Su Malaparte circola quella feroce battuta di Longanesi secondo cui sarebbe stato così egocentrico che ai matrimoni avrebbe voluto essere la sposa, ai funerali il morto. Potrebbe trattarsi di una semplice faida da parenti serpenti tra quelle due sottospecie di fascista che sono l’arcitaliano e lo strapaesano, ma è un giudizio che in fin dei conti ti senti ti condividere, quando giungi al fondo di questo libro difficilmente inquadrabile, per cui oggi vedo che qualcuno spende l’etichetta di docu-fiction. Attraverso un continuo andirivieni temporale, con l’impiego di stratagemmi quasi ariosteschi per aprire e chiudere parentesi, in queste densissime quattrocento pagine si racconta l'odissea di guerra vissuta dall’autore, tra il '41 e il '43, lungo un immenso fronte nordorientale che si snoda per Serbia, Romania, Ucraina, Polonia, Germania, su su fino al profondo nord della Finlandia, oltre il circolo polare, prima di ripiegare in Italia: solo che questo paesaggio plumbeo e spettrale di un'Europa morente, ridotta a «un mucchio di rottami», non ospita più donne, cavalieri, armi ed amori, bensì un decamerone di storie crudeli che, accavallandosi l’una sull’altra, stanno a testimoniare il disfacimento etico e politico del Vecchio Continente, in un Trionfo della Morte ancor più cupo di quelli trecenteschi.
E allora qui andrebbero distinti come tre strati – operazione quantomai problematica e arbitraria, giacché è proprio dalla loro stretta interdipendenza che il libro trae tutto il suo fascino inquietante e sinistro ed anche la sua qualità letteraria. Per un verso è palpabile lo sforzo di smarcamento da parte di Malaparte rispetto al fascismo, con cui aveva pesantemente flirtato: troviamo l’insistente ricordo dei suoi mesi di prigionia nelle carceri italiane, per esempio, accanto a una corrosiva satira nei confronti di Ciano, Mussolini e della loro «rivoluzione addomesticata» (gli stivali di Mussolini «non servono a niente. (...) Son buoni soltanto per stare nella tribuna d’onore, durante le parate, a vedere sfilare i soldati con le scarpe rotte e i fucili arrugginiti», anche se la mia parte preferita è quando scrive, a proposito di un vertice anglo-italiano, che il Duce «ha l’accento romagnolo, pronunzia la parola problema, la parola Mediterraneo, la parola Suez, la parola Etiopia, come se prununziasse le parole scopone, lambrusco, comizio, Forlì»), per non parlare delle continue prese di posizione ironiche e i ricorrenti distinguo sollevati nei confronti dei tanti commensali nazisti o fiancheggiatori con cui il giornalista-soldato Malaparte si intrattiene di continuo, scambiando frecciatine e frasi ad effetto, nel corso di luculliani pasti a base di cinghiali, daini, caprioli e altre sugose prelibatezze degne dei più grassi pranzi asgardiani. «Eravamo seduti intorno alla ricca tavola come morti celebranti nell’Ade il banchetto funebre». Non lo si sarebbe potuto dire meglio. Memorabili, in particolare, le cene offerte dal “re tedesco di Polonia” Hans Frank, uno degli architetti di Auschwitz, qui ritratto – tra l’altro – mentre sviluppa coscienziosamente quella che forse sarebbe stata anche la sua strategia difensiva a Norimberga, dove finì comunque impiccato: «Non potete dire di aver visto un tedesco torcere un capello a un ebreo. (...) Noi tedeschi seguiamo in ogni cosa la ragione e il metodo, non i bestiali istinti: in tutto, noi operiamo scientificamente. (...) Noi imitiamo l’arte del chirurgo, non mai quella del macellaio. Avete forse visto un massacro di ebrei nelle strade delle città germaniche? No, vero? Tutt’al più qualche dimostrazione di studenti, qualche innocente chiassata di ragazzi. Eppure, fra qualche tempo, in Germania, non vi sarà più un solo ebreo. (...) Ammazzar gli ebrei non è nello stile tedesco. É una fatica stupida (...). Noi li deportiamo in Polonia, e li chiudiamo nei ghetti. Padroni, là dentro di far quello che vogliono. Nei ghetti delle città polacche, gli ebrei vivono come in una libera repubblica. (...) Non possiamo obbligarli a vivere in modo diverso». Pogrom, del resto, è una parola slava, degna di popoli inferiori. Gli ebrei dovrebbero ringraziarci: il muro del ghetto, «almeno, li ripara dal vento», loro che sono così cagionevoli (se davvero tutto questo è stato scritto, in presa diretta, al più tardi nel ’43, vuol dire però che molte cose già si sapevano allora).
