martedì 26 aprile 2022

La notte in cui morirono gli autobus

Per mia personale regola di prudenza cerco sempre di applicare un generoso principio di carità ai libri che leggo, non tanto perché pensi (come forse sosterrebbe Fassino) che prima di criticare un libro dovrei provarne a scriverne uno io – dato che quello di lettore è un mestiere, se così si può dire, indipendente e autonomo rispetto a quello di scrittore, con metodi e rigore suoi propri – ma perché credo davvero che ogni volume che mi ispira la curiosità di aprirlo e che mi convince a dargli fiducia fino alla sua ultima riga non passi mai del tutto invano e procuri comunque una sia pure impercettibile modifica nel mio modo di vedere il mondo a cui mi pare giusto tributare omaggio. Ciò non toglie che mi capitino talvolta per le mani dei libri che mi sentirei in buona coscienza di non consigliare - e questo è appunto uno di quelli. Non consigliare, peraltro, non vuol dire sconsigliare. Etgar Keret, l’autore, mi pare infatti persona intelligente, e se un paio d’anni fa, durante un passaggio in libreria, l’occhio mi cadde proprio su questo volume non fu solo per la matticchiosa copertina di Matticchio, ma perché, poco tempo prima, avevo avuto modo di leggere una sua lunga intervista in cui diceva cose interessanti, rivelatrici di un pensiero. Il Keret intervistato, però, era l’uomo pienamente adulto del 2020, mentre l’autore del libro era un Keret di trent’anni più giovane, comprensibilmente ancora acerbo (la qual cosa, tuttavia, non era ricostruibile dal colophon e dalle note editoriali). Qui non c’entra la mia predilezione per gli esordi: l’edizione era, infatti, fresca di stampa, il contenuto no, ma l’avrei scoperto solo dopo (noto di sfuggita come, man mano che l’età avanza, gli scrittori stiano cominciando a cessare di apparirmi tutti indistintamente come dei vecchi saggi a cui genuflettermi in adolescenziale deferenza).

Di questa raccolta di racconti - il cui titolo italiano non ha nulla a che vedere con la versione originale, ma suona Tzinorot, ovvero qualcosa come “tubature” (Pipelines in inglese) – la rete delle reti ci dice impietosamente, in tutte le lingue possibili, che, al suo apparire, nel 1992, “passò inosservata”. Si tratta in tutta evidenza di un plagio ricorsivo, che però rende abbastanza l’idea: nessuno, a quanto pare, ha ritenuto di dover aggiungere altro. Siamo alle prese con una carrellata di brani brevi, a volte brevissimi (alcuni perfino più corti di questo stesso post), che scorrono via come le tracce di un album musicale, accomunati dall’ambientazione per lo più israeliana e da una vena tendenzialmente surreale quanto a volte può esserlo la realtà stessa in un paese anomalo come l’odierno Israele. A prima vista potrebbero sembrare una rielaborazione di certe storielle yiddish, dove è possibile imbattersi in mostri divoratori di sogni (Sul valore nutritivo del sogno) o in un Dio nano che crea il mondo come un atto di giocoleria (Dio il nano). A differenza di quanto accade con quelle parabole, tuttavia, la folgorazione che t’aspetteresti non sempre arriva, e se si resta spiazzati non è tanto per la freddura finale, quanto per la sua mancanza – salvo quando fa paurosamente irruzione la realtà, con il suo carico di crudezza, che si descriva la perquisizione ad un posto di blocco (Non sono esseri umani; Il nespolo) o si evochi il ricordo di un campo di sterminio (Terminal).

Ciò detto, alcuni colpi sono comunque ben assestati. L’ultimo racconto (Katzenstein) è un ottimo esempio di umorismo nero ebraico, in cui il protagonista pagherà a caro prezzo l’ossessione per il conoscente Katzenstein, perennemente additatogli come colui a cui riescono tutte le cose in cui lui invece fallisce («Katzenstein, Katzenstein, Katzenstein, Katzenstein. E non che fosse chissà quale fenomeno. Era un tipo nella media. Non un cervellone, né un grande atleta, né particolarmente scaltro. Era un ragazzo come me, solo un po’ più fortunato. Un po’, e un altro po’, e un altro po’ ancora… Un inferno»). Giorni come quelli rientra invece nella satira antimilitarista, con la sua presa in giro dell’illogica dinamica dei rapporti umani che si viene a creare all’interno dell’esercito. Ambientazione almeno in parte analoga ha un altro racconto (Yurden) incentrato su un agente del Mossad che comincia a non fidarsi più neanche di se stesso e sospetta di essere stato lui a rubare dei documenti secretati dalla cassaforte vuota di fronte alla quale si trova. Vi si leggono, per esempio, frasi così: «dopo il primo momento di shock Yurden decise che doveva agire, e in fretta. Sorprese sé stesso alle spalle, riuscì a sopraffarsi e si legò alla sedia. “Chi ti ha mandato, ah?” sbraitò rabbioso contro sé stesso». La piega che prende la vicenda, anche qui, è onirica, ma una descrizione come questa, oltre che linguisticamente suggestiva, mi pare indicativa della crisi di identità che può travagliare una coscienza israeliana. Insomma, ce n’è per abbastanza per riconoscere una voce promettente, ma a questo punto lascerei perdere questi primi gorgheggi per buttarmi direttamente sul repertorio più maturo. Solo allora mi sarà possibile dare un giudizio adeguato.

