Confesso che ho faticato più del solito a tirar giù qualche considerazione su questo libro, perché ogni volta le parole impiegate mi sembravano sempre penosamente fuori luogo e maldestre in considerazione di quanto sta accadendo proprio in questi giorni a Gaza e nei territori occupati, finché mi sono reso conto che probabilmente lo sarebbero comunque state in ogni caso, dato che quanto sta accadendo proprio in questi giorni a Gaza e nei territori occupati vi accade in realtà tutti i giorni, anche quando non ci facciamo caso, da tanto, troppo tempo. C’è una frase riportata in queste pagine che sembra descrivere perfettamente la situazione: posto che «la terra d’Israele è piena di simboli a buon prezzo», ebbene, «guardate il Giordano. Sono migliaia di anni che casca dentro il mar Morto, dove non ci sono pesci né alberi, continua a cascare lì e non ne viene fuori». Con la differenza non da poco che il desolante conflitto di cui siamo testimoni non è dovuto a ragioni ancestrali risalenti all’alba dei tempi, come piacerebbe a tutti quelli che, per giustificare l’esistente e lavarsi la coscienza, proclamano ai quattro venti che nessuna pace sarà mai possibile tra israeliani e palestinesi, bensì a vicende storiche che si possono tranquillamente ricostruire e per le quali, dunque, sebbene non sia facile, si può anche negoziare una soluzione. Lo storico Ahron Bregman (nome inequivocabile), ad esempio, la racconta così, prendendo le mosse dalla Guerra dei Sei giorni: «a posteriori, si può tranquillamente affermare che il grande trionfo militare del 1967, apparso inizialmente come un momento benedetto nella storia di Israele e di fatto degli ebrei, finí per rivelarsi (...) una vittoria maledetta. Dopo essersi appropriato di quelle terre, Israele le sottopose quasi tutte a un governo militare (...) Gli israeliani assicuravano al mondo che, con la loro unica e spaventosa esperienza di che cosa significhi essere perseguitati, lo Stato ebraico avrebbe condotto un’occupazione sinceramente “illuminata” (...). Tuttavia, come è ormai sempre piú chiaro (…), un’occupazione illuminata è una contraddizione in termini (...) e con il passare del tempo l’“occupazione di Israele” si è rivelata pesantissima».
Questo libro di Amos Oz ci riporta indietro di altri vent’anni, ossia ai mesi concitati immediatamente precedenti la fine del mandato britannico e la nascita dello stato di Israele, ma a un certo punto riecheggia, in forma di monito, lo stesso concetto, dal momento che le radici di quanto accade oggi a Gaza e dintorni risalgono almeno a quel periodo: «perchè sei così ansioso che venga la guerra? Ti ho già spiegato più di una volta che la guerra è una cosa terribile anche quando la si vince. Forse riusciamo ancora a evitarla». Certo, non è probabilmente questo il libro più utile per comprendere la storia del conflitto arabo-israeliano. Non è neppure il libro più famoso di Amos Oz, né il più maturo (si tratta, anzi, di un testo relativamente giovanile, tradotto in italiano solo trent’anni dopo la sua pubblicazione originaria, quando nel frattempo Oz era diventato una delle voci più autorevoli della letteratura internazionale). Ora che sto entrando in quella fase della vita in cui si comincia a cabalizzare che gli anni che restano da vivere saranno progressivamente sempre meno di quelli che si è vissuto, e il tempo si fa per questo ancora più prezioso, mi sto impegnando ad ottimizzare le mie letture, selezionando di solito le opere più rappresentative dei singoli scrittori che ancora non conosco, per farmene almeno un’idea generale, casomai non riuscissi poi a leggere altro. Qui, invece, non è andata così e non saprei dire esattamente il perché. Forse mi ha incuriosito e spinto all’acquisto il senso di trepida attesa che la quarta di copertina annunciava come filo conduttore del trittico di racconti di cui si compone il volume. Effettivamente, a distanza di quasi un anno, fatico a ricostruire nel dettaglio la loro trama. Ma molti personaggi e l’atmosfera complessiva diffusa in ogni pagina, quelli mi son rimasti dentro. E mi sono rimasti proprio perché, attraverso gli occhi di un bambino (controfigura dell’autore stesso, che aveva nove anni nel 1948, e che come tutti i bambini di quell’età capisce e non capisce ciò che effettivamente gli sta accadendo intorno), delineano un momento in cui l’esperimento di Israele forse poteva ancora diventare un’altra cosa rispetto a ciò che poi per molti aspetti è diventato.
