domenica 26 settembre 2021

Marco Polo. Viaggio ai confini del Medioevo

Per uno dei paradossi più incredibili della storia della letteratura, il libro che probabilmente tutti quelli che sapevano leggere nel tardo Medioevo potevano dire di avere letto, tecnicamente parlando, è un libro che non c’è. «Si può leggere il Milione in edizioni di tutti i tipi. Di pregio, tascabili, illustrate, annotate, on-line, off-line, piratate, patinate. Se averlo tra le mani è facile, molto più difficile è sapere con esattezza “che cosa” si stia leggendo. L’incertezza non dipende dalla bravura dei curatori, spesso eccellenti, quanto dalla vicenda travagliata del libro. Non s’è conservato un autografo del Milione che ci trasmetta con sicurezza la volontà, le scelte, e magari anche gli errori dell’autore. Tanto per cominciare, gli autori sono due, Marco, il viaggiatore, e Rustichello, il letterato che ha confezionato l’opera. Chi ha scritto che cosa? Come districarsi tra lo stile un po’ agghindato del pisano e la sobria acutezza di Marco? Ancor più grave è il frantumarsi della tradizione testuale in rivoli diversi». Non padroneggio molto bene Derrida, ma ho la sensazione che questo sarebbe un caso studio ideale per misurare quella che chiama la différance. Di certo, se «la dimensione naturale del Milione è quella della conversazione garbata, in apparenza poco impegnativa» - poiché Marco è un grande affabulatore, che conosce bene «il ritmo naturale dell’oralità, fluido, senza ostacoli» - accostarsi a una versione in cui si è costretti a spezzare continuamente il ritmo del racconto per correre dietro alle note significa privarsi in partenza della possibilità di capirne la grandezza. Per questo, probabilmente assai più che in altri casi, abbondano di quest'opera rifacimenti, adattamenti e parafrasi (molti dei quali d’autore) e per questo, se non si hanno particolari esigenze filologiche da rispettare, la si può avvicinare anche tramite un volume come questo, che biografia non è, saggio in senso stretto neanche, parafrasi neppure, eppure è al tempo stesso un po’ di ciascuna di queste cose tutte insieme: una sorta di libro parallelo (come il Pinocchio di Manganelli) o forse, meglio ancora, un possibile esempio di lettura aumentata, sebbene sviluppata ancora in formato analogico.

D’altronde, c’è un mondo intero, dentro il Milione. Il viaggiatore Marco, infatti, «abita la curiosità, come se fosse una casa confortevole», e questa «vena di curioso, che vuol capire e toccare con mano» lo spinge appunto a «tocca[re] quello che non deve, annusa[re] ciò che non conosce, assaggia[re] i cibi altrui, da buon goloso sperimentatore». «Curioso di tutto», di tutto ci parla: serragli, harem, cibi, profumi, monete, idoli, deserti, città, tatuaggi, pendagli, suoni, abitudini sessuali – sembra non esserci aspetto della vita che non catturi la sua attenzione. E come se non bastassero il mondo che effettivamente vede e quello che contribuisce a creare, immettendo miti orientali nell’immaginario occidentale, Marco ne produce involontariamente di infiniti altri, poiché «i rivoli d’immagini che scorrono dal Milione si perdono per le biblioteche di mezza Europa. Ogni pagina del libro genera decine di altri fogli. Come una pianta che ramifichi, si divida, si moltiplichi, si spezzi in rami sempre più divaricati», disegnando percorsi inesauribili, che collegano, per citarne solo alcuni, Coleridge a Kafka a Calvino, moltiplicando le stratificazioni entro cui si formano nuovi tesori.

