ad una gli saranno spezzate tutte le ossa, senza che gli aguzzini riescano però a strappargli dalla gola una parola di lamento, finché, dopo aver sopportato tutto questo con la massima fermezza, il ragazzo viene assalito dall’angoscia e, novello Cristo crocifisso, invoca il soccorso paterno («Bat’ko!», che potrebbe stare per Abbà, «Dove sei? Mi senti?»). E proprio in quel momento, in mezzo alla folla ammutolita, Taras Bul’ba, che era riuscito a intrufolarsi furtivamente nella città nemica, risponde con voce tonante «Sento!».

Difficile immaginarsi scena più potente, che a un certo tipo di lettore potrebbe apparire come un modo per celebrare un complesso di valori in cui l’ossequio verso le tradizioni dei padri fa tutt’uno con la percezione di se stessi quale estremo baluardo difensivo della cristianità contro la minaccia degli infedeli provenienti dai confini del mondo e ancor più contro quella degli infedeli già mischiati fra noi, portatori di tendenze effeminate e corrotte (qui tipicamente rappresentate dall’ebreo che accompagna i cosacchi nelle loro spedizioni, pur subendone le angherie, per succhiare profitti dalla devastazione mentre loro sputano sangue). Per un miracolo della letteratura, uno scrittore russo nato in Ucraina come Gogol’, anche se forse non capirebbe quello che sta accadendo ora da quelle parti, perché le linee di demarcazione che aveva in testa non prevedevano significative distinzioni tra la Rus’ di Kiev e quella di Mosca, ci offre comunque degli strumenti utili per provare a comprendere il nocciolo ideologico che sorregge la retorica di Putin, con tutto la sua fortissima carica escatologica («aspettate, verrà il tempo, ci sarà il tempo, verrete a sapere cosa sia la fede ortodossa! Già adesso lo sentono i popoli lontani e vicini: si alzerà dalla terra russa il suo zar, e al mondo non ci sarà forza che gli si potrà opporre»). Per un miracolo ancora maggiore, però, in quegli schemi di pensiero possiamo riconoscere anche gli stessi meccanismi che operano attivamente, sia pure con diversi livelli di semplificazione, nei discorsi delle forze politiche oggi riemergenti in Europa, alle quali Gogol’ sembra preventivamente obiettare: ma davvero non sappiamo fare di meglio che preparare il terreno all’ecatombe dei nostri figli? Perchè è questo quello che succede quando non si riesce a capire che, nonostante l’addobbamento cristiano, sotto il petto di Taras Bul’ba continua a pulsare il cuore di una divinità guerriera delle steppe e non quello del Padre misericordioso che spezza definitivamente la logica della violenza. Spero vivamente che, quando suonerà la prima tromba, gli opportunisti ci salvino dagli invasati.

(finito il 5 marzo 2022)

Ho parlato di


Nikolaj Gogol'
Taràs Bul'ba
(Gruppo Editoriale L'Espresso 2011)

trad. di S. Prina

La Biblioteca di Repubblica - I Grandi della narrativa n. 24

160 p.

(ed. or.: Taràs Bul'ba, 1835)

mercoledì 19 giugno 2024

Casino totale

Fra gli innumerevoli vezzi che fanno di me il lettore che sono, c’è anche quello di selezionare i libri da portarmi in viaggio sulla base di una più o meno appropriata affinità ambientale con i luoghi che andrò a visitare. E quantunque Loano non sia Ibiza, la tonalità della luce sulla marina o il suo luccichio sulla scorza dei limoni ricreano comunque pure qui uno sfondo sufficientemente adeguato per facilitare l’immersione in una qualsiasi variante di letteratura meridiana, compresa quella noir di cui Jean-Claude Izzo è considerato a buon diritto un maestro – per cui, per una scappata di due giorni in riviera, un libro come questo calza a pennello, anche per la sua snellezza. Semmai, gli stilemi propri del genere – l’annodare, cioè, intorno al filo della trama un variopinto repertorio di riferimenti gastronomici, musicali, poetici, paesaggistici, topografici che restituiscono una fascinosa idea di mondo, con tutta la sua conturbante bellezza, fatta, in questo caso di pastis, aioli, calanchi, versi provenzali, mistral – portano a chiederti come mai, tu che hai girato in lungo e in largo Provenza e Occitania non ti sei mai deciso a fermarti una buona volta a Marsiglia, la vera protagonista del romanzo («La storia che leggerete è totalmente immaginaria. (…) Solo la città è veramente reale. Marsiglia. E tutti coloro che ci abitano. Con quella passione è solo loro. Questa storia è la loro storia» - che è un modo elegante per trasformare un’avvertenza a scopo legale in un’autentica dichiarazione di poetica).

Attenzione, però. Anche se non si sfugge del tutto all’effetto Lonely Planet («scendere rue d’Aubagne, a qualsiasi ora del giorno, è come viaggiare. Un susseguirsi di negozi, ristoranti, come tanti scali. Italia, Grecia, Turchia, Libano, Madagascar, La Réunion, Thailandia, Vietnam, Africa, Marocco, Tunisia, Algeria»), la Marsiglia raccontata in queste pagine non coincide con la rassicurante cartolina venduta dalle agenzie di viaggi. A proposito di una mostra dello scultore locale César allestita alla Vieille Charité – edificio un tempo adibito a ospizio per poveri e appestati, riciclato poi come campo di raccolta durante l’occupazione tedesca – Izzo osserva, appunto, che «i turisti arrivavano a frotte. Interi pullman. Italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi. E giapponesi, certo. Tanta banalità e cattivo gusto in un luogo così carico di storie dolorose, mi sembra il simbolo di questa fine secolo». Esattamente quello che accade ogni qual volta ci si appropria di espressioni come “rinascimento” per avviare massicce ristrutturazioni urbanistiche che danno lustro ai centri storici e spazzano via tutto l’indesiderabile sotto il tappeto delle periferie dormitorio, attraverso una strategia di silenziosa militarizzazione degli spazi attuata in nome della sicurezza («il metrò e le stazioni brulicavano di sbirri. La Francia repubblicana aveva deciso di dare una bella ripulita. Immigrazione zero. Il nuovo sogno francese»). Come se un’operazione di maquillage potesse davvero sopprimere il carattere di una persona, i suoi vissuti.