Nei primi decenni del Novecento sono infatti sciamati in Palestina profughi da ogni angolo del mondo, con il loro carico pesante di storie dolorose e di persecuzioni, ma anche con la speranza di un possibile riscatto. Sono «esuli ebrei» sopravvissuti alla diaspora millenaria, «quel che resta» dei figli di Abramo dopo i ghetti e i pogrom. «Quasi tutti erano sicuri che i tempi cattivi sarebbero passati, che presto sarebbe sorto lo stato ebraico e allora tutto sarebbe cambiato in meglio: quanto a loro, in fatto di sofferenze avevano già dato». Tra questi migranti, proveniente da una Germania in pieno delirio nazista, c’è anche il padre del bambino che narra la prima storia, i cui sogni di rinascita si materializzano anzitutto nella costruzione di un giardino «modesto, ragionevole e oltremodo curato», fatto di «aiuole quadrate o rettangolari fra le montagnole di sassi: isola sperduta di luminosa intelligenza nel cuore di selvatiche distese, steppe, dirupi, venti di scirocco». Sembra di essere catapultati in uno scenario post-apocalittico alla Mad Max, un paesaggio di sabbia e ruderi entro cui provare a delimitare un nuovo Eden coi rimasugli scampati ai disastri della storia. «Adesso è un sobborgo sperduto», vagheggia quest’uomo alla nascita del figlio, rivolgendosi alla moglie: «nel nostro giardino ci sono solo delle piantine. Il sole aggredisce le persiane tutto il giorno. Ma col passare degli anni questi saranno alberi veri e avremo tanta ombra. (…) Quando Hillel sarà grande e noi saremo invecchiati insieme questo sarà diventato un angolo di paradiso. Faremo un pergolato di vite (…). Faranno un centro culturale, qui, asfalteranno la strada, il quartiere sarà collegato alla città, a Gerusalemme ci sarà un governo ebraico con un esercito ebraico (…). Arriveranno immigrati dai quattro angoli del mondo», come annuncia la profezia. Con toni altrettanto ispirati un altro personaggio, proprio verso la fine del libro, immagina a sua volta che «Gerusalemme romperà i suoi argini e diventerà una grande metropoli. I vecchi scenderanno allegramente per le sue strade, alle sue porte non verrà alcun nemico minaccioso. (...). Ci saranno dei magnifici viali. Il tram elettrico collegherà un sobborgo all’altro. Spunteranno castelli e torri. Forse ci metteranno pure un fiume con sopra dei ponti. Una bella città, sarà una città serena». Qui finalmente il lupo dimorerà con l’agnello, il leone e il vitello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.
«Poi tutt’a un tratto si vergognò di quel discorso (…). Una malinconia improvvisa affioro alle sue labbra. (…) “Poesia. Filosofia. Un angolo di paradiso con un pergolato di vite. Ma quando mai?”». C’è purtroppo un vizio di fondo in questo progetto, animato, almeno in parte, da buonissimi sentimenti e legittime aspirazioni – un vizio che non tutti riescono davvero a vedere o non vogliono vedere. Come quello su cui vigila Michele, anche questo sedicente paradiso viene infatti gelosamente cintato e chiuso dall’interno. Al di là della recinzione, si dice, «cominciava la terra di nessuno. C’erano terreni disseminati di rottami, polvere, odore di rovi e di feci ovine, e più avanti il uadi e le tane di sciacalli e volpi». Il problema è che tanto “di nessuno”, a ben vedere, quella terra non lo era affatto. «E laggiù pendii dove formicolavano lucertole scattanti e il serpente e forse di notte anche la iena, e dietro quel uadi c’erano le desertiche alture di calcare, e altri uadi dove arabi avvolte nelle loro tuniche scorrazzavano con le loro mandrie per tutto il giorno». E oltre ancora, «sui pendii e nella piana del Giordano, resti di città bibliche (…). Fra quelle rovine sono sparpagliati gli accampamenti delle tribù beduine, le tende fatte di pelle di capre, i pastori neri armati di coltelli. Giustizia di sangue. Le leggi elementari del deserto: amore e onore e morte. (…) Che tremenda che è (…), questa vicinanza con il deserto». Non più luogo d’elezione in cui sussurra leggero il sospiro dell’Altissimo, ma