Il libro di Marco appare dunque, a un primo sguardo, «un emporio ben organizzato» in cui il suo autore si ritrova come disperso: così pieno di cose, «il Milione non è certo un libro dell’io». Eppure qualcosa di lui forse ci resta, e non pare irrilevante. L’obiettivo che Busi si propone, attraverso questa sua rilettura, è infatti quello di «catturare lo sguardo di Marco», cercare di scovare tra le righe l’uomo «facendo caso a quello che dice e, forse ancora di più, a quanto tace. Soprattutto, guardando a come guarda. Marco, lo si prende per gli occhi. Per i suoi occhi. Perché mette tutto se stesso in quel che vede, in come lo vede». Due espressioni, in particolare, sono rivelatorie del suo modo di osservare. La prima è “la verità è un’altra”: «non c’è frase che piaccia maggiormente a Marco», orgoglioso di poter esibire la propria testimonianza oculare per sfatare le leggende più inverosimili circolanti su un qualche argomento. Analogamente, «uno dei fili che tengono assieme tutta l’opera» è la formula “quelli genti pensano”, «non nel senso astratto, filosofico del riflettere sulla vita. Ciò che a Marco interessa è cosa pensino, di quali contenuti si riempia la loro immaginazione, e come tali pensieri si esprimano in gesti, movimenti, parole, costellazioni vitali». Spogliato degli elementi puramente sensazionalistici, infatti, anche l’inverosimile può risultare comprensibile, se si prova a entrare nel modo di guardare dell’altro. E allora vien giustamente da chiedersi, riscrivendo qualche consolidata genealogia, «se l’Umanesimo, che è ancora tutto da venire», al tempo di Marco, non si sia «fatto le ossa anche su questo improvviso dilatarsi di geografia e antropologia». «Come Colombo, nella sua geografia all’inverso, scopre un intero continente, così i nostri viaggiatori duecenteschi circumnavigano l’uomo. Nei costumi, nelle credenze, nelle stranezze, dalle loro peregrinazioni nasce una nuova stagione, in cui l’Europa cristiana si ritrova più piccola e fragile di quanto pensasse. Non è certo la piena consapevolezza dell’altro, ma una bella ipoteca al vecchio “noi” senza confini e senza paragoni, questo sì».

E tuttavia se Marco può tanto è anche perché in Oriente incontra una sorta di omologo speculare nel Khan Qubilai, di cui diventa per un certo tempo come gli occhi e le orecchie aperti sull’immenso territorio che gli è sottomesso. L’intero suo racconto, prima di essere rivolto agli europei, «vive del confronto tra due menti aperte e due curiosità» e non sarebbe stato possibile senza quell’autorevole, primo ascoltatore con gli occhi a mandorla. Mi ripeto per l’ennesima volta: noi Occidentali non ci siamo fatti da soli. E probabilmente, a beneficio di tutti, dovremmo prima o poi cercare di riprendere, con i nostri amici orientali, il gusto di questa «conversazione priva di obblighi, che si può interrompere in qualsiasi momento. E che, invece, non si vorrebbe mai abbandonare, perché diverte, istruisce, stupisce».

(finito il 12 settembre 2020)

Ho parlato di


Giulio Busi
Marco Polo
Viaggio ai confini del Medioevo
(Mondadori, 2018)

372 pp. | 25 €

lunedì 13 settembre 2021

L'ordine degli Assassini

Prima, molto prima di Assassin’s Creed noi piccoli nerd degli anni ‘90 ci divertivamo a giocare con i librogame, ed è proprio consumando alla morte uno di questi – uno dei più belli – che mi ritrovai per la prima volta di fronte alla veneranda e terribile figura del Vecchio della Montagna. Erano proprio altri tempi. Senza internet a portata di tocco, raccogliere anche solo un minimo di informazioni significative su ciò che suscitava la tua curiosità di ragazzino risultava molto più complicato di quanto non lo sia oggi e perciò ogni conoscenza acquisita era il prodotto di una piccola impresa di cui andare orgogliosi. La storia che più o meno ricostruii, amalgamando le fonti su cui ero riuscito a mettere le mani (dalle enciclopedie in biblioteca a Martin Mystère), raccontava di una sorta di signore della guerra che, all’epoca delle crociate, si era arroccato in un’inespugnabile fortezza da qualche parte sui monti alle spalle dei regni cristiani, il cui aspetto esteriore, arcigno quanto la Cittadella del Serpente di Skeletor, serviva a nascondere il meraviglioso giardino che il suo padrone vi aveva ricreato dentro, un parco in cui scorrevano ruscelli di latte e miele e dove splendide vergini erano a disposizione dei giovani che periodicamente il Vecchio vi introduceva, dopo averli fatti rapire e narcotizzare, in modo da indurli a credere di avere raggiunto davvero il paradiso promesso da Maometto; di qui, poi, alla bisogna, con l’aiuto del medesimo narcotico li faceva riportare nel mondo esterno, per assegnare loro missioni spericolate – il più delle volte omicidi mirati – alle quali i meschini, assuefatti al godimento, si prestavano con lo slancio della disperazione, perché convinti che quello fosse l’unico modo per ritornare quanto prima nel luogo incantato da cui erano stati strappati. E poiché la sostanza impiegata per ottunderne i sensi non era altro che l’hashish, a questi spietati sicari venne appunto dato il nome di “assassini”.