(finito il 17 febbraio 2021)

Ho parlato di


Etgar Keret
La notte in cui morirono gli autobus
(Feltrinelli 2019)

Trad. di A. Shomroni

146 pp. | 9 €

(ed. or.: Tzinorot, 1992)

sabato 16 aprile 2022

La fattoria degli animali

Non è stato certo uno dei momenti della mia adolescenza di cui vada più fiero. Assemblea di istituto, in quarta o più probabilmente in quinta superiore, organizzata secondo il format di Per un pugno di libri, con altre due classi “minori” a sfidarsi e noi più grandi a tirare le fila della gara (trasformatasi poi strada facendo, non chiedetemi come, in un quiz sui film di Bud Spencer e Terence Hill). Al sottoscritto venne chiesto di preparare una serie di domande sul libro con cui si sarebbe giocato. Lo sventurato rispose che sì, l’avrebbe fatto, convinto com’era di ricordarselo bene, quel libro, anche perché – come non mancò di far notare, dato che ai tempi era un po’ sbruffone – quel libro l’aveva già letto almeno un paio di volte (e sempre sia lodata, anche per questo, la professoressa di italiano che me lo fece tempestivamente conoscere, alle medie, insieme a 1984). E invece se lo ricordò assai meglio di lui un concorrente, che sbugiardò coram populo il maldestro notaio quando questi indicò come falsa una risposta in effetti vera, trasformandolo inopinatamente in un involontario epigono della signora Longari, caduto non già sull’uccello, come lei, bensì sul cavallo – poiché allo stacanovista Boxer (un cavallo da tiro, appunto) era dedicato il quesito incriminato. Per quale motivo rispolverare questo inglorioso ricordo? Primo, perché La fattoria degli animali è un libro talmente perfetto nel suo genere che forse l’unico modo serio per continuare a parlarne è parlando d’altro («sull’opera non voglio fare commenti – disse il suo stesso autore – se non parla da sola, è un fallimento»: che volete allora che aggiunga io?). Secondo, perché l’aneddoto insegna che questo racconto non fa mai male rileggerselo anche una terza volta, e poi una quarta e una quinta, periodicamente, a cadenza direi quasi liturgica, per evitare brutte figure - d’accordo –, ma soprattutto perché la storia, pur facendo finta di andare avanti, continua in realtà a riproporre ostinatamente molti di quei meccanismi che Orwell, questo geniale Esopo moderno, ha saputo così lucidamente descrivere ottant’anni fa e la cui sorprendente attualità potrebbe sfuggire se ci si affida solo alla benevolenza della memoria.

Se mi limitassi, dunque, a ricapitolare le varie allegorie attraverso cui Orwell, raccontando la rivolta degli animali della vecchia fattoria contro il loro zio Tobia, tratteggia la parabola della Rivoluzione sovietica fino all’esito osceno in cui essa era precipitata (compendiato nel fulminante paradosso secondo cui “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri”) non aggiungerei davvero nulla a ciò che è già stato ampiamente spiegato da gente ben più preparata di me. Quel che vorrei provare a condividere è invece un certo disagio per l’uso – diciamo - disinvolto che mi pare oggi si tenda sempre più spesso a fare di questo apologo, e della riflessione di Orwell in generale – e così facendo mi inoltro in un terreno insidioso, su cui mi starei chiedendo io stesso perché avventurarsi, se non fosse che purtroppo io non scrivo mai quello che prima ho capito, ma mi servo della scrittura appunto per provare a capire qualcosa, sempre che ci riesca, e perciò non saprei fare diversamente. Basta una sommaria ricognizione in rete per constatare quanto Orwell venga sventolato su molti siti dall’inequivocabile coloritura politica come un feticcio di cui servirsi, volta per volta, per denunciare – cito a casaccio - “l’Inquisizione politically correct”, il “progressismo a senso unico” e, più di tutto, la famigerata “dittatura del pensiero unico” (così è stata intitolata, ad esempio, una raccolta di scritti orwelliani apparsa qualche tempo fa in edicola come allegato nientemeno che a La Verità – e la cosa appare grottesca già solo a dirla: viene in mente la parodia che Corrado Guzzanti dedicò a Paolo Liguori negli anni ‘90, quando dalle tre reti Mediaset si piagnucolava ininterrottamente ventiquattr’ore al giorno che in questo paese non si era liberi di esprimersi come si voleva a causa dell’egemonia comunista).

