Per celebrare adeguatamente il cinquantenario del piccolo passo di Neil Armstrong sulla superficie lunare, nel luglio 2019 i curatori di Urania hanno avuto la felice intuizione di distribuire nelle edicole il secondo dei quattro tomi in cui è stata scorporata la traduzione della raccolta completa dei racconti di Arthur C. Clarke, quello, cioè, contenente uno dei testi che più ha contribuito, in appena una dozzina di pagine, a definire l’immaginario collettivo del secondo Novecento - e per possedere finalmente il quale (già letto chissà quando e chissà dove, tanti anni fa) ho volentieri acquistato l’intero volume, quando si è trattato di scegliere il consueto libro di fantascienza che mi avrebbe dovuto accompagnare in spiaggia l’estate scorsa. Parlo, ovviamente, de La sentinella (da non confondere con il quasi omonimo, pressoché coevo, e forse ancor più celebre Sentinella, senza articolo, di Fredric Brown). Breve ragguaglio contenutistico: in un ipotetico 1996, una spedizione scientifica sulla Luna individua «una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature». Se non bastasse a convincercene la sua fattura raffinata, il fatto che l’oggetto risulti protetto da una una sorta di campo di forza attesta al di là di ogni dubbio la sua origine artificiale, ancorché del tutto misteriosa (suona familiare? Certo, è lo spunto da cui ha dichiaratamente preso le mosse Kubrick per 2001 Odissea nello spazio). Questo manufatto è un’autentica sfinge che sfida tutte le convinzioni umane. Solo dopo vent’anni di studi riassunti nel giro di una riga – ci dice il narratore – «quello che non riuscimmo a capire lo spezzammo (...) con la selvaggia potenza dell’energia atomica, così che adesso io ho visto i frammenti di quella cosa bella e scintillante che trovai lassù fra le montagne». E la conclusione, a prima vista avvilente, è che questi frammenti «non significano assolutamente nulla. I meccanismi, sempre poi che fossero meccanismi, della piramide sono il frutto di una tecnologia molto al di là del nostro orizzonte, forse di una tecnologia di forze parafisiche».
Ecco, il racconto è tutto qui, interamente giocato, dapprima, sul senso di meraviglia per l’avvenuto contatto, seppur “archeologicamente” mediato, con una civiltà aliena, quindi sulle congetture formulate dal protagonista di fronte alla irriducibile incomprensibilità di quel reperto lunare, simbolo di tutto ciò che è avvenuto, avviene e avverrà nell’universo senza che la cosa minimamente ci riguardi. La sua supposizione è che in tempi vertiginosamente lontani, quando la Terra era ancora la palla fumante delle origini, qualcuno o qualcosa deve aver attraversato il sistema solare, ipotizzato che, nell’arco di centinaia di milioni di anni, si sarebbe potuta sviluppare anche lì una forma di vita intelligente e lasciato, appunto, come promemoria, una “sentinella”, la cui distruzione avrebbe segnalato inequivocabilmente la presenza di una specie capace di sviluppare sufficienti capacità tecnologiche e dunque meritevole finalmente di una qualche attenzione. Forse – conclude – questi remoti esploratori «vogliono aiutare la nostra civiltà in fasce. Ma devono essere vecchi, molto vecchi, e spesso i vecchi sono follemente gelosi dei giovani. Ora non posso più guardare la Via Lattea senza chiedermi da quale di quelle nebulose stellari stiano arrivando gli emissari. Se mi concedete il paragone terra terra, abbiamo azionato il segnale d’allarme, e adesso non ci rimane che aspettare. Non credo che l’attesa sarà lunga». Oltre, e forse più ancora. che nel ciclo di 2001 (il romanzo scritto parallelamente alla stesura della sceneggiatura del film più i suoi tre autonomi seguiti), analoghe tematiche, con una venatura persino religiosa, ritorneranno anche in un altro libro di Clarke, Incontro con Rama, in cui una misteriosa astronave-mondo viene avvistata in prossimità di Marte e visitata da un manipolo di astronauti, che però la devono presto abbandonare perché la sua traiettoria la sta conducendo dritta nel cuore del Sole, senza che sia stato possibile capire da dove arrivasse, a chi appartenesse e quale fosse il suo scopo.
