C’è una domanda che prima o poi noi avanzi di sacrestia finiamo inevitabilmente, e giustamente, per farci: se, cioè, al netto dei sentimentalismi, dei bei ricordi, delle persone che altrimenti non avremmo conosciuto (e magari sposato), tutto questo carrozzone immenso in cui siamo cresciuti e nel quale continuiamo a muoverci, a cui diamo il nome di Chiesa cattolica, abbia veramente ancora qualcosa da offrire all’umanità o non sia un fuoco destinato pian pianino a esaurirsi, spegnersi e cristallizzarsi nei suoi morti resti come le religioni neolitiche britanniche nelle pietre di Stonehenge. Il mondo occidentale, nei fatti prima ancora che con delle teorie, una risposta se l’è già data, e così netta da rendere a prima vista ozioso anche solo accennare alla questione. La religione, qualunque religione, è un relitto del passato che può avere un valore solo come opzione individuale nel quadro di una logica sostanzialmente di mercato, secondo la quale ciascuno ha il diritto di scegliersi le esperienze che vuole fare in base ai propri gusti personali, a patto di non urtare troppo la sensibilità altrui, e meglio ancora se scomposte in comodi pacchetti da riassemblare a piacere con un po’ di bricolage. Questo processo di progressiva secolarizzazione, tuttavia, non ha garantito l’emancipazione sperata, anzi ha semmai reso possibili nuove forme di reincantamento che, dietro la promessa di maggiore indipendenza, smerciano in realtà conformismo diffuso e servitù volontaria a un apparato tecnoeconomico, il cui modo di spremere e scartare ciò che gli serve per mantenersi in piedi, si tratti di esseri umani o di risorse ambientali, appare ogni giorno che passa sempre più intollerabile. Dobbiamo dunque rassegnarci a dare ragione ai cultori dell’eterno ieri e ai loro “ve l’avevamo detto” (ve lo ricordate De Maistre? Dio disse “fate pure da voi” e il mondo andò in pezzi…)? Cedere al baccano indiavolato con cui ci esortano ad effettuare un triplo salto mortale all’indietro per ritornare in quella superiore regione dello spirito che corrisponde alla loro rassicurante idea di Medioevo? Tra la Scilla dell’efficientismo edonistico disumanizzante e la Cariddi dell’annullamento di sé in un ordine immodificabile perché istituito dal Cielo non c’è davvero nessuna alternativa possibile?
Ecco, questo libro si propone appunto di scardinare i ferri che ci tengono inchiodati alla logica dualistica soggiacente a questa opposizione - e ai derivati che ne conseguono - per suggerire che tra modernità e fede cristiana sia possibile instaurare invece una «tensione feconda», onde evitare che l’una si faccia scappare di mano ciò che ha imparato ad apprezzare anche grazie al cristianesimo e l’altra rigetti ciò che le appartiene costitutivamente per ostilità nei confronti di certe derive che ne sono discese. In questione è in fondo il tema, centrale nel Vangelo, del rapporto tra libertà e norma, cioè del come poter stare insieme agli altri senza annullare la propria identità, da cui non si esce «pensando ingenuamente che la negazione della menzogna sia la verità, e che la reazione (una spinta uguale e contraria) sia il modo di difenderla». Rinchiudersi nel sarcofago di un tradizionalismo idolatrico per evitare di annegare in un indistinto pastone cosmopolitico non è una soluzione sensata, né tanto meno evangelica: Gesù non si è mai rinchiuso in casa o nel Tempio, né si è attardato sul monte, ma ha incessantemente percorso le strade di Galilea. Quel che ci viene chiesto, oggi come sempre (perché il problema è lo stesso che si poneva già quando quelli che oggi difendono il latino sarebbero stati considerati sovversivi dai cristiani di origine ebraica), è invece «un salto di piano», che recuperi il valore del cristianesimo come «messaggio dinamico, non statico», come «esperienza dell’eccedenza e non della regola e della misura», come «un fattore di interrogazione e di critica rispetto all’autopercezione (personale e sociale) della realtà», come movimento aperto «senza pregiudiziali all’ascolto e all’accoglienza» perché consapevole che, «come insegna la Bibbia, la salvezza è un cammino e non uno stato». Ci si può dire a pieno titolo cristiani cattolici non tanto se si fanno le processioni del Corpus Domini o se si accende il cero alla Madonna, ma se si tiene costantemente presente il riferimento all’intero, alla pienezza, alla totalità che il termine stesso “cattolico” annuncia quando evoca un Regno che nessuna istituzione umana potrà mai circoscrivere, legittimando così una pluralità di percorsi attraverso cui lo si può raggiungere.