Storia bellissima e suggestiva, che colpì profondamente l’immaginario dei medievali, come testimonia la rapida diffusione del termine stesso “assassino” nelle lingue volgari (lo impiega anche Dante nel canto dei simoniaci, per dire). Peccato solo che non vi sia quasi nulla di vero. Questa leggenda, raccolta dagli europei di passaggio in Terra Santa o lungo la Via della Seta, come Marco Polo, è una rielaborazione romanzesca delle dicerie che circolavano in una parte dell’Islam a proposito di un suo ramo collaterale, di cui questo libro ricostruisce metodicamente la storia, con piglio accademico e solide basi filologiche. In questo modo, il raccontino da cui sono partito finisce confinato in una manciata di paginette, citato quasi vergognosamente col disappunto di chi sa di non poterlo non menzionare, piccola isola di cialtroneria in un oceano di sconfinata erudizione. Confesso che, non aspettandomi una tesi di dottorato (poiché il libro di cui parlo di fatto lo è), ho patito un po’ il decollo di questa nuova avventura, ma poi, presa quota, mi sono lasciato guidare volentieri nell’esplorazione di un mondo di cui non sapevo niente di preciso.

I fatti, in breve. A noi per i quali l’Islam appare come un tutt’uno e i musulmani sono tutti quanti solo “marocchini” fa sempre un po’ effetto prendere coscienza che invece al suo interno c’è stata e c’è una varietà di posizioni paragonabile a quella esistente nel cristianesimo, con tutte le sue confessioni, ordini e congregazioni (e per questo restiamo sorpresi che quelli che noi percepiamo come generici “cattivi”, come gli ayatollah iraniani e i mullah talebani, o i talebani e l’Isis, per molti aspetti non si sentano affatto “dalla stessa parte”). Eppure, sin da quando gli arabi si lanciarono alla conquista del Medio Oriente, il mondo islamico già «straripava della più multiforme vitalità». La frattura più vistosa e duratura, risalente alle generazioni immediatamente successive al Profeta, è ovviamente quella tra sunniti e sciiti. Per un certo periodo, con la conquista da parte dei Fatimidi di uno snodo strategico come l’Egitto, la bilancia sembrò pendere dalla parte dello sciismo, ma la sua posizione di primato venne rovesciata, poco dopo il Mille, dall’espansione dei turchi, i quali, dopo essersi convertiti alla Sunna, misero in piedi un immenso sultanato che andava dallo Xinjang all’Anatolia. É a questo punto che un guerriero al tempo stesso un po’ mistico e un po’ filosofo, Hasan-i Sabbah (divenuto poi il Vecchio della leggenda) si pose a capo dell’opposizione sciita nei territori virtualmente controllati dai turchi e cominciò una lotta senza quartiere contro i nuovi padroni, il cui primo successo strategico fu l’occupazione di una serie di castelli montani a sud del Caspio, compresa la celebre rocca di Alamut, che divenne di lì in poi il rifugio principale di questi ribelli, noti alle cronache (per ragioni che non sto qui a riprendere) con il nome di ismailiti o naziriti. Simili a delle Montségur iraniche, queste città nascoste di lingua persiana si rivelarono a lungo pressoché inespugnabili e da lì, almeno all’inizio, gli ismailiti coltivarono il sogno di guidare la riscossa sciita, ricorrendo anche a metodi che oggi definiremmo terroristici, in quanto la teatralità dell’attentato era ricercata almeno quanto l’effettiva eliminazione del bersaglio (tant’è che spesso e volentieri l'attacco si concludeva con la morte dello stesso attentatore). Il delitto, nelle intenzioni, serviva infatti a scuotere le coscienze degli spettatori più ancora che a versare il sangue di un nemico.

