Per uno dei paradossi più incredibili della storia della letteratura, il libro che probabilmente tutti quelli che sapevano leggere nel tardo Medioevo potevano dire di avere letto, tecnicamente parlando, è un libro che non c’è. «Si può leggere il Milione in edizioni di tutti i tipi. Di pregio, tascabili, illustrate, annotate, on-line, off-line, piratate, patinate. Se averlo tra le mani è facile, molto più difficile è sapere con esattezza “che cosa” si stia leggendo. L’incertezza non dipende dalla bravura dei curatori, spesso eccellenti, quanto dalla vicenda travagliata del libro. Non s’è conservato un autografo del Milione che ci trasmetta con sicurezza la volontà, le scelte, e magari anche gli errori dell’autore. Tanto per cominciare, gli autori sono due, Marco, il viaggiatore, e Rustichello, il letterato che ha confezionato l’opera. Chi ha scritto che cosa? Come districarsi tra lo stile un po’ agghindato del pisano e la sobria acutezza di Marco? Ancor più grave è il frantumarsi della tradizione testuale in rivoli diversi». Non padroneggio molto bene Derrida, ma ho la sensazione che questo sarebbe un caso studio ideale per misurare quella che chiama la différance. Di certo, se «la dimensione naturale del Milione è quella della conversazione garbata, in apparenza poco impegnativa» - poiché Marco è un grande affabulatore, che conosce bene «il ritmo naturale dell’oralità, fluido, senza ostacoli» - accostarsi a una versione in cui si è costretti a spezzare continuamente il ritmo del racconto per correre dietro alle note significa privarsi in partenza della possibilità di capirne la grandezza. Per questo, probabilmente assai più che in altri casi, abbondano di quest'opera rifacimenti, adattamenti e parafrasi (molti dei quali d’autore) e per questo, se non si hanno particolari esigenze filologiche da rispettare, la si può avvicinare anche tramite un volume come questo, che biografia non è, saggio in senso stretto neanche, parafrasi neppure, eppure è al tempo stesso un po’ di ciascuna di queste cose tutte insieme: una sorta di libro parallelo (come il Pinocchio di Manganelli) o forse, meglio ancora, un possibile esempio di lettura aumentata, sebbene sviluppata ancora in formato analogico.
D’altronde, c’è un mondo intero, dentro il Milione. Il viaggiatore Marco, infatti, «abita la curiosità, come se fosse una casa confortevole», e questa «vena di curioso, che vuol capire e toccare con mano» lo spinge appunto a «tocca[re] quello che non deve, annusa[re] ciò che non conosce, assaggia[re] i cibi altrui, da buon goloso sperimentatore». «Curioso di tutto», di tutto ci parla: serragli, harem, cibi, profumi, monete, idoli, deserti, città, tatuaggi, pendagli, suoni, abitudini sessuali – sembra non esserci aspetto della vita che non catturi la sua attenzione. E come se non bastassero il mondo che effettivamente vede e quello che contribuisce a creare, immettendo miti orientali nell’immaginario occidentale, Marco ne produce involontariamente di infiniti altri, poiché «i rivoli d’immagini che scorrono dal Milione si perdono per le biblioteche di mezza Europa. Ogni pagina del libro genera decine di altri fogli. Come una pianta che ramifichi, si divida, si moltiplichi, si spezzi in rami sempre più divaricati», disegnando percorsi inesauribili, che collegano, per citarne solo alcuni, Coleridge a Kafka a Calvino, moltiplicando le stratificazioni entro cui si formano nuovi tesori.
Il libro di Marco appare dunque, a un primo sguardo, «un emporio ben organizzato» in cui il suo autore si ritrova come disperso: così pieno di cose, «il Milione non è certo un libro dell’io». Eppure qualcosa di lui forse ci resta, e non pare irrilevante. L’obiettivo che Busi si propone, attraverso questa sua rilettura, è infatti quello di «catturare lo sguardo di Marco», cercare di scovare tra le righe l’uomo «facendo caso a quello che dice e, forse ancora di più, a quanto tace. Soprattutto, guardando a come guarda. Marco, lo si prende per gli occhi. Per i suoi occhi. Perché mette tutto se stesso in quel che vede, in come lo vede». Due espressioni, in particolare, sono rivelatorie del suo modo di osservare. La prima è “la verità è un’altra”: «non c’è frase che piaccia maggiormente a Marco», orgoglioso di poter esibire la propria testimonianza oculare per sfatare le leggende più inverosimili circolanti su un qualche argomento. Analogamente, «uno dei fili che tengono assieme tutta l’opera» è la formula “quelli genti pensano”, «non nel senso astratto, filosofico del riflettere sulla vita. Ciò che a Marco interessa è cosa pensino, di quali contenuti si riempia la loro immaginazione, e come tali pensieri si esprimano in gesti, movimenti, parole, costellazioni vitali». Spogliato degli elementi puramente sensazionalistici, infatti, anche l’inverosimile può risultare comprensibile, se si prova a entrare nel modo di guardare dell’altro. E allora vien giustamente da chiedersi, riscrivendo qualche consolidata genealogia, «se l’Umanesimo, che è ancora tutto da venire», al tempo di Marco, non si sia «fatto le ossa anche su questo improvviso dilatarsi di geografia e antropologia». «Come Colombo, nella sua geografia all’inverso, scopre un intero continente, così i nostri viaggiatori duecenteschi circumnavigano l’uomo. Nei costumi, nelle credenze, nelle stranezze, dalle loro peregrinazioni nasce una nuova stagione, in cui l’Europa cristiana si ritrova più piccola e fragile di quanto pensasse. Non è certo la piena consapevolezza dell’altro, ma una bella ipoteca al vecchio “noi” senza confini e senza paragoni, questo sì».
E tuttavia se Marco può tanto è anche perché in Oriente incontra una sorta di omologo speculare nel Khan Qubilai, di cui diventa per un certo tempo come gli occhi e le orecchie aperti sull’immenso territorio che gli è sottomesso. L’intero suo racconto, prima di essere rivolto agli europei, «vive del confronto tra due menti aperte e due curiosità» e non sarebbe stato possibile senza quell’autorevole, primo ascoltatore con gli occhi a mandorla. Mi ripeto per l’ennesima volta: noi Occidentali non ci siamo fatti da soli. E probabilmente, a beneficio di tutti, dovremmo prima o poi cercare di riprendere, con i nostri amici orientali, il gusto di questa «conversazione priva di obblighi, che si può interrompere in qualsiasi momento. E che, invece, non si vorrebbe mai abbandonare, perché diverte, istruisce, stupisce».
(finito il 12 settembre 2020)
Ho parlato di
Marco Polo
Viaggio ai confini del Medioevo
(Mondadori, 2018)
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