No, «Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte». E difatti morto, prima ancora che il libro cominci, è uno dei suoi protagonisti – Manu; e morto, prima che finisca il prologo, è anche il secondo protagonista – Ugo – tornato a Marsiglia proprio con l’intento di vendicare Manu; ne resta vivo solo un terzo, Fabio, che di Ugo e Manu era stato intimo amico, ai tempi di una giovinezza avventurosa e tutto sommato felice, piena di letture, dischi, partite alla belotte, sogni, cielo e tanto mare, quando amavano tutti e tre la stessa donna, prima che le cose andassero a scatafascio e le loro strade si dividessero. Tocca appunto a Fabio, che dei tre è il reduce, l’ultimo, ossia «colui che ereditava tutti i ricordi», con il loro carico pesante e glorioso, tentare di capire cosa sia effettivamente successo ai suoi vecchi compagni e, se possibile, provare a riparare qualche torto. Così facendo, lui che è un poliziotto anomalo – e anomalo soprattutto a Marsiglia, dove chi indossa una divisa gioca sin troppo facilmente a fare il cow-boy e vede indiani ovunque, mentre lui sembra più un mediatore culturale che un agente vero e proprio - mette le dita in un ingranaggio complicatissimo e ne vien fuori, appunto, un “casino totale”, con sparatorie, agguati, doppiogiochisti, droga e ovviamente clan contrapposti di camorristi, arabi e marsigliesi (in originale il titolo suona Total Khéops, presentato come un brano di musica rap, quando il rap si faceva ancora nei ghetti ed era sul serio controcultura: «a Marsiglia, si chiacchiera. Il rap è solo questo. Chiacchiere, niente di più. I cugini della Giamaica avevano trovato qui dei fratelli. E chiacchieravano come al bar. Di Parigi, dello Stato centralista, delle periferie scalcinate, degli autobus notturni. La vita, i problemi. Il mondo visto da Marsiglia»).

Il tono disincantato è un tributo al genere, d’accordo, così come il solitario cinismo del protagonista, la sua malinconia di fondo, il racconto in prima persona, con uno stile smozzicato e asciutto, mutuato dal parlato. Ma in un personaggio così visceralmente intriso di marsigliesità, quasi avatar della città stessa, l’amarezza per le promesse incompiute della giovinezza, anziché nutrire meri rancori individualistici, assume immediatamente una prospettiva politica, e il racconto di gangster diventa in tal modo veicolo di una precisa denuncia. Il punto è che Marsiglia, porta aperta sul mondo intero, è veramente «un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”». Non per nulla, sia Manu che Ugo che Fabio sono tutti e tre figli di immigrati, esuli a suo tempo dalla Spagna franchista e dall’Italia fascista, gente per cui la visione del sinistro profilo del chateau d’If deve aver suscitato paradossalmente lo stesso effetto galvanizzante prodotto dall’apparizione della Statua della Libertà a quanti tentarono la sorte oltreoceano. E invece, col tempo, a forza di gettare benzina sul fuoco del risentimento, «Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane».

Adesso, dove adesso è la metà degli anni ‘90, quando Izzo scrive, il microcosmo marsigliese è invece ormai nettamente diviso in continenti fra loro non più comunicanti. Da una parte crescono i «figli di immigrati, senza lavoro, senza futuro, senza speranza. Bastava che accendessero la televisione e ascoltassero il telegiornale, per sapere che il loro padre era stato inculato e che erano pronti a inculare anche loro», giovani a cui i bancari ridono in faccia quando, col loro primo stipendio, chiedono un prestito per comprarsi un macchina. Dall’altra si barricano i figli dei residenti (spesso semplicemente immigrati di più antica data), mosci, assuefatti, ma carichi di diffidenza verso gli ultimi arrivati: «nei loro occhi, sfuggenti, nessun lampo di rivolta. Amari dalla nascita. Avrebbero nutrito odio solo per i più poveri. E per chi avrebbe tolto loro il pane. Arabi, neri, ebrei, gialli. Mai per i ricchi. Si capiva già come sarebbero diventati. Poca cosa. Nel migliore dei casi, autisti di taxi, come il padre. E la ragazza, shampista. O commessa al Prisunic. Dei francesi medi. Cittadini della paura». A di sopra di tutti prosperano senza vergogna quanti traggono vantaggio da questa guerra tra poveracci che non si stancano di fomentare. «Ero frastornato. L’odio, la violenza. I malavitosi, gli sbirri, i politici. E la miseria come sfondo. La disoccupazione, il razzismo. Eravamo tutti come insetti intrappolati nella ragnatela. Ci si dimenava, ma il ragno avrebbe finito per divorarci». Se la Le Pen arriverà davvero al governo fra meno di un mese, leggendo questo libro si può capire da dove è partita, trent’anni fa.

(finito il 2 marzo 2022)

Ho parlato di


Jean-Claude Izzo
Casino totale
(Edizioni e/o, 2021)

trad. di B. Ferri

230 pp. | 12,90 €

(ed. or.: Total Khéops, 1995)

domenica 19 maggio 2024

Sessanta racconti

Custoditi nelle librerie di tutte le case per cui sono transitato da oltre venticinque anni a questa parte, solido reperto in ottimo stato di conservazione di un’epoca in cui le mie prime incursioni nel fantastico mi avevano suscitato la curiosità di cercare se esistesse qualcosa di simile in lingua italiana, in ossequio a un impulso che mi avrebbe per esempio portato a scoprire, un po’ più avanti, un eccentrico come Landolfi – che di Buzzati è una versione più colta e ancor meno rassicurante -, com’è poi capitato a tanti altri miei libri, anche questi racconti sono in realtà rimasti a lungo lì sullo scaffale, aperti di tanto in tanto, ripresi tassativamente sempre di nuovo dall’inizio, ogni volta con l’impegno di arrivare fino in fondo, ma abbandonati, a seconda dei casi, al quinto, all’ottavo, al nono, senza mai avvicinarmi neanche lontanamente al sessantesimo. La lettura breve, infatti, è traditrice: con la scusa che la puoi riprendere in qualsiasi momento, finisci spesso per accantonarla e dimenticartela, finché arriva un momento in cui, invece, hai bisogno proprio di quello – rapide ricariche di letteratura nei frammenti di tempo che non ti sono sottratti dalle circostanze – e fai della concitazione l’occasione per portare a compimento quel progetto inaugurato molti anni prima, dando temporaneamente scacco al re del mondo.