regione selvaggia abitata – così, sempre, si dice – da subumani pronti a distruggere tutto ciò che di civile si stava faticosamente costruendo al di qua del fossato. Per questo, da questa parte, si comincia a sostenere che i palestinesi «bisogna cacciarli via di qui (…). Cacciare via, respingere, che altro, che se ne vadano nel deserto, che è a quel luogo che appartengono. Qui c’è Gerusalemme (…), qui c’è la Terra d’Israele» (e fa male, fa parecchio male, che proprio lì, proprio a Gerusalemme, capiti ancora che gli altri siano apostrofati come “cani” o “animali”). E per questo stesso motivo, d’altra parte, «sui monti tutt’intorno alla città il nemico aveva piantato fortini di cemento, bunker, batterie di cannoni. E aspettava». Come racconta l’apologo di Salomone, il figlio appartiene alla mamma che non lo vuole dividere in due. L’ansia, la rabbia e il sospetto reciproco vengono progressivamente montati da una sensazione sfibrante di incertezza, destinati ad esplodere non appena gli inglesi se ne saranno andati gettando la spugna con gran dignità. Nessuno è in grado di dire se ci si sta preparando all’inizio di qualcosa di nuovo o a una devastante guerra totale.
In effetti non sembra che ci sia molto margine per l’ottimismo, se perfino uno dei più giovani personaggi qui messi in scena (tralasciando quelli più esaltati) afferma serio serio che «tutto è guerra. É così nella storia, nella Bibbia, in natura e anche nella vita. Anche in amore c’è guerra. E nell’amicizia, perfino». Eppure, in questo scenario di quiete prima della tempesta, il dottor Nussbaum dell’ospedale Hadassah e il dottor Mahdi del consiglio arabo collaborano ogni giorno per risolvere i problemi dell’approvigionamento idrico di Gerusalemme e per debellare le zanzare che infestano i sobborghi della città. E se non sempre si capiscono, tuttavia si considerano reciprocamente carissimi amici e il loro dialogo sofferto è già segno di un’intesa segreta. «Gente eccellente che siete», osserva Mahdi, «una comunità civile e illuminata, come avete fatto a farvi prendere tutti così da un’idea tremenda qual è il sionismo?». E il dottor Nussbaum si sforza di spiegargli: «Anton, ecco, in nome di Dio, fai uno sforzo, solo una volta, prova a metterti nei nostri panni». Cosa che però nessuno riesce per davvero a fare fino in fondo. Ed è paradossale, perché il potenziale cosmopolitico di questa terra, e di Gerusalemme in particolare, emerge dalla polifonia di voci in cui ci ritroviamo immersi sin dalle righe iniziali del testo. Le prime persone che parlano si esprimono «in inglese e in ebraico», poi «un coro di pionieri in camicia celeste interpretò alcuni canti folkloristici», ed erano «canti russi», mentre sul far della sera, «da oriente i rintocchi delle campane si moltiplicavano: campane alte e vaghe, campane ortodosse e campane anglicane, campane greche, abissine, romane, armene». E poi, appena fuori, «minareti in cima alle colline», da cui si può sentire l’appello quotidiano alla preghiera. Non sono bastate queste suggestive compresenze per evitare che Gerusalemme diventasse invece il luogo simbolo della divisione. Il “monte del cattivo consiglio” cui allude il titolo del libro è appunto una collina della città vecchia su cui secondo una leggenda sarebbe sorta la casa di Caifa, là dove Giuda avrebbe venduto Gesù ai capi del Sinedrio; divenuto sede, a suo tempo, del governatorato britannico, ora ospita un complesso di uffici delle Nazioni Unite, a ridosso di quello che dovrebbe essere il confine tra i due stati. Su questa rupe dal nome inquietante continua per ora a consumarsi il tradimento dello straordinario canto di Isaia che annuncia nel tempo messianico l’ascesa di tutti i popoli verso il monte del Signore, segno di una coesistenza pacifica ancorché non omologata: l’unico scenario che la parola “sionismo” dovrebbe evocare.
(finito il 21 giugno 2020)
Ho parlato di
Il Monte del Cattivo Consiglio
(Feltrinelli, 2012)
232 pp. | 9 €
(ed. or.: The Hill of Evil Councel, 1976)