A insegnarci tutto questo non è la mentalità smaliziata dei moderni, bensì – senti senti - quel Dio strano che non sta solo, ma si manifesta come perennemente in uscita, movimento trinitario, “uno-che-non-è-uno”, sbilanciamento verso ciò che è fuori da Sè - tutti modi diversi per dire “agape” o misericordia. Suona un po’ paradossale che i più agguerriti nemici della moderna tecnocrazia, quelli che imputano all’uomo la colpa di avere usurpato il posto di Dio, se lo immaginino poi come un Sommo Tecnocrate ebbro di volontà di potenza intento a determinare un ordine su cui esercitare uno spietato controllo, magari tramite la longa manus di una Chiesa chiamata liturgicamente a glorificare l’esistente (dove il male, ovviamente, non è la liturgia, ma l’uso che se ne fa). Ma perché si dovrebbe abbandonare l’Egitto per andarsene dietro a un Signore che non è diverso dal Faraone? «Dentro questo schema classico, l’ordine religioso domina sull’intera vita sociale. Nelle società teocratiche l’ordine sociale e politico è plasmato da quello religioso, senza margini di contrattazione». Con tutta la sua “spiritualità” esibita, si tratta pur sempre di una gabbia di ferro non dissimile da quella materialista, attraverso cui viene stritolata l’«esigenza di novità che sprigiona dalla vita umana». Non riconoscere questa aspirazione significa ridurre l’uomo, di fatto, ad automa – il che smaschera la teocrazia per quello che effettivamente è: una delle tante potenze terrene che ostacolano i piani di Dio. L’essere umano, infatti, «non è fatto semplicemente per replicare, per eseguire. Piuttosto, come ha scritto Arendt, è nato per incominciare, per agire mettendo al mondo qualcosa di nuovo, di inatteso, di originale». Dio stesso si è aperto alla novità, quando ha lasciato che il mondo fosse, creandolo «come il mare la terra: ritirandosi» (l’immagine – bellissima - è di Holderlin), e compiacendosi poi del buono che ne poteva nascere. Per questo, «solo un uomo libero può essere a immagine di Dio». Al contrario, «nutrire l’assurda pretesa di una identificazione totalizzante con Dio (…) porta a misconoscere il progetto della creazione, di un figlio a immagine del Padre – che però non è il padre».