La prima cosa che mi viene da pensare è che ci vuole certamente del coraggio a mettere in fila, uno dietro l’altro, i racconti di una vita, quando la vita non è ancora conclusa, perché inevitabilmente balzano subito all’occhio quelle ripetizioni di tema, tono e struttura che potevano sfuggire se quegli stessi racconti fossero rimasti dispersi sulle riviste e sui giornali su cui originariamente erano stati pubblicati – e ben lo so io, che mi cruccio se mi rendo conto d’aver usato già ben tre o quattro volte in questi circa duecento post la parola parvenus, trasformando un'innocua civetteria in banale manierismo, o quando devo lottare per trattenere a freno la naturale tendenza a inaugurare ogni mio scritto con una cautelativa litote. In questo modo, anche i pezzi potenzialmente più pregiati del lotto rischiano di svalutarsi un po’, quando ti accorgi che il metallo prezioso di cui sono forgiati, anziché essere concentrato in poche, uniche, gemme, viene diluito in diversi esemplari, senza che le variazioni introdotte eliminino del tutto una certa sensazione di déjà-vu. Racconti pure suggestivi come I sette messaggeri o L’inaugurazione della strada, per dire, si basano su un meccanismo molto simile, e così Qualcosa era successo e Direttissimo – e tutti questi quattro presi insieme, a loro volta, ripropongono in certa misura il tema di un inesorabile e ostinato viaggio verso una meta lontana che sfuggirà sempre o che forse si incontrerà senza rendersene conto o che ci porta a trascurare irrimediabilmente le piccole soste che, sole, potrebbero veramente dare senso alla nostra vita.

In altri casi l’elemento ricorsivo è invece meno invasivo, e assomiglia piuttosto alla firma con cui l’autore certifica che il prodotto è stato fatto proprio dalle sue mani. Spesso tale contrassegno ha una qualità sonora, come lo squillo di un campanello o di un telefono nel cuore della notte, oppure un altro rumore disturbante e sinistro, e tanto più disturbante e sinistro quanto più apparirebbe innocuo in altre condizioni, che sia l’eco lontano della piena montante di un fiume, il bussare di una porta o il tic tac di una goccia che misteriosamente sale i gradini di una scala anziché scivolare giù, perché ciascuno di questi segnali appare come «una specie di minuta palpitazione di occulte presenze annidate negli angoli d’ombra, così neri», intermittenti interferenze da cui la presunta quiete piccolo o grande borghese nella quale per lo più sguazziamo compiaciuti viene disturbata per sempre. Leggere questi racconti ti lascia spesso la sensazione che tutta l’impalcatura sociale e tecnologica a cui abbiamo assicurato le nostre fragili vite possa crollare da un momento all’altro, come se vivessimo, senza curarcene - tanto siamo assuefatti al solito tran tran - su una cordigliera di vulcani silenti ancorché pienamente attivi. E se in alcune short stories degli anni ‘50 che non avrebbero sfigurato su un numero di Urania tale percezione di un pericolo incombente trova la sua rappresentazione concreta nell’incubo atomico (vedi All’idrogeno o Rigoletto – che, con 24 marzo 1958 e Il disco si posò, costituiscono piccoli esempi di possibile fantascienza all’italiana), il più delle volte questo indefinito disagio si solleva dal piano storico a quello cosmico e si manifesta sotto forma di destino inappellabile, giacché, per bene che ti vada, prima o poi arriverà comunque la morte a battere cassa, senza riguardo per il fatto che tu la tua vita l’abbia vissuta decorosamente o l’abbia buttata via male (e in alcuni casi, il che forse è persino peggio, neppure la morte mette del tutto fine all’orrida routine quotidiana, come se in fondo fossimo già morti e, anche qui, non ce ne fossimo ancora resi conto: almeno in questo senso, l’annichilimento generale qua e là evocato risulta decisamente più auspicabile).

Buzzati ironizza ampiamente sullo spauracchio della rivoluzione, sbeffeggiando sia il peloso perbenismo di chi, avvolto in una pelliccia di visone, appare terrorizzato per la fine imminente dei propri privilegi, sia l’inconcludenza di una palingenesi continuamente annunciata ma mai davvero compiuta (tipicamente ciò avviene in Paura alla Scala e La notizia), senza mostrare molta fiducia nella realizzabilità di un effettivo riscatto in chiave sociale – e tuttavia lascia anche intendere che, in un certo senso, di una rivoluzione ci vorrebbe davvero bisogno, prima che la massificazione ottunda completamente i pensieri e chiuda ogni spiraglio alla capacità di immaginare scenari alternativi, abbandonandoci alla «costernante uniformità di vite che dovevano essere romanzo, azzardo, avventure, sogno» (con guizzo da vero narratore sperimentale, ne La parola proibita, coinvolge il lettore in una specie di test per rendergli evidente la capacità autocensoria del nostro cervello, che si accomoda sin troppo facilmente a non individuare neanche la parola mancante in un testo, senza neppure bisogno di divieti formali). Da questo punto di vista, la frontiera, il confine, e il deserto che tendenzialmente comincia appena un po’ più in là sono sì «l’incarnazione dell’ignoto che ci aspetta all’angolo», l’abisso da cui possono irrompere da un momento all’altro le orde assassine dei tartari, ma anche il territorio perennemente aperto dalle mille potenzialità, l’informe ancora da scoprire, la terra promessa a cui guardare per evadere da una vita sempre più ingabbiata in percorsi urbani ed umani obbligati (Il problema dei posteggi è forse il racconto in cui tutto questo appare più chiaro e senza filtri). Come rimugina tra sé e sé il protagonista de Il borghese stregato, colpito da una maledizione mortale durante una pacifica settimana di villeggiatura che lo uccide ma lo ha messo per un momento in contatto con questo altrove, «eroe, non già verme, non confuso con gli altri, più in alto adesso (…) ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere». Meglio l’apocalisse, insomma, dell’appiattimento generale. Davvero c’è ben poco da sperare quando la paura dell’incubo spegne sul nascere il gusto di sognare.

