Ho già scritto in una puntata precedente che insegnare ti permette di ritornare sui libri letti al liceo, nel momento in cui li proponi ai tuoi studenti. Ma questo mestiere ti offre anche una seconda occasione per riallacciare i rapporti con testi cui hai dato buca al primo appuntamento e che, senza lo stimolo scolastico, magari considereresti persi per sempre. Certo, leggere il classico di Remarque a vent’anni deve avere un sapore molto particolare – perché quella è l’età del protagonista e dei suoi amici mandati a combattere, per conto degli adulti, una delle più massacranti crociate dei bambini di cui la storia conservi memoria. «Non avevamo ancora messo radici; la guerra, come un’inondazione ci ha spazzati via». «Che faranno i nostri padri, quando un giorno sorgeremo davanti a loro a chieder conto?». «Non potremo mai più riprendere il nostro equilibrio. E neppure ci potranno capire». É del tutto accidentale che i giovani in questione si ritrovino dalla parte degli sconfitti; gli stessi discorsi potrebbero farli i cosiddetti vincitori. Non cambia nulla: nessuno ha vinto quella guerra, che non ha niente di epico. «Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo, l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro». Non si dovrebbe permettere a nessuno di raccontarla diversamente.
Però anche leggere questo romanzo da professore garantisce un’illuminazione, e ancor più scriverne nei giorni in cui assisti agli orali della maturità e ti vedi passare davanti questi ragazzetti che stanno per affrontare davvero il mondo dopo che per un piccolo, ma fondamentale, tratto della loro vita, ti hanno avuto come punto di riferimento. Perché sin dal primo capitolo si denuncia con molta chiarezza che ad armare, prima che le braccia, lo spirito di questi ragazzi arruolatisi come volontari sono stati, coi loro discorsi patriottici ed infervorati, i miei colleghi di un secolo fa. «Essi dovevano essere per noi diciottenni introduttori e guide all’età virile, condurci al mondo del lavoro, al dovere, alla cultura e al progresso; insomma all’avvenire. Noi li prendevamo in giro e talvolta facevamo loro dei piccoli scherzi, ma in fondo credevamo a ciò che dicevano. (…) Ma il primo morto che vedemmo mandò in frantumi questa convinzione. Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro (…). Il primo fuoco tambureggiante ci rivelò il nostro errore, e dietro ad esso crollò la concezione del mondo che ci avevano insegnata». Di una classe di venti, sette sono morti, quattro feriti, uno al manicomio. La Peste Nera fece meno danni di certi insegnanti.
Non sono ancora così vecchio perché abbia senso parlare di un passaggio di consegne generazionale - e tuttavia queste parole mi suscitano un brivido di responsabilità. Davanti a noi, forse, non si sta preparando una guerra mondiale (ma chi può dirlo? I sonnambuli del 1914 si trovarono in trincea senza neanche accorgersene e i miei ex studenti che oggi frequentano Scienze Internazionali raccolgono voci allarmanti a lezione). Ci circonda comunque una società complessa, questo sì, irretita, violenta e disumana, tanto più disumana in quanto l’orrore è continuamente banalizzato e il dolore non suscita pietà, ma accanimento e immotivato rancore: la voce del sangue di nostro fratello grida a Dio dal suolo e osceni pennivendoli vorrebbero coprirla accusando gli oppressi di essere oppressi e di morire per gioco. É in questa società che stiamo introducendo i nostri allievi, dopo aver parlato loro per ore di Socrate o di Kant. E il timore è che anche loro possano chiedersi, come i loro coetanei di allora, «come si fa a prender sul serio quella roba, dopo che si è stati qui fuori?».
Dieci settimane di vita militare – oggi potrebbero essere di vita lavorativa, di vita adulta, di vita vera - trasformano più di dieci anni di scuola. «Dopo tre settimane riuscivamo già a concepire come un portalettere, divenuto per caso un superiore gallonato, potesse esercitare su di noi un potere maggiore di quello che prima non avessero i nostri genitori, i nostri educatori e tutti gli spiriti magni della civiltà – da Platone a Goethe – messi insieme». Perché premiare l’impegno e la serietà, a scuola, se l’ignorante diventa capoufficio o il ciarlatano ministro? L’addestramento rende duri e spietati, ma «se ci avessero mandato in trincea senza quella preparazione, i più sarebbero impazziti». Non staremmo raccontando loro delle balle? Non li staremo mandando come agnelli al macello? «Che cosa gli serve ora, di esser stato così bravo in matematica, a scuola?».
Per Remarque non sembra esserci conciliazione possibile. Chi attraversa la prima linea è destinato ad rimanere per sempre estraneo al resto del mondo, morto dentro se non fuori. Quando torna a casa in licenza, il protagonista non si riconosce più nei suoi compaesani: «il loro mondo mi sembra così angusto, mi pare impossibile che possa riempire una vita: mi sembra che ci si dovrebbe buttar sopra ogni cosa. Come mai tutto ciò può esistere, mentre laggiù le schegge sibilano sui camminamenti e i razzi solcano il cielo, e i feriti sono portati via sui teli