Se il fascino di queste visioni è suscitato proprio da quella ostentata imperscrutabilità che ci fa sentire immensamente piccoli rispetto alle profondità siderali del cosmo (vedi anche, in questa raccolta, Giove Quinto), va però detto che, nella quasi totalità dei casi qui considerati, gli alieni di Clarke si rivelano poi, alla prova dei fatti, magnanimi e desiderosi di condividere il proprio sapere (con una sola eccezione, nel racconto d’apertura Strada buia, che è praticamente un horror), e se qualche volta scappa loro la mano è solo perché sono gli umani che non riescono a capire o a farsi capire (è il tema di Campagna pubblicitaria, una fulminante satira di come gli uomini finiscano per credere a tal punto alle proprie fiction da compromettere tragicamente la loro facoltà di giudizio; in Problemi con i nativi, invece, una variante dell’apologo di Carlo Fruttero sul disco volante che atterra nella bassa Padana anziché nel Texas, la maggior pazienza dei visitatori garantisce ai terrestri un esito migliore). Non è un caso che queste ventuno short stories risalgano tutte a un periodo compreso tra il 1952 al 1957, ossia tra la guerra di Corea e il lancio dello Sputnik, nel cono d’ombra della Bomba. Si perde, infatti, il conto di quante volte Clarke si diverta – forse anche con intenti apotropaici – a distruggere la Terra o annientare l’umanità, ma è significativo che si tratti praticamente sempre di autodistruzioni, che diventano occasione per slanci lirici (Se mi dimenticassi di te, oh Terra…) o per spericolati divertissement costruiti sul filo del paradosso (I nove miliardi di nomi di Dio, Il mattino del quarto giorno e il godibilissimo Tutto il tempo del mondo).
Il tono spiccatamente british della sua prosa impedisce per fortuna deragliamenti nella più stucchevole apocalittica, ma sebbene la nota prevalente resti sempre uno stupore venato di fiducia per l’opera dell’uomo in cui talora si sente l’eco di Jules Verne (come in Vacanza sulla Luna), il tema a lui caro delle soglie critiche attraverso cui le civiltà possono raggiungere una maggior grado di complessità (Al bivio, Spedizione sulla Terra) non è mai trattato con toni ingenuamente trionfalistici o deterministici, bensì con la consapevolezza che ci si può sempre incartare e che, anzi, lo sviluppo tecnologico, in determinate condizioni, può perfino diventare un handicap anziché un vantaggio evolutivo (a ciò alludono, sia pure in modo giocoso, le macchine strampalate descritte in Silenzio, prego e in Corsa agli armamenti, anche se la questione è programmaticamente trattata in Superiorità). Perfino quando ci troviamo di fronte a scenari che oggi definiremmo senz’altro “post-umani”, le conseguenze prospettate possono risultare provvidenziali (La strada verso il mare) o raggelanti (Il parassita - probabilmente il pezzo più inquietante del mazzo), senza che l’una appaia meno credibile dell’altra. Insomma – lo si sarà capito – ogni racconto di Arthur Clarke è come una sonda lanciata ai confini dell’immaginazione allo scopo di catturare qualche bagliore dell’inconcepibile, nella convinzione – affidata a una sorta di dichiarazione di poetica dal sapore quasi borgesiano (sin dal titolo: L’altra tigre) – che «noi siamo qui perché non potremmo essere altrove. Ma tutti quegli altrove sono pure da qualche parte, quindi il mio racconto può essere disgraziatamente vicino alla verità. Per fortuna non avremo mai modo di provarlo. O almeno credo...».
(finito il 13 settembre 2019)
Ho parlato di
Arthur C. Clarke
Terra e spazio. Volume 2
(Mondadori, 2019)
(Urania Collezione 198)
trad. di Aa. Vv.
360 pp. | 6,90 €
(ed. or.: The Collected Stories, 2000)