Per continuare in un certo senso il discorso, evidentemente anche della guerra di Spagna si può dire che è ben lontana dall’aver esaurito tutto quello che aveva da dirci, se un libro come questo, anziché retrocedere a semplice documento storico, conserva inalterata, a distanza di tanti anni, la sua urticante abrasività originale. Al suo apparire fu apprezzato moltissimo da Simone Weil, che vi ritrovò una profonda corrispondenza con quanto lei stessa aveva avuto modo di toccare con mano nella sua breve e deludente esperienza di combattente, nonostante l’autore, un cattolico conservatore militante, fosse ideologicamente ai suoi antipodi (ma probabilmente fu proprio tale paradosso a colpirla). Basti pensare che, quando Franco fece la sua mossa, Bernanos, allora residente a Maiorca, salutò con favore il tentativo di rovesciare quella repubblica progressista e anticlericale che lui, monarchico cantore di curati di campagna, certo non amava. Del resto, in quello stesso giro di anni, non pochi suoi connazionali con analogo pedigree, sedotti dalle parate di Norimberga, avevano ormai imparato a strozzare in gola tutto il violentissimo revanscismo antitedesco assorbito in gioventù e stavano cominciando a gridare con sempre maggior convinzione “meglio nazisti che rossi, meglio Hitler che Blum”.
«Non avevo dunque alcuna obiezione di principio da sollevare contro un colpo di stato falangista o carlista. Credevo e credo di conoscere la parte legittima, la parte esemplare delle rivoluzioni fascista, hitleriana o anche stalinista. Hitler, Stalin e Mussolini hanno perfettamente capito che solo la dittatura avrebbe stroncato l’avarizia delle classi borghesi». Con la borghesia benpensante Bernanos ha infatti un conto aperto: come molti altri detesta di cuore la modernità che essa ha prodotto, con la sua ottusa fiducia nel progresso, la sua imbecillità diffusa (rischia di valere per tutti quel che a un certo punto dice, in modo folgorante, del povero, ovvero che «oggi non è più analfabeta: è rimasto ignorante»), il dominio della mediocrità conformista, l’appiattimento su valori puramente terreni, il considerare come totem intoccabile una democrazia che, nonostante il nome, nei fatti è solo uno scontro tra gruppi ristretti di potere, dal momento che «una vera democrazia del popolo è inconcepibile», a maggior ragione da quando la massificazione novecentesca ha fatto regredire il popolo, da spontaneo depositario di una saggezza antica e piena di buon senso, a massa anonima e facilmente manovrabile di individui intercambiabili. Il fatto stesso che una tale società abbia periodicamente bisogno di una guerra mondiale per riassestarsi è un segno inequivocabile che si tratta di un regime insostenibile e del tutto sbagliato. Probabilmente, nei suoi sogni, Bernanos vagheggia un ordinamento in cui cavalieri, sacerdoti e contadini cooperino armonicamente, stando ciascuno al proprio posto, come le persone della Trinità divina – e se ci fosse da impugnare la spada per rendere concreta questa possibilità sarebbe il primo, così dice, a gettarsi nella mischia. Ma sebbene per un attimo ci abbia creduto anche lui, la piega che prendono gli eventi non appena le Baleari passano sotto il controllo franchista gli mostra tutta un’altra storia, assai più meschina. Per cui decide di prendere quell’altra spada che gli è congeniale – la penna – e affonda questa durissima requisitoria, indirizzandola a quegli uomini d’ordine la cui angoscia per il tempo presente annebbia a tal punto la mente da impedire loro di capire che quella in cui si sono così gioiosamente arruolati non è affatto la buona battaglia, è anzi tutt’altro che una buona battaglia. «Non avevo nulla da dire alla gente di sinistra. Era a quelli di destra che desideravo parlare», e per farlo riversa su di loro quel linguaggio apocalittico che a loro piace così tanto.
Ciò che lo scrittore francese vede in quel «carnaio» che è diventata la Spagna, e che minaccia di essere l’«immagine di quel che sarà domani il mondo», non è infatti una guerra di principi buoni contro principi cattivi, e men meno che la crociata contro il Male benedetta dalla conferenza episcopale spagnola. Intendiamoci, «non è l’uso della forza che mi sembra condannabile, ma la sua mistica; la religione della forza messa al servizio dello stato totalitario, della dittatura della Salute Pubblica, considerata non come un mezzo ma come un fine». Certo, da una parte ci sono i rossi, con cui Bernanos non vuole avere nulla a che spartire. Ma dall’altra? Siete sicuri, dice ai suoi, che sotto le insegne del fascismo dilagante ci siano davvero i valori che pensate di difendere? O non siamo in presenza di un furto in piena regola, fatto sotto il vostro stesso naso, delle «parole magiche: giustizia, onore, patria» - e, peggio ancora, dell’appropriazione indebita del cristianesimo stesso e dei suoi simboli - allo scopo di dare una parvenza di presentabilità a quel mostro totalitario che è solo l’ennesima diabolica metamorfosi del moderno materialismo ateo e pagano? «Se c’è uno spettacolo da far vomitare, è quello dei monarchici francesi che mendicano i servizi della democrazia nella sua forma più bassa, e tuttavia nuova». Ma poiché nei vecchi principi ormai ci credono in pochi, alcuni «disgraziati» hanno pensato appunto che per difendere i sani principi di una volta occorresse sovraeccitare i «nervi a pezzi» degli «uomini medi» con lo spauracchio della rivoluzione sociale, senza rendersi conto di quale «spaventoso, demoniaco potere» sarebbero andati a evocare, giacché «è un grosso inganno pensare che l’uomo medio sia suscettibile solo di passioni mediocri»: tutt’altro, «con il sedere in fiamme, correrà a rifugiarsi in una qualunque ideologia da cui un tempo sarebbe rifuggito con orrore». Così si è firmata una cambiale in bianco a Hitler e Mussolini, ma quello che viene presentato come il nuovo esercito di Cristo è solo un aggregato di impauriti piccoloborghesi a cui è stata data una divisa e un buon motivo per sgravarsi la coscienza di ogni crimine, in virtù di un sedicente fine superiore. In questo modo, però, nazionalisti e clericali «compromettono grandemente la causa che vogliono servire, perché coinvolgono, a favore di alleati i quali nient’altro hanno da perdere che se stessi, preziose tradizioni, e persino il principio basilare dell’ordine, non potendo aspettarsi da loro che una resistenza cieca e astiosa contro ogni cambiamento». Perciò «non venitemi a parlare di crociata (…) giacché è mille volte meglio crepare che vivere nel mondo che state per costruire». Per quanto orrenda possa essere la società moderna, un mondo di picchiatori e gerarchetti è infinitamente peggio. Che abbaglio confondere la croce uncinata con la croce di Cristo!