Cronista sportivo (e di ciclismo in particolare), interessato ai fumetti come alla fantascienza, Buzzati ha tutti i requisiti per meritarsi la mia totale simpatia, anche se devo ammettere che quando gioca a carte un po’ troppo scoperte e assume una posa eccessivamente oracolare finisce per apparirmi artefatto e finanche stucchevole, con esiti che talvolta ricordano le storielle raccontate dal parroco ai bambini alla novena di Natale. Preferisco di gran lunga quando si ricorda d’essere anzitutto giornalista e ricorre ai ferri del mestiere (compreso l’uso di specificare chiaramente, sin dalle prime righe, nome, cognome, età di molti dei suoi personaggi) per elaborare, come fa ne La corazzata Tod, una sorta di fittizio reportage sul destino di una potentissima nave da guerra nazista che avrebbe dovuto essere l’arma definitiva di Hitler ma non poté più essere usata perché nel frattempo era finita la guerra o, meglio ancora, per inventare storie nerissime – che mi piacerebbe fossero state stimolate da un dispaccio giunto in redazione dalle sedi locali e condensato in un trafiletto – ambientandole in una di quelle tetre valli alpine o prealpine di cui l’Italia è ricca e che non sfigurano affatto rispetto alla brughiera inglese come luogo adeguato per inscenarci un racconto gotico. Qui, infatti, «in certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire», e al riparo di «cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve», i draghi forse esistono sul serio, protetti dallo «smisurato silenzio delle montagne», memorie petrose di tempi spaventosamente remoti, o i tuoi comunissimi vicini di casa possono veramente essere tenuti in ostaggio da scarafaggi giganti nelle loro ville sul lago. In questa provincia italiana, diceva Carlo Fruttero, l’atterraggio di un disco volante non risulterebbe credibile come in Texas, ma gli orrori nascosti non mancano. E poiché io in provincia ci vivo, quando la vedo rappresentata in questi termini, qualche brivido lungo la schiena effettivamente mi scorre.

(finito il 25 febbraio 2022)

Ho parlato di


Dino Buzzati
Sessanta racconti
(Mondadori 1994)

560 pp. | 14.000 lire

(ed. or.: 1958)

giovedì 18 aprile 2024

Klara e il sole

Io su Kazuo Ishiguro non sono proprio riuscito a farmi ancora un’idea precisa. Di lui dovrei apprezzare il fatto che per suo tramite, sottovoce, (sebbene non sia né il primo caso, né l’unico), la fantascienza abbia trovato un suo dignitoso posticino sul Parnaso dei Nobel, così come di fatto ne apprezzo il coraggio intellettuale di cimentarsi con i problemi fondamentali del nostro tempo - in questo caso il rapporto con le macchine e le intelligenze non umane – e soprattutto la sobrietà di provarci senza cedere alla diffusissima tentazione del profetismo d’accatto o del presenzialismo, ma attingendo alle risorse proprie della narrazione e al tempo profondo di una scrittura centellinata con parsimonia. Eppure, dopo la non proprio esaltante esperienza vissuta col romanzo precedente (certo non brutto, ma neanche travolgente, più da ni che da sì), non credo che gli avrei dato così rapidamente una seconda occasione, se quello che all’epoca era il suo nuovo libro non fosse stato scelto dai miei colleghi di italiano per essere proposto come lettura agli studenti delle nostre classi comuni. E che cosa ne ho ricavato? Che ho le idee ancor meno chiare di prima.

Provo a darmi un ordine. L’atmosfera iniziale del racconto è vagamente asimoviana: in un futuro imprecisato, due androidi programmate e commercializzate per fare da compagnia a delle adolescenti attendono che si manifesti la loro acquirente, osservando e interpretando a proprio modo la vita che scorre nella strada oltre la vetrina in cui sono esposte, finché Klara, una delle due, particolarmente sveglia e intuitiva, quasi anomala nella sua spontanea curiosità di comprendere il mondo circostante, viene scelta da Josie, una quattordicenne la cui salute fragile, come poi si scoprirà, dipende dagli effetti collaterali di un processo attuato, paradossalmente, per migliorarne l’intelligenza e consentirle così di accedere alle scuole più avanzate del paese, al termine di una fase di studi propedeutici svolti attraverso una sorta di DAD personalizzata che, come accade a tutti i suoi coetanei sottoposti allo stesso trattamento, le preclude quelle regolari esperienze sociali che potrebbero avvenire nelle aule di una scuola. Di qui, appunto, la decisione dei genitori (separati) di metterle a fianco quella che un tempo si sarebbe detta robot e oggi si chiamerebbe IA, perché abbia qualcuno con cui passare il tempo, ma anche per un motivo più sinistro, preannunciato implicitamente sin dalle prime pagine e poi rivelato a poco a poco, man mano che emergono anche i sensi di colpa della madre di Josie, che ha già perso una figlia per le complicazioni intercorse in seguito allo stesso tipo di intervento cui ha sottoposto anche la secondogenita. In questo modo, una storia che inizialmente sembrava parlare di ragazzini e poteva sembrare rivolta a dei ragazzini finisce per coinvolgere anche i genitori, ponendo questioni umanissime – cosa fare e fino a che punto ci si può spingere per garantire un futuro positivo ai propri figli? In che modo riparare agli errori che si può aver commesso finché si è scelto per loro e al posto loro? - in un contesto che però sembra offrire soluzioni totalmente inedite rispetto a quelle cui siamo stati fin qui abituati e che non è detto siano poi davvero tanto lontane dal nostro presente.

Partendo da queste premesse, Ishiguro esplora il terreno, rivoltandolo di continuo e sollevando così una quantità enorme di possibili spunti di riflessione – anche perché, nel farlo, con un audace virtuosismo, assume il punto di vista di Klara, che per quanto sia stata costruita per simulare un’intelligenza umana, umana non è e perciò talvolta descrive in termini per noi del tutto anomali situazioni altrimenti ordinarie, con continui effetti stranianti per affrontare i quali è richiesto al lettore uno sforzo supplementare d’attenzione, che può in effetti incidere sulla mia valutazione. Così, sebbene talvolta le informazioni che Klara riceve attraverso i suoi visori ottici e che processa con i suoi circuiti producano movimenti di pensiero familiari e sin troppo umani (per esempio nel modo in cui si rivolge al sole come principio di alimentazione fotovoltaico delle batterie che la mantengono in funzione), altre volte il suo sguardo può rivelare invece qualcosa che per assuefazione rischiamo invece di non cogliere in quanto ci circonda. Come le viene detto a un certo punto: «sei un’AA intelligente. Può darsi che tu riesca a vedere cose che noi non vediamo».