Alla lunga questo incedere può risultare fastidioso, più ancora che per l'intento apologetico, per il senso di cinica rassegnazione che vi si accompagna. Secondo strato: tutto il libro è pervaso da una malcelata malinconia verso un ordine – fatto di cavalli, nobiltà, ricevimenti al golf club - andato in frantumi con l'avvento della modernità esasperata e del cialtronismo arrembante rappresentato dai grandi totalitarismi novecenteschi. E allora, di fronte a questo scempio, tanto vale far saltare il banco, cada Sansone con tutti i Filistei. «Preferiso che tutto sia da rifare, al dover tutto accettare, come un'eredità immutabile». E ancora: «muore tutto ciò che l’Europa ha di nobile, di gentile, di puro. La nostra patria è il cavallo. (...) La nostra patria muore, la nostra antica patria». Corollario autoconsolatorio: «Tutti siamo divenuti crudeli». Ergo, «anche finire in galera è un modo di far la puttana. Anche far l’eroe, anche pugnare per la libertà è un modo di far la puttana, in Italia. Anche dire che questo è una menzogna, un insulto per tutti coloro che sono morti per la libertà è un modo di far la puttana». Il Malaparte-personaggio interpreta la guerra come se si trattasse di una partita di cricket tra leali gentiluomini di Eton, un gioco magari pericoloso ma pur sempre un gioco a guardie e ladri, in cui si cade sempre in piedi e alla fine pure il tedesco trova il modo di apparire come una vittima - una vittima della propria paura del diverso che lo spinge ad accanirsi contro gli altri, i malati, gli inferiori. «Il destino del popolo tedesco è di trasformarsi in kopparoth, in vittima, in kaputt»: ed ecco spiegato, con una capriola etimologica, il titolo del libro. Tutti colpevoli, perciò tutti innocenti, ciascuno abbinato a un diverso tipo di animale, cui non a caso sono intitolate le diverse sezioni del libro, perché solo l’animale è davvero senza colpa. Anche «Cristo è un gatto crocifisso»...
Se però si superano queste potenziali resistenze, la visione che ti si squaderna davanti è davvero potente. La cronaca più macabra si trasfigura in forme grottesche per restituire (e come se te la restituisce!) la dissoluzione completa di un mondo. «Tutto era morto. Era proprio come il silenzio della natura quando la terra sarà morta, l’immenso, estremo silenzio sidereo della terra quando sarà fredda e morta, quando sarà consumata la distruzione del mondo». Difficile staccarsene. Ti sembra proprio di vederli, i tedeschi, avanzare «come le dita di una mano enorme», mentre vanno in cerca di ragazze ebree da destinare prima al bordello militare e poi ai forni, dopo averle consumate sessualmente. E poi i soldati nazisti che si dannano per catturare i salmoni finnici, per finirli a colpi di pistola. E quegli altri soldati morti congelati, utilizzati come segnali stradali nel gelo intorno a Leningrado. E le carcasse abbandonate nel mare di fango dell'autunno ucraino. E i cani anti-carro riempiti di esplosivo per saltare in aria sotto i panzer tedeschi. E il vassoio colmo di occhi umani che sembrano frutti di mare, nell'ufficio del capo degli ustascia croati. E i cadaveri che travolgono i vivi e ne mordono le carni quando viene aperto il vagone dei deportati dopo essere stato abbandonato sotto il sole per due giorni roventi su un binario morto, da qualche parte in Romania. Fino all'immagine apocalittica dei deformi abitanti dei vicoli di Napoli che, come veri e propri Morlocks, vengono stanati dai bombardamenti alleati e vomitati per le strade della città. É uno sguardo allucinato, proprio più del racconto onirico che del reportage di guerra, grandioso ma anche pericolosamente mistificatorio. Pensi, per dire, ai partigiani senza retorica di Fenoglio e ti viene il cattivo pensiero che Malaparte abbia rappresentato la guerra solo per mettere in risalto il suo cinico acume. Però, anche se così fosse, questo libro mostra che non è necessario essere buonisti per prendere atto della rovina in cui inevitabilmente si sprofonda se si dà libero sfogo a certi presupposti recentemente tornati di moda.
(finito il 17 luglio 2017)
Ho parlato di
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Curzio Malaparte
Kaputt
(Mondadori, 1995)
450 pp. | 14.000 lire
(1ª ed.: 1944)