Chi, all’interno della Chiesa, avalla tutto ciò come ultimo argine contro un mondo che non crede più in Dio non capisce che «se Dio si ritira dal mondo, vuol dire che si ritira innanzi tutto da noi cristiani». «Potete ridere, cari fratelli, non sono i comunisti né i sacrileghi che hanno messo in croce il Signore», ma quelli che rientrano nella «categoria dei devoti». Un cristiano non può non provare scandalo per i prelati che, mentre nelle strade di Maiorca scorre il sangue di chiunque sia solo sospettato di simpatia per il nemico, non sanno far altro che recriminare dal pulpito perché solo pochi fedeli hanno partecipato alla messa di Pasqua, per il doppiopesismo che tutela sempre «il diritto di proprietà, al punto che è possibile difendere a fucilate la propria casa, anche se uno ne ha parecchie, mentre con gli stessi mezzi non si può difendere il proprio salario, anche se non si possiede altro», per la disinvoltura con cui, se a ricchi e malvagi si dà giusto un buffetto con «le vostre inoffensive lettere pastorali di Quaresima», non ci si fa scrupoli di benedire le mitraglie con cui saranno fucilati i poveri quando si ribellano – poveri che, quand’anche malvagi, non sono certo da considerare responsabili della crisi economica che li divora. Quand’è così, «si capisce benissimo come la povera gente diventi comunista». Saranno proprio costoro, anche se oggi vengono buttati fuori dalla comunità, a giudicare un giorno i loro attuali carnefici. Insomma, il terrore di sparire dal mondo – che è poi un’attestazione di totale sfiducia in Dio – e il desiderio di tutelare la propria rendita di posizione spinge la Chiesa in un abbraccio mortale con chi ha tutto l’interesse a concederle l’appalto sull’aldilà, purché l’aldiqua resti saldamente nelle sue mani – e questo è inaccettabile per un’autentica coscienza cristiana.
Spesso l’affermazione che la giustizia non è di questo mondo ha giustificato un sostegno peloso ai regimi più brutali: se siamo in una valle di lacrime, si dice, non possiamo pensare di eliminare l’oppressione e l’ingiustizia sociale. Con la stessa mano di carte, Bernanos cambia gioco: proprio perché «la società umana è piena di contraddizioni che non saranno mai risolte», nessun conflitto può mai essere presentato come “totale”, definitivo o risolutorio, come uno scontro di civiltà, un armageddon, una lotta per la vita o la morte, anche perché, quando si accetta questa premessa, la conseguenza immediata è la pratica dello sterminio, resa ancora più capillare dalla meccanizzazione della guerra moderna. «Gli uomini hanno già troppi motivi per rompersi la testa» senza dovergliene regalare altri. Con tutto ciò, conclude Bernanos, «io credo alla guerra santa, io la credo inevitabilmente, credo inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini liberi. L’espressione “guerra santa” non mi pare giusta, però, che a metà: i veri santi fanno raramente la guerra, e in quanto agli altri – voglio dire quelli che si vantano di esserlo – Dio mi preservi dal giocare la mia ultima carta in loro compagnia. Io credo alla guerra degli uomini liberi, alla guerra degli uomini di buona volontà. (…) Intendo, per uomini liberi, gli individui che vorrebbero soltanto vivere e morire in pace, ma che rimproverano alla vostra mastodontica civiltà di bluffare sulla vita e sulla morte. (…) Potete anche non prendere sul serio questi avversari sparsi qua e là per il mndo, secondo la volontà del buon Dio; non hanno neppure l’aria, a prima vista, di radunarsi, perché non appartengono tutti alla stessa classe, agli stessi partiti, e non fanno tutti la comunione. Uomini di buona volontà! Perché non miti, pacifici? Ebbene, sì, mi dispiace per voi che siano proprio i miti, i pacifici, a cui non va a genio il vostro benedetto mondo». Ne avremmo dannatamente bisogno di bigotti così, per i quali il mondo moderno sarà pure un mondo al contrario, ma che quando vedono qual è veramente la compagnia in cui sono finiti, e anziché trovarvi, come magari credono, Isacco di Ninive, Dante o Francesco d'ASsisi, diradata la polvere, riconoscono gente come Feltri, Briatore o quella scriteriata con la maglia di Auschwitzland, abbiano la dignità di dire «ebbene, morire per morire, non credo certo che moriremo nelle vostre file».
(finito il 23 ottobre 2021)
Ho parlato di
I grandi cimiteri sotto la luna
(SE 2017)
trad. di G. Spagnoletti
234 pp. | 25 €
(ed. or.: Les grands cimetières sous la lune, 1938)