Mi limito al caso più evidente. Quando si scopre che i genitori di Josie stanno valutando, qualora la figlia morisse, se sostituirla con Klara, perché lei potrebbe riprodurne perfettamente la voce, le movenze, i tic, e si stanno per questo avvalendo della consulenza di un progettista allo scopo di costruire un androide in tutto e per tutto simile a Josie in cui eventualmente scaricare la coscienza di Klara – un po’ come oggi sono già in corso progetti per allenare delle intelligenze artificiali a riprodurre il punto di vista di una persona, così da lasciare qualcosa di lui ai suoi familiari quando lui non ci sarà più - il padre di Josie, pur se ingegnere, esprime apertamente il timore «che la scienza abbia ormai dimostrato al di là di ogni dubbio che non c’è niente di tanto unico in mia figlia, niente che i nostri strumenti moderni non sappiano portare alla luce, copiare, trasferire. Che le persone sono vissute insieme per tutto questo tempo, per secoli ormai, amandosi e odiandosi e sempre sulla base di un presupposto sbagliato. Una specie di credenza superstiziosa che abbiamo mantenuto in vita, per ignoranza» - la credenza, cioè, nell’io come principio autonomo di identità e soggetto irripetibile di personalità. La risposta data da Klara effettivamente è folgorante: «Mr Capaldi [lo scienziato incaricato di realizzare la “nuova Josie”] pensava che dentro Josie non ci fosse niente di tanto speciale da non poter essere proseguito. Diceva alla Madre che aveva cercato dappertutto e non l’aveva mai trovato. Ma adesso credo che non cercasse nel posto giusto. C’era invece qualcosa di molto speciale, ma non era dentro Josie. Era dentro quelli che l’amavano. Ecco perché ora credo che Mr Capaldi si sbagliasse e che io avrei fallito». Leggendo pagine come queste, complice il tono elegiaco e crepuscolare del racconto, capisco che un animo sensibile porsa farsi toccare al punto da arrivare persino alle lacrime. Io però non sono fra questi.

(finito il 4 febbraio 2022)

Ho parlato di


Kazuo Ishiguro
Klara e il sole
(Einaudi 2021)

trad. di S. Basso

276 pp. | 19,50 €

(ed. or.: Klara and the sun, 2021)

giovedì 21 marzo 2024

Astrobiology. A very short introduction

Per quanto sia assolutissimamente convinto che se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo, intromettermi nei pensieri del diciannovenne che ero e, con la testa che ho oggi, suggerirgli quale direzione dare alla sua vita, per settanta volte sette risceglierei comunque ancora e sempre di iscrivermi a filosofia, non escludo che, qualora invece si producesse un fremito d’esitazione, un momentaneo tentennamento, potrei per un attimo indurre nel me stesso medesimo di allora il sospetto che dopotutto gli sarebbe congeniale anche diventare un astrobiologo, e in questo modo salvaguardare il discutibile vizio di scegliere in ogni realtà parallela mestieri di non immediata comprensione. A differenza dell’esobiologia - che riflette solo sull’abitabilità di altri pianeti e potrebbe perciò curiosamente rivelarsi una disciplina senza oggetto - e della xenobiologia - che invece gli alieni prova a inventarseli per conto proprio, ipotizzando sistemi vitali basati su molecole e basi diverse da quelle a noi note - l’astrobiologia si pone l’obiettivo più generale di studiare l’origine della vita in quanto proprietà capace di manifestarsi all’interno del cosmo, provando a capire se le caratteristiche che l’hanno resa possibile sulla Terra siano rare o diffuse e, prima ancora, cercando di individuare che cosa si debba davvero intendere quando parliamo di “vita” (problema apparentemente banale, ma per cui vale un po’ quello che Agostino diceva del tempo: so cos’è se non me lo chiedi, ma appena mi chiedi di spiegartelo non ci capisco più niente).

Come vedete, dunque, alla filosofia si finisce sempre in qualche modo per tornare – e non potrebbe essere diversamente -, ma la cosa intrigante è che qui le sue domande vengono shackerate in modo originale con un altro e variegato repertorio di temi verso cui provo più o meno da sempre un irresistibile attrazione, e in misura crescente man mano che maturo – che sia l’esplorazione pura e semplice dello spazio o la sperimentazione delle specie sulla Terra nei lunghissimi milioni di anni che precedono la nostra storia, i misteri delle convergenze evolutive o il processo di sviluppo di stelle e sistemi planetari – ovvero tutti modi a prima vista tangenziali e curiosi per riflettere in modo più approfondito, ribaltando continuamente le prospettive, su chi diavolo siamo, dal momento che è proprio nei luoghi più marginali che le belle teorie si perdono per strada, costrette a misurarsi con le aporie di una realtà sempre più strana di quanto possiamo immaginarci.

Per farsene meglio un’idea, ecco un breve e assolutamente non esaustivo elenco di questioni che una brevissima introduzione come questa si propone di mettere ordinatamente in fila. Posto che noi conosciamo un unico modello di vita – il nostro – quali delle sue proprietà possono essere considerate accidentali e quali invece sono realmente necessarie per parlare di “vita”? Andando a caccia di specie aliene, siamo sicuri di non commettere un errore metodologico, facendo di noi la norma, quando potremmo essere, se non l’eccezione, una semplice variante? Anche se il carbonio pare l’unico elemento in grado di garantire un genoma di complessità comparabile alla vita terrestre, una qualche forma di vita potrebbe comunque emergere a partire da altre basi chimiche? (c’è chi ha ipotizzato il silicio, che però non è solubile e non subisce reazioni di scambio e modifica: la vita, invece, è un’interazione elastica poco adatta alle eccessive rigidità) E ancora: le condizioni che hanno permesso il prodursi di vita sulla Terra sono state il frutto di un’imponderabile contingenza galattica oppure il risultato di fenomeni ripetibili e frequenti? E se anche il prodursi della vita in quanto tale non fosse poi una rarità, quante sono invece le possibilità che essa abbia il tempo di rendersi consapevole e intelligente, senza finire prematuramente travolta da una qualche indicibile catastrofe cosmica?