Ci sono appigli per rendere credibile questa trasformazione di un oppositore dello stalinismo in un cavallo di troia da manovrare contro le moderne liberaldemocrazie? Volendo sì. Orwell, in fondo, è uno che non esita a parlare con disprezzo di “intelligencja” per riferirsi agli intellettuali britannici del suo tempo e all’atteggiamento manifestato da molti di loro proprio verso Animal Farm, la cui pubblicazione fu resa complicata non già a causa di un’esplicita censura governativa, quanto per l’ostracismo preventivo di chi riteneva che non fosse “opportuno” criticare l’URSS con la guerra ancora in corso (il libro infine uscì in prima edizione il 17 agosto 1945, dopo aver subito diversi rifiuti). Se non l’espressione letterale, il concetto di “fascismo degli antifascisti”, così come quello di “suicidio dell’Occidente”, poi divenuti parte integrante di una certa retorica oggi debordante (nonostante la sua sedicente marginalità), sono facilmente riscontrabili già nei suoi scritti - per esempio, nel saggio “La libertà di stampa”, inizialmente pensato come possibile introduzione all’opera, ma rimasto inedito fino al ‘72: «in qualsiasi momento esiste un’ortodossia, un complesso di idee che si presume debbano essere accettate senza obiezioni da chiunque la pensi correttamente. (…) Chiunque sfidi l’ortodossia dominante viene ridotto al silenzio con sorprendente efficacia. Le opinioni autenticamente anticonformiste non trovano quasi mai spazio sulla stampa popolare quanto sulle riviste intellettuali». Figuriamoci: tutto grasso che cola per chi oggi si sente schiacciato da un regime in cui alti papaveri, banchieri e omosessuali ti obbligano a pensare quello che vogliono loro.

D’altra parte, La fattoria degli animali è piena di episodi che possono essere interpretati in questo modo. Quando i maiali, i nuovi dirigenti della Fattoria liberata, sciorinano la loro pletora di cifre per dimostrare che, rispetto ai tempi del vecchio padrone Jones «la produzione d’ogni tipo di generi alimentari era aumentata del duecento, del trecento o del cinquecento per cento, a seconda dei casi», «che lavoravano di meno, che l’acqua potabile era di miglior qualità, che vivevano più a lungo, che la mortalità infantile era molto calata, che avevano più paglia in stalla e meno fastidi con le pulci», tutti gli altri animali, pur avvertendo i morsi della fame, piegano debitamente la testa, «contenti di credere che fosse così». Come puoi non vedere qui in filigrana i pecoroni che si bevono le veline del “governo dei migliori” e gettano le loro ghirlande di fiori su quelle nuove catene rappresentate dall’obbligo vaccinale o dal green pass? Allo stesso modo, nel leggere che i maiali sono soliti chiudere ogni minimo accenno di discussione con la domanda retorica e spesso fuorviante “Non vorrete mica che torni Jones?!” (infatti, «se di una cosa gli animali erano assolutamente certi, era proprio che non volevano veder tornare Jones. Una volta che la faccenda fu posta in questi termini, non ebbero più nulla da replicare»), come non pensare alla nevrastenica condizione di emergenza permanente in cui ci troviamo e che, in nome della pandemia o della guerra o del gas, porta ad accettare le peggiori decisioni possibili, imposte senza uno straccio di confronto pubblico, con blitz parlamentari e decretazioni d’urgenza? La stessa chiusa dell’opera, in cui si racconta di come i maiali, che ormai hanno imparato a camminare su due zampe, invitano in visita ufficiale gli uomini del vicinato alla Fattoria, pare una secchiata d’acqua ghiacciata gettata in faccia ai bamboccioni che credono ancora all’esistenza di reali differenze tra “noi” e “loro” (chiunque siano questi “loro”: russi, islamici o cinesi). Uomini e maiali ora se la intendono benissimo e se tornano a litigare è solo perché sono diventati così simili che tentano reciprocamente di fregarsi con gli stessi trucchetti. «Sì, era scoppiata una lite violenta: urla, pugni sul tavolo, sguardi incattiviti dal sospetto, contestazioni furiose. L’apparente motivo di quel parapiglia era che Napoleone [il leader dei maiali, controfigura di Stalin] e il signor Pilkington avevano giocato entrambi, simultaneamente, l’asso di picche. Dodici voci urlavano rabbiose, ed erano tutte uguali. (…) Dall’esterno le creature volgevano lo sguardo dal maiale all’uomo, e dall’uomo al maiale, e ancora dal maiale all’uomo: ma era già impossibile distinguere l’uno dall’altro».

In linea di principio non avrei molto da ridire: lo spauracchio di un ordine peggiore può effettivamente indurre all’esaltazione acritica di un esistente che non ha molti motivi per essere esaltato, grondante com’è di intollerabili e sanguinose ingiustizie. Credo anzi che in fondo il compito dell’intellettuale sia proprio quello di esplorare socraticamente tutte le biforcazioni del pensiero, percorrendo anche solo in via di ipotesi i vicoli apparentemente oscuri per accertare che siano veramente ciechi e non lasciare nulla di intentato. Di alternative, infatti, abbiamo sempre un bisogno vitale, come una finestrella perennemente socchiusa verso l’esterno in modo che la nostra comfort-zone non si saturi mai d’aria viziata. Dubbio e precauzione: chi potrebbe seriamente non essere d’accordo? Ma la cautela cessa immediatamente d’essere cautela quando diventa bandiera e smette di essere metodo: allora una salutare dissonanza diventa pura stonatura e l’intelligenza si rovescia impercettibilmente in ottusità, senza per questo smettere di dire comunque qualcosa di sensato, come l’orologio fermo che segna l’ora giusta due volte al giorno. Scriveva Sciascia, in un passo illuminante, che «anche le cose vere, gridate e diffuse dagli altoparlanti, assumono apparenza d’inganno». C’è ancora una bella differenza, credo, tra ascoltare con mente aperta le ragioni altrui per riflettere sui propri pregiudizi e aderire per partito preso a tutto ciò che appare “contro” (non importa contro che cosa), vomitando livore su chi vede le cose in un’altra maniera. Così come c’è qualcosa di incongruo nel fare giustamente il contropelo a una parte e sottacere con sufficienza le malefatte dell’altra, protestare per il cattivo trattamento che si ritiene di subire e rovesciarlo tale e quale sui propri avversari. Lo “specchio riflesso” non è esattamente il segno di una maturità di giudizio. Quando l’eresiarca che invoca libertà di parola nei confronti della Grande Chiesa si erge poi a guru indiscutibile della sua setta personale, abbiamo fatto davvero un passo avanti? Più che il pensiero unico ciò che trovo sempre più insopportabile e pericoloso è semmai l’indistinta caciara che ci circonda, quella parodia di dialogo in cui sotto il nome di dibattito va continuamente in onda una sgangherata zuffa tra maschere della commedia dell’arte, in cui anche il dissidente recita a soggetto la parte che si è conquistata con le sue sparate ed è disposto a tutto pur di difendere la posizione così faticosamente guadagnata – mentre per alimentare un ragionamento proficuo tutti si dovrebbe sempre essere disposti a fare un passo indietro. E allora, in questa cagnara, che ce ne facciamo davvero di Orwell? Pur criticando severamente la piega che aveva preso la Rivoluzione, e pur affermando che «se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire», lo scrittore inglese non arrivò mai a concludere, per dire, che gli umani della sua favola starebbero combattendo la stessa battaglia degli animali contro il vero nemico rappresentato dai maiali o che gli animali avrebbero fatto meglio ad arrendersi sin dall’inizio ai vecchi padroni, che almeno non ricorrevano all’ipocrisia della libertà. «Cambiare un’ortodossia con un’altra – dice, al contrario – non è necessariamente un progresso. Il nemico è la mentalità da grammofono, e non conta che si sia d’accordo o meno col disco che sta suonando al momento». Questa è l’unica buona battaglia che si dovrebbe essere incondizionatamente disposti a combattere.

(finito il 16 febbraio 2021)

Ho parlato di


George Orwell
La fattoria degli animali
in G. Orwell, Romanzi e saggi, Mondadori 2006, pp. 775-875.

Trad. di G. Bulla

(ed. or.: Animal Farm, 1945)