La «logica fondativa della creazione» è dunque una logica «generativa». Per capire fino in fondo cosa ciò significhi bisogna forse essere genitori, come del resto lo sono i due autori del libro: in quanto tali, dicono, «noi stessi possiamo infatti testimoniare che il desiderio più grande di chi genera è vedere fiorire, nei modi e nei tempi necessari e non programmabili, la pienezza della vita in ogni singolo figlio, nelle forme inaspettate che potrà prendere». Ecco dunque il punto qualificante dell’intero discorso, il paradosso cristiano che il nostro tempo ha ancora bisogno di sentire annunciare e a cui vale la pena accordare fiducia: non siamo vincolati al bisogno naturale della mera sussistenza, del godimento individuale, dell’autosufficienza, ma abbiamo sempre a che fare con «un di più, con un’eccedenza, con una novità non ricavabile dalle premesse». É su questo che la Chiesa è chiamata a offrire la sua testimonianza, anzitutto nella sua forma: in caso contrario, se non lo sa fare, essa rischia di celebrare solo se stessa, facendo di Dio una proiezione solenne del proprio narcisismo. Anche l’esercizio di autorità andrebbe riletto in chiave generativa, come disponibilità a «lasciare andare» - non nel senso per cui tutto sarebbe uguale ed equivalente, ma come un mettersi al servizio dei processi in corso, «farsi risorsa per il bene di tutti, (...) invece che del suo dominio a proprio vantaggio», così da far crescere e accompagnare i suoi protagonisti affinché diventino essi stessi attori, legando insieme le generazioni nella consapevolezza che «la trasmissione della tradizione non è ripetizione meccanica, bensì continua reinterpretazione e rimessa al mondo». Solo così, essa può davvero dirsi “madre”.
Il compito della Chiesa nel mondo contemporaneo non deve perciò essere quello di «rimpiangere un mondo che non c’è più, che forse non è mai esistito e che comunque non è nemmeno desiderabile. Piuttosto, essere un punto di de-coincidenza per liberare, di nuovo, il desiderio rimasto imprigionato nell’ordine sociale costruito dalla modernità. Nella prospettiva di poter recuperare, un po’ per volta, il legame filiale che si è spezzato e così ricostruire una relazione le cui basi (la libertà, il perdono, la misericordia) siano più corrispondenti al disegno originario: dove la libertà è un tratto costitutivo dell’essere umano e va perciò riconosciuta e attraversata fino in fondo; e dove all’uomo non è chiesta una passiva e timorosa sottomissione, ma un’alleanza desiderata, un amore filiale nella libertà». Possiamo stare dentro una relazione senza esserne schiavi, siamo cioè tutti “legati” e liberi, e l’una cosa non impedisce l’altra: ecco, finalmente, la “buona notizia”, il cuore della “nuova alleanza”. C’è un modo di abitare l’umano che non ci costringe allo scontro o all’annullamento di sé – è il modo della concretezza, quello che la vita stessa ci insegna e che Dio benedice. L’altro, con la maiuscola e con la minuscola, non è l’inferno, «non è aliud, l’alieno-nemico dello schema dialettico dualista, ma alter, l’altro che ci costituisce, ci provoca e ci libera: l’Alterità senza la quale non c’è identità. Non ostacolo, ma condizione». Paradossalmente, ancora una volta, «il nostro ombelico, a torto diventato l’emblema dell’autoreferenzialità, ci ricorda che siamo prima di tutto legame. E perciò persone, non semplici individui». Questo riconoscimento vale per ciascuno di noi in relazione agli altri, vale all’interno della Chiesa fra suoi fedeli, vale all’esterno della Chiesa nei suoi rapporti con le altre Chiese cristiane, con le altre religioni, con la modernità, con il mondo, vale per le culture e le civiltà nelle loro vicendevoli interazioni, dato che nessuna di esse è mai nata per partenogenesi, ma sempre attraverso un colloquio. Quel colloquio mirabilmente rappresentato dal dogma più affascinante del nostro Credo: «il Dio cristiano è in sé poliedrico. Trinitario. Cioè non totalitario. Paesaggio dialogico, pluriprospettico, pluripersonale».
É questo dialogo interumano – e non i cori monodici di chi grida “Signore, Signore” – ciò che presumibilmente il Figlio dell’uomo cercherà per verificare se ci sarà ancora fede quando tornerà sulla terra e per distinguere tra chi ha fatto fruttare il talento che gli è stato dato e chi l’ha sepolto ben bene dentro la cripta di una cattedrale.
(finito l'11 novembre 2019)
Ho parlato di
La scommessa cattolica
(Il Mulino 2019)
200 pp. | 15 €