Trovo quanto mai affascinante il continuo rimpallarsi di analisi sperimentale e fantasia speculativa quale emerge dalle pagine di questo breviario che ci conduce continuamente dall’infinitamente piccolo (gli acidi nucleici e il modo con cui intorno a loro si è andata simbioticamente strutturando la prima cellula) all’infinitamente grande (le immense supernove che, esplodendo, sparpagliano metalli in tutto l’universo: per inciso, è proprio dal fatto che sulla Terra troviamo filoni di ferro e di oro che possiamo inferire come il Sole sia una stella di seconda generazione). Chissà, forse mentre siamo qui a discutere, colonie di microbi analoghi a quelli terrestri si stanno ripetutamente riproducendo nell’oceano ghiacciato di Encelado, la più grande luna di Saturno, geologicamente attiva, i cui chilometrici pennacchi di gas sono stati studiati dalla sonda Cassini una quindicina di anni fa, oppure qualcosa di decisamente più strano e per noi ancora indecifrabile potrebbe popolare i laghi di idrocarburi presenti su un’altra luna di Saturno, Titano, dove il metano potrebbe aver svolto la funzione che da noi è stata svolta dall’acqua. Ragionando su tutto questo, non si prova forse una gioia impagabile, quando si prende atto che l’unione di rigore e divertimento alimenta visioni assai più emozionanti delle più fantasmagoriche teorie che si potranno mai elaborare sui rettiliani e tutti i loro compari?

(finito il 3 febbraio 2022)

Ho parlato di


David C. Catling
Astrobiology. A very short introduction
(Oxford University Press 2014)

160 pp. | 12,99 $

domenica 3 marzo 2024

La donna in bianco

Fatico a immaginare destino più beffardo per uno scrittore – e per uno scrittore di talento, ingegnoso fabbricante di intrecci e splendido affabulatore – che quello di venir anzitutto conosciuto non già come autore, bensì come personaggio, almeno in parte, d’invenzione: eppure è proprio così che mi sono imbattuto per la prima volta, una decina d’anni fa, nel fino ad allora a me del tutto ignoto Wilkie Collins, leggendone le gesta romanzate da Dan Simmons in Drood, che è un libro meravigliosamente inquietante per il modo in cui rielabora in chiave moderna l’anima nera della letteratura vittoriana, con il solo difetto di rivelare l’enigma intorno a cui ruota, appunto, uno dei capolavori di Collins, La pietra di luna, e di rovinarne almeno in parte la lettura, se non ne sapevi nulla (come ho potuto poi sperimentare in prima persona quando ho voluto rimediare alla mia lacuna, sebbene poi il libro in questione, che è al tempo stesso uno dei prototipi del romanzo poliziesco e però già anche una sua garbata parodia, non si riduca solo a quell’enigma e valga la pena d’essere letto comunque).

Condensato in Bignami, Collins è uno che sarebbe potuto diventare Dickens se non avesse avuto la sfortuna di nascere quando già c’era un Dickens, quello originale, del quale peraltro era amico, sulle cui riviste pubblicava le sue opere e nel cui maestoso cono d’ombra in un certo qual modo è finito per restare a lungo imprigionato (anche se ora lo si sta riscoprendo, ritraducendo e, complice anche il bicentenario della nascita, ripubblicando in forze). Ma Collins è anche stato fra i primi a fiutare l’interesse crescente del pubblico per la cronaca nera e a intuire il potenziale narrativo di un racconto affidato a più voci, ciascuna delle quali fornita del suo peculiare timbro e soprattutto portatrice solo di un particolare punto di vista sull’intera storia, proprio come accade con le deposizioni giurate dei testimoni sottoposti agli interrogatori e ai controinterrogatori durante la fase dibattimentale di un processo. Non saprei decantarne meglio le doti se non attestando la sua capacità di prendere ingredienti che in altre mani avrebbe potuto produrre tranquillamente un indigesto polpettone ottocentesco e mescolarli così abilmente da rendere invece il prodotto finale tanto gradevole al gusto da farmelo divorare in una manciata di giorni appena, avvinto dall’ingarbugliarsi del mistero e più ancora dalla curiosità di capire quale sarebbe stato il trucco con cui sarebbe stato disfatto, perché si capisce benissimo che un trucco deve pur esserci da qualche parte, ma quando cresci e ti fai sgamato è proprio nell’assenza di magia che riconosci infine l’autentica magia della scrittura.

É facile immaginare che a coinvolgere il lettore originale fosse anzitutto la simpatia per il tormentato amore tra la bella e virtuosa eroina Laura e il suo generoso innamorato con tanta arte ma senza parte William – e ancor più l’ansia crescente per il lento dispiegarsi della diabolica macchinazione ordita ai loro danni che, in mancanza di uno Sherlock Holmes capace di smascherarla con due rapide occhiate ai dettagli giusti, pare a un certo punto stritolarli senza rimedio in una morsa di intollerabile infelicità. Ma per quanto il feuilleton risulti spesso, di fatto, una variante appena meno pericolosa degli oppiacei con cui ci si ottunde la mente dinanzi alle miserie della realtà (cosa che il fumatore compulsivo Collins sapeva bene), le sue regole – se lo si vuole fare e le si sa usare – possono anche essere impiegate per sollecitare un inaspettato sussulto di riflessione in chi abbocca all’esca dell’intrattenimento. Apparso a puntate su All the Year Round tra il novembre 1859 e l’agosto 1860 (subito dopo il Romanzo di due città e subito prima di Grandi speranze), La donna in bianco è infatti un potente atto di denuncia contro l’insostenibile condizione di subordinazione femminile che anticipa di appena qualche anno il famoso pamphlet di John Stuart Mill e Harriet Taylor Sulla servitù delle donne. Esasperata dai maneggi di sir Percival, un giovane aristocratico sommerso dai debiti che spera di dare una svolta alla sua disperata situazione finanziaria per via matrimoniale, in virtù di una legge iniqua secondo cui, in caso di morte, i beni della moglie devono passare per intero al marito (ma non il contrario), lady Marian, sorellastra della protagonista, meno bella di lei, tuttavia decisamente superiore per estro, intelligenza e lucidità come Cirano lo è rispetto a Cristiano, a un certo punto sbotta: «se solo potessi godere dei privilegi di un uomo (…). Ma poiché sono solo una donna, condannata a sfoggiare pazienza, decoro e sottane per tutta la vita, devo rispettare l’opinione comune e cercare di assumere modi femminili e delicati». In Inghilterra, del resto, «gli obblighi coniugali di una donna le concedono di avere un’opinione personale dei principi morali del marito? No! La sua missione è amare e onorare il consorte, obbedendogli senza riserve». E alle sciagurate che volessero mettersi di traverso, la civilizzatissima società inglese, scandalizzata nel suo buon gusto dai tetri conventi mediterranei descritti nei romanzi gotici come luogo di reclusione per le figlie cadette, spalanca poi con sin troppa disinvoltura le porte dei moderni manicomi che ne hanno preso il posto, sostenendo con l’autorità della scienza ciò che la religione non sembrava più in grado di giustificare da sola.

