Ipotizziamo – dico ipotizziamo – che l’Impero Romano non sia mai finito. Che la realtà così come la conosciamo non sia altro che una gigantesca pantomima orchestrata dal Re del Mondo per tenerci prigioniero il cuore nel tepore tutto sommato confortevole di una caverna. Certo, «vaghe intuizioni, dubbi, piccole incoerenze notate nella vita di tutti i giorni fanno intravedere la verità a quelli di noi che dormono meno profondamente; e tuttavia non osano crederci». Già, perché al di sopra di questo involucro materiale progettato da un malvagio demiurgo, risplende purissimo quell’Uno di cui la nostra vita attuale è appena l’ombra di un’ombra – e sulla quale tuttavia Egli pietosamente si piega, con la discrezione del vento leggero che sibila nella coscienza dei desti l’illusorietà di tutto ciò che ci circonda. Pacioccando con suggestioni di questo genere, nei primi due secoli della nostra era, personaggi dai nomi pittoreschi come Marcione, Carpocrate o Basilide costruirono ciascuno la propria variante di eresia gnostica. Di loro si sono un po’ perse le tracce, perché «gli gnostici erano i dissidenti della dissidenza: magnifici perdenti, grandissime teste di cazzo», che però «eserciteranno sempre un fascino profondo su tutti i franchi tiratori della religione».
Coerentemente con l’assunto borgesiano secondo cui la teologia non sarebbe altro che un ramo della letteratura fantastica, questi bagliori di verità ultrasiderale si sarebbero nuovamente manifestati, in pieno XX secolo, non già in corposi tomi teologici, bensì nella «forma contemporanea che (...) più si addiceva a una rivelazione: la fantascienza» - e più precisamente nell’opera squinternata e sublime di uno scrittore con manie paranoidi fin troppo volenteroso di calarsi nei panni del veggente, Philip K. Dick: «forse sono una specie di Giovanni Battista: il precursore, l’anello di congiunzione tra due ere; il più grande nell’antica alleanza, il più piccolo nella nuova; l’ultimo dei profeti, quello che si fa avanti quando tutti si lamentano perché Dio non parla più al suo popolo; la voce che grida nel deserto. Se leggi bene la Bibbia, vedrai che era un barbuto esaltato, proprio come me. Chiediti in tutta franchezza se allora gli avresti creduto». Di Dick questo libro è una folgorante biografia, che come spesso accade con Carrère è anche un modo per parlare di se stesso, attraverso la rilettura di un proprio mito giovanile (al pari di Lovecraft: abbiamo seguito un’analoga iniziazione, direi), che lo scrittore francese si prende il gusto di imporre all’attenzione altrui con quel sottile piacere provato da ogni lettore quando riesce a fare del proprio outsider preferito un maestro riconosciuto da tutti (il libro uscì in prima edizione in Francia a inizio anni ’90: mi sa che le mie letture dickiane adolescienziali rientrano almeno in parte nella storia degli effetti promossa da questo testo, anche se all’epoca non lo sapevo).
A tratti, a chi ha letto Il Regno, potrà sembrare di essersi imbattuto in una sua variante ambientata in un mondo alternativo in cui al posto di Nerone c’è Nixon e al posto di san Paolo, appunto, l’autore di Ubik. L’intera vita di Dick gira infatti intorno al tentativo impossibile e alla fine rimasto incompiuto di dare corpo e ordine sistematico a quella frammentaria rivelazione (“l’Esegesi”) che si era convinto di ricevere da un’entità «che lui per pudore chiamava Valis», onde non scomodare il nome dell’Altissimo. Il suo percorso è quello di chi scopre a un certo punto, con propria grande sorpresa, che tutte le invenzioni via via disseminate in romanzi e racconti scritti per fare cassa erano – nella sostanza – vere, autentiche epifanie celate sotto il rivestimento insospettabile della letteratura di genere. «Ormai, ogni volta che rileggeva un suo libro, era impressionato dalla natura profetica di quello che aveva scritto». Tanto basta per renderlo un guru della controcultura hippy. «Lui che si era sempre sentito emarginato si ritrovò a vivere in un’epoca in cui i margini erano il centro del mondo e si stabilì allegramente al margine dei margini», immarcabile rolling stone scartata dai costruttori eppure divenuta il cuore di una nutrita cerchia di apostoli e ammiratori che adoravano ascoltare le sue storielle e i suoi discorsi sempre sul filo tra genialità e pura follia. A loro, ma non solo a loro, Dick appariva con il volto inquietante del Ratto – così come un giorno Socrate apparve ad Alcibiade sotto forma di Sileno – dal nome che lui stesso aveva dato a una variante del Monopoli escogitata per divertire le figlie della terza moglie, nella quale «il Banchiere non si limitava a fare da arbitro, ma in quanto Ratto poteva modificare a sua discrezione le regole del gioco». In quanto Ratto, ad esempio, Dick «non poteva fare a meno di dare ogni volta un nuovo giro di vite ai suoi romanzi, motivo per cui aveva enormi difficoltà a terminarli», un po’ come accade nei dialoghi aporetici di Platone.
Ma soprattutto, in quanto Ratto, Dick non riuscì mai a trovare la quadra definitiva, l'anello che tiene, il disegno complessivo che raccoglie l'intera trama degli eventi – lui, che per gran parte della sua vita non era riuscito a vedere altro che significati, dappertutto, ossessivamente, anche là dove non c’era assolutamente nulla di nascosto da dover portare alla luce (e che anche per questo era diventato cultore dell’I Ching). Anzi, in tempi di paranoia crescente, negli anni post-Watergate, così «come un esteta rinuncia a una raffinatezza quando diventa alla portata di tutti», finì per approdare all’«accettazione disincantata ma serena dell’assurda, complessa e meravigliosa idiozia del mondo. Non c’è nessun senso, nessun aldilà, e forse è meglio, a ogni modo è così, e non sono ammessi ripensamenti». Ma Dick era un Ratto, e se non fosse morto, ci avrebbe sicuramente, ancora una volta, ripensato. Sempre che i morti non siamo noi – e il nostro assurdo quotidiano il codice cifrato con cui l’entità PKD cerca ancora di mostrarci che sotto sotto la realtà è solo il tiro mancino di un genio maligno.
(finito il 1 settembre 2017)
Ho parlato di
Ho parlato di
Emmanuel Carrère
Io sono vivo, voi siete morti
(Adelphi, 2016)
trad. di F. e L. Di Lella
319 pp. | 19 €
(ed. or.: Je suis vivant et vous êtes morts, 1993)