Per circa un secolo e mezzo, dal 1090 al 1256, gli ismailiti costituirono così uno stato nello stato all’interno del’impero turco, percepito, a seconda dei momenti, come un’effettiva spina nel fianco o come una realtà talmente isolata da poterla tranquillamente ignorare. Si trattava però di uno scisma ideologicamente molto connotato. Al suo sorgere, Hasan aveva elaborato una sorta di dialettica della ragione che ne metteva in discussione la capacità di guidare autonomamente l’essere umano. Una teoria simile venne formulata, quasi contemporaneamente, in campo sunnita, da al-Gazzali, ma se quest’ultimo ne traeva la conclusione che l’unica autorità in grado di orientare l’uomo fosse l’esperienza della comunità condensata nella legge (la Sunna, appunto), il primo riteneva che tale funzione potesse essere svolta unicamente dall’imam, che per elezione divina era da considerarsi superiore persino alla legge. In questo modo tale figura veniva ad assumere tratti ben più che profetici, non troppo dissimili da quelli che il Cristo ha per i cristiani (“chi ha visto me ha visto il Padre” è un’affermazione che Hasan le avrebbe senza problemi riferito). Ed è appunto l’idea che la loro guida spirituale potesse annullare le norme identitarie del buon musulmano, unita alle azioni efferate che, a torto o a ragione, venivano loro attribuite, a suscitare nel mondo sunnita uno specialissimo orrore per quegli eretici. Se per Hasan e i suoi seguaci i sunniti avevano sostituito le loro tradizioni all’illuminazione diretta di Dio, per questi ultimi gli ismailiti erano solo dei folli e incontrollabili idealisti capaci letteralmente di qualunque cosa: «il brivido dell’hashish e del pugnale consentiva a un mondo sobrio e irreprensibile di gettare uno sguardo atterrito su possibilità altrimenti inimmaginabili. Qualsiasi nefandezza esulasse dalla portata dell’uomo comune, ma, nella sua perversità, lo attraesse, poteva essere creduta vera dei terribili Nizariti», i quali divennero perciò i protagonisti prediletti di una quantità di trame complottiste, considerati responsabili ultimi e misteriosi di tutto ciò di cui non si riuscivano a trovare altre spiegazioni. All’apice del contrasto, uno dei successori di Hasan si spinse a proclamare la Qiyama, ossia l’avvenuta “resurrezione”: da quel momento bisognava considerare la fine del mondo come già compiuta e la legge abrogata, poiché «in Paradiso non vi saranno leggi» e tutti vedranno Dio faccia a faccia. Grandiosa visione teologica, ma anche segno di ripiegamento e rinuncia a qualsiasi slancio missionario, in quanto affermava che i giochi erano conclusi e il giudizio già espresso.

Forse senza l’arrivo dei mongoli questa sorta di arca degli eletti avrebbe continuato ad autogovernarsi a lungo sui monti dell’Iran, insensibile alle sirene del mondo, o forse quello stato di tensione spirituale non sarebbe durato comunque molto più a lungo (segni di cedimento in tal senso sono attestati già nell’ultima fase di indipendenza), ma ad ogni modo l’invasione di Hulagu Khan, nipote di Gengis, mise fine all’esperimento e oggi quel che resta di quella tradizione ha i connotati di un miliardario come l’Aga Khan, che ha ben poco a che spartire con l’ascetico fervore del suo predecessore Hasan. Sia come sia, in questa storia c’è comunque una morale. Da tutta questa complessa elaborazione dottrinale di cui non ho dato che un minimo assaggio, gli europei ci ricavarono, sia pure un buona fede, una favoletta da Mille e una notte. Il problema è che questo continua a essere lo stesso approccio approssimativo con cui ancora oggi ci muoviamo da quelle parti.