«John l’inglese aborrisce i crimini di Cheng il cinese. É il più veloce gentiluomo del mondo quando si tratta di smascherare le colpe dei suoi vicini, e il più lento quando le colpe sono sue. Ma lui con la sua condotta è davvero migliore di coloro che condanna per la loro condotta?»: a gettare il sasso nello stagno del quieto perbenismo british – curiosamente, ma forse non troppo – è il personaggio più amorale del libro e a mio avviso anche quello più suggestivo. Come nei racconti di Hoffmann, anche qui il diavolo arriva dall’Italia e coniuga tratti paurosamente luciferini con l’ironico savoir-faire di chi la sa lunga sulle cose del mondo, se ne infischia di quelle che considera pure convenzioni sociali e non si vergogna di dichiararlo («dico quello che le altre persone pensano soltanto, e quando il resto del mondo cospira per accettare la maschera al posto del vero volto, la mia mano avventata strappa la cartapesta e mostra la nuda verità»). Collins gli dà un nome programmatico, battezzandolo conte Fosco, ma a parte questo non ha nulla a che spartire con la malaticcia antieroina immaginata da Tarchetti: «immensamente grasso» eppure sorprendentemente leggero e silenzioso nei movimenti, intelligentissimo, lezioso, manipolatore, seducente a canagliesco al tempo stesso, questo impasto di Napoleone e di Pulcinella sembra trattare tutti coloro che gli stanno attorno (a partire dalla moglie, zia della protagonista) come i topolini e i canarini che alleva amorevolmente e che si fidano a tal punto di lui da scivolargli fra le dita tozze da cui potrebbero in qualsiasi momento essere schiacciati. É solo quando prende davvero in mano lui la situazione per dirigere le manovre dello spregevole ma limitato sir Percival che si comincia davvero a temere che le cose possano volgere al peggio, perché è chiaro che uno come lui potrebbe davvero inventarsi di tutto, solo per il gusto di vincere la sua personale partita a scacchi, giacché – come spiega amabilmente alla vittima predestinata dei suoi raggiri – «il crimine di uno sciocco viene sempre scoperto, quello di un uomo intelligente mai. (…) Se la polizia vince, di solito se ne conoscono tutti i particolari, ma se perde non se ne viene a sapere nulla. E su queste fondamenta vacillanti voi costruite la vostra rassicurante massima morale che il crimine viene sempre a galla! Sì, è vero dei crimini che conoscete. Ma tutti gli altri?».

Serve proprio un personaggio così apertamente fuori dagli schemi, verso il quale si finisce per provare una morbosa ammirazione (analoga a quella che lui stesso comincia a provare per Marian, a cui parla «con il senno e la serietà che riserverebbe a un uomo»), per mostrare i cortocircuiti e le assurdità di un sistema sociale in cui i virtuosi che seguono le regole finiscono il più delle volte per perdere. Faccia fede questo apologo: «chi credete che starà meglio tra due povere sartine in miseria: quella onesta che resiste alla tentazioni o quella che cede e diventa una ladra? Sapete tutti che il furto farà la fortuna di quest’ultima, portandola all’attenzione dell’intera Inghilterra benevola e caritatevole, e così lei si salverà trasgredendo il comandamento, mentre sarebbe morta di fame se l’avesse osservato». E così, anche se alla fine qui le cose più o meno andranno per il verso giusto, è ben la poca consolazione che se ne trae, perché quel che più resta impresso è il fortissimo sospetto che nella maggior parte dei casi accada tutto il contrario.

Ps Mia moglie si è divertita moltissimo quando ha visto, leggendo il libro dopo di me, che, cedendo a un sussulto di vanità, avevo sottolineato questo passo: «persino la calvizie in un uomo è gradevole perché sottolinea l’intelligenza del viso».

(finito il 5 gennaio 2022)

Ho parlato di


Wilkie Collins
La donna in bianco
(Mondadori 2018)

trad. di A. Mantovani

626 pp. | 14 €

(ed. or.: The Woman in White, 1859-1860)

lunedì 22 gennaio 2024

Come ordinare una biblioteca

A quanti ci osservano con la stessa divertita curiosità che dedicherebbero a qualche buffa bestiolina, quando scoprono che siamo in grado di riconoscere al primo sguardo se c’è un volume fuori posto nella nostra libreria, soprattutto se tale discutibile talento s’accompagna ad eccentricità socialmente più rilevanti, come (per dirne solo una, realmente accaduta) il presentarsi in un ufficio pubblico con la maglietta girata al contrario, dovremmo avere una buona volta il coraggio di rispondere con le stesse parole con cui aprì questo suo aureo libretto – fra gli ultimissimi dati alle stampe in vita, quasi un testamento spirituale – uno che sapeva perfettamente quel che diceva poiché affetto dalla nostra stessa malattia: «come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico» (stia dunque alla larga chi s’aspettasse banali consigli di biblioteconomia domestica). Questo non aumenterebbe probabilmente la nostra credibilità fra gli uomini di mondo, ma sarebbe una dichiarazione indubbiamente più sincera delle maldestre scuse spesso abbozzate per mascherare l’imbarazzo. Perchè sì, che ci crediate o no, quando disponiamo i nostri libri l’uno accanto all’altro, stiamo davvero provando a mettere in ordine l’universo. Concettualmente diversa da un semplice magazzino o da un deposito di merci, l’autentica biblioteca assomiglia piuttosto a quello che il mappamondo rappresenta per il globo terrestre, un principio di organizzazione – e proprio per questo dovrebbe sempre essere a scaffale aperto, poiché, anche solo aggirandosi tra queste foreste di simboli e scorrendo le coste dei singoli tomi si possono finire per scoprire le corrispondenze segrete che tengono insieme tutto ciò che c’è.

Lo aveva capito benissimo Aby Warburg, teorico della regola aurea del «buon vicino (…), secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Calasso ricorda di aver sperimentato personalmente la giustezza di questa regola quando ebbe modo di frequentare la biblioteca di Warburg a Londra per lavorare alla sua tesi sui geroglifici di Sir Thomas Browne; per parte mia, non posso trattenere un fremito di pura riconoscenza verso la vita per avermi dato l’occasione di sperimentare una gioia analoga, al tempo del dottorato, quando bazzicai anch’io le stesse stanze cercando una chiave per entrare nella testa dei miei medici rinascimentali. Quella biblioteca - e mettiamoci pure quella del Wellcome College, lì vicino - sono state per me vere e proprie baie delle Sirene in cui avrei potuto naufragare dolcemente per l’eternità (e non per nulla, nei miei sogni, il paradiso appare spesso come un’immensa biblioteca). Warburg, peraltro «non si stancava mai di spostare libri e poi spostarli di nuovo. Ogni passo avanti nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sulla interrelazione dei fatti lo induceva a raggruppare in altro modo i libri che vi erano coinvolti. Sobrie parole che invitano a rassegnarsi una volta per tutte: l’ordinamento di una biblioteca non troverà mai – anzi non dovrebbe trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento. É terreno vulcanico, dove sempre qualcosa sta succedendo, anche se non percepibile dall’esterno».

Si annida qui una verità che non si può capire se si intende la lettura in termini di puro consumo e che permette a mio avviso di pronosticare ancora lunga vita ai libri cartacei – a differenza, per esempio, di quanto accade coi supporti materiali audiovisivi, che cambiano di continuo – e questo non solo perché con il papiro e l’ebook puoi fare molte cose (come leggere questo libro), ma non puoi farne moltissime altre («sfogliare un libro, leggere il risvolto, far cadere l’occhio su una pagina a caso, tenere il libro in mano e considerarlo come un oggetto, attraente o urtante»). Sebbene, infatti, non siano in origine pezzi unici come le opere d’arte, in quanto riproducibili in fase di stampa, una loro effettiva unicità i libri poi la guadagnano davvero, col tempo, entrando a far parte di quel personalissimo vissuto di cui la biblioteca personale registra, per così dire, le stratificazioni e i movimenti, proprio come se fosse un’estensione di te, che cresce con te, popolandosi via via di ciò che ti ha segnato o che reputavi importante e lasciando fuori ciò che non ritenevi invece meritevole di attenzione o che hai pensato non ti interessasse più (per questo «una biblioteca dovrebbe fondarsi su larghe esclusioni»: riflesso della vita, essa è sempre una selezione, così come quella è fatta di scelte). E poiché siamo creature distese nel tempo, una vera biblioteca non si limita a inquadrare l’esistente, ma esprime anche una promessa, un messaggio in bottiglia lanciato a se stessi da epoche diverse. «Essenziale è comprare molti libri che non si leggono subito. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca. (…) L’importante è che ora si possa leggere subito. Senza ulteriori ricerche, senza provare a trovarlo in biblioteca. Operazioni laboriose, che conculcano l’estro del momento. Strana sensazione, quando si apre quel libro. Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo. (…) Oggi l’informatica ha ridotto enormemente i tempi dell’attesa e della ricerca di un libro. (…) Ma questo nulla toglie all’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima. Il gesto decisivo rimane quello di aver acquisito qualcosa, un giorno, pensando che il suo uso era soltanto ipotetico».

Se invece quel libro lo si è già aperto, bisognerebbe sempre potervi ritrovare segni dei propri precedenti passaggi. «Molto raro è il caso di libri che abbia letto e siano rimasti tali e quali, senza alcun segno a matita. Non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza. (…) E a partire dalle annotazioni su un libro svanito dalla memoria si può anche ritrovare quel certo passo che risulterà indispensabile “vent’anni dopo”». É di questi ghirigori e marginalia che il pensiero si nutre avidamente, costruendo continue connessioni ipertestuali con l’ausilio di strumenti apparentemente desueti come un lapis (così cominciò, più o meno, anche Montaigne, costeggiando lateralmente gli storici, e ne vennero fuori gli Essais). In fondo, «l’intrecciarsi delle letture nello stesso cervello è una versione impalpabile di quelle reti neuronali che fanno disperare gli scienziati»: «ogni lettore vero segue un filo (che siano cento fili o un filo solo è indifferente). Ogni volta che apre un libro riprende in mano quel filo e lo complica, imbroglia, scioglie, annoda, allunga». Per questo non è affatto la stessa cosa leggere un libro prima o poi e per questo soppesare quale libro cominciare, quale sia il libro da leggere proprio in questo momento, è sempre un’istanza cruciale. Se, dunque, è certamente una biblioteca quella che si estende nello spazio, lungo le pareti e i corridoi, non lo sarà di meno quella che si dispiega secondo l’ordine del tempo, nella quale la successione delle letture costituisce l’equivalente dell’affiancamento di un libro all’altro sui ripiani. É questo, dopotutto, il motivo per cui mi ostino a seguire con disciplina la regola che mi sono dato, anche se sconto ormai un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, perché quelle che qui raccolgo non sono in realtà recensioni ma le coordinate della mappamente della mia vita.

(finito il 30 dicembre 2021)

Ho parlato di


Roberto Calasso
Come ordinare una biblioteca
(Adelphi 2020)

127 pp. | 14 €