(finito il 9 settembre 2020)

Ho parlato di


Marshall G. S. Hodgson
L'ordine degli Assassini
La lotta dei primi Ismailiti Nizariti 
contro il mondo islamico
(Adelphi, 2019)

trad di S. D'Onofrio

522 pp. | 32 €

(ed. or.: The Order of Assassins, 1955)

lunedì 6 settembre 2021

La scoperta dell'umanità

Cos’hanno in comune le parole “canoa”, “amaca” ed “uragano”? Sono praticamente tutto quello che ci resta della civiltà taino, la prima popolazione indigena incontrata da Colombo nel suo storico viaggio del 1492 e pressoché del tutto sparita nell’arco dei cinquant’anni successivi di coabitazione forzata con gli spagnoli, vittima non già di un programmatico genocidio, quanto di un ottuso sfruttamento reso possibile dalla convergenza di vuoto normativo, superiorità tecnologica e bramosia d’oro ("ottuso", dico, riprendendo un'espressione amaramente ironica di questo libro, perché finì per svuotare miniere e piantagioni di manodopera servile a buon mercato, complicando gli stessi piani d’occupazione degli europei; i quali, tuttavia, non difettando certo di iniziativa, decisero di andarsi a comprare nuova forza lavoro dai negrieri africani, mettendo così una toppa peggiore sull’orrendo squarcio che già avevano provocato). Anche per questo motivo oggi si usa con estrema reticenza la parola “scoperta”, a proposito dell’America – tranne forse che nella stampa popolare: ho appena visto che la RCS ha avviato una nuova collana da edicola dedicata alle grandi imprese della storia, nella quale si usa impunemente per una delle prime uscite proprio quella vecchia terminologia. Per contro, Boringhieri ha appena ristampato l’introvabile “Olocausto americano” di Stannard, che pone subito in chiaro di che cosa in effetti si è trattato. Ma non è il solo: la letteratura odierna sul tema, da Todorov in giù, adotta ormai abitualmente l’espressione più onesta di “conquista”.

Pur inserendosi nel ricco filone di studi dedicato alle relazioni tra gli europei e gli “altri”, riproponendo il tema della “scoperta”, questo libro andrebbe dunque controcorrente? Niente affatto: il suo autore ha solo in mente un diverso bersaglio polemico. La “scoperta dell’uomo” a cui si allude è infatti quella che Jakob Burckhardt, uno dei totem della storiografia sul Rinascimento, aveva considerato fra le esperienze determinanti per caratterizzare questo periodo storico e distinguerlo dal Medioevo. Eppure, nota Abulafia, nell’opera di Burckhardt di America quasi non si parla. Come se, appunto, la civiltà europea avesse tratto interamente da se stessa e dal proprio passato, per partenogenesi, le risorse spirituali e intellettuali con cui proiettarsi oltre l’epoca medievale. La tesi che qui si suggerisce è che invece ciò che ha permesso al Rinascimento di non essere solo ripetizione dell’antico ma incubatore della modernità, anzitutto sul piano antropologico, è proprio quel suplus di riflessione richiesto dall’allargamento degli orizzonti - mentali prima ancora che geografici - imposto dall’incontro con i popoli del Nuovo Mondo (sebbene si tratti di «una scoperta incompleta, in quanto non tutti gli osservatori riconobbero l’umanità, nel senso pieno del termine, dei popoli appena scoperti»: in quanto tale, è anzi un programma di ricerca ancora aperto). Tagliata un po’ con l’accetta, possiamo dire che per arrivare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo i poveri taino, loro malgrado, se non sono stati più importanti, lo sono stati per lo meno altrettanto del Quintiliano ritrovato da Bracciolini nella biblioteca di San Gallo.

Non si tratta di un argomento del tutto inedito, per chi frequenta già un po’ la materia, sebbene non sia stato ancora pienamente assimilato dalla nostra cultura (a centocinquant’anni da Burckhardt, se non fosse per l'impeccabile Montaigne, nei manuali di storia della filosofia l’America continuerebbe a passare pressoché inosservata almeno fino al Settecento). Da questo punto di vista il libro non aggiunge molto, ed è utile soprattutto come strumento di consultazione per farsi un’idea del modo in cui via via si sono andate elaborando le immagini del Nuovo Mondo fra gli europei, se non si ha tempo o voglia di leggersi le fonti primarie, dato che le segue in ordine geocronologico fin verso il 1520. Dove invece questo testo offre un contributo originale è nella trattazione del primo, spesso trascurato, “incontro atlantico”, quello avvenuto sin dalla metà del Trecento alle Canarie, l’unico arcipelago oceanico fra quelli occupati dagli europei in cui erano presenti popolazioni indigene, rimaste precocemente isolate non solo dal continente, ma anche reciprocamente fra di loro, dopo una lontana migrazione forse neolitica, come le tartarughe delle Galapagos ai tempi di Darwin (infatti noi le chiamiamo complessivamente “guanci”, ma i guanci, propriamente parlando, erano solo gli abitanti di Tenerife: in realtà anche di loro sappiamo poco, perché anch'esse furono tutte spazzate via e sostituite con gli schiavi una volta introdotto il sistema di piantagione). La cosa non deve stupire, se si considere che Abulafia è un medievista specializzato in storia del Mediterraneo e che il nucleo originario della sua ricerca prende proprio le mosse da eventi che, seppure geograficamente collocati oltre Gibilterra, sono comunque perfettamente integrati nell’ordine europeo medievale. Quel che ci intende mostrare è che effettivamente alle Canarie avvenne in nuce quello che sarebbe poi avvenuto su vasta scala in America, che cioè l’occupazione delle Canarie fu come l’esperimento generale, il precedente diretto, in cui si produssero gli schemi e le pratiche che avrebbero guidato l’azione di conquista successiva (anche sul piano delle rotte: La Gomera, la più occidentale delle Canarie, è l’ultima terra nota che si lasciano alle spalle le tre caravelle di Colombo, ed è anche per questo che i re di Spagna rivendicheranno per sé il dominio su quanto avrebbero trovato al di là del mare, come se non avessero fatto altro che portare avanti una medesima e lineare espansione). Perfino la ricezione della scoperta di quelle che all’epoca erano considerate le Isole Fortunate anticipa gli stessi stilemi e le stesse ambiguità che poi saranno tipici dei racconti sui nativi americani, con quell’oscillazione tra l’elogio della semplicità naturale come segno di un’innocenza edenica (così ad esempio Boccaccio) e la sua denuncia come espressione di bestialità (così ad esempio Petrarca). Si è scritto tanto sul fatto che Colombo in America abbia visto quello che sapeva già di trovare perché lo aveva letto in Marco Polo. Ma forse, suggerisce Abulafia, Colombo applica ai Caraibi soprattutto quello che aveva imparato alle Canarie – e il suo studio sembra appunto un tentativo di argomentare questa affermazione.

D’altronde, la persistenza di certi schemi mentali è dura a morire, specie quando guida la nostra percezione dell’alterità. In America, per dirne una, si forgia l’idea che ci siano dei selvaggi buoni, i taino appunto, e dei selvaggi cattivi, anzi mostruosi, i caribi o canibi (da cui deriva il termine cannibale, perché il loro tratto caratteristico sarebbe proprio stato quello di cibarsi di carne umana). Se la scusa di difendere i primi motiva l’aggressione contro i secondi, la loro mansuetudine offre anche il pretesto per giustificarne la sottomissione. Se ci pensiamo un momento, all’inizio del XXI secolo, la lotta al terrorismo e l’esportazione della democrazia, di cui vediamo oggi i gloriosi risultati, si sono fondate su un meccanismo narrativo non troppo diverso (e non mancherà molto che qualcuno tirerà fuori che bisogna sostenere i talebani “buoni” contro l’Isis “cattivo”).

(finito il 7 settembre 2021)

Ho parlato di

David Abulafia
La scoperta dell'umanità
Incontri atlantici nell'età di Colombo
(Il Mulino, 2010)

trad. di G. Arganese

460 pp. | 35 €

(ed. or.: The Discovery of Mankind. Atlantic Encounters in the Age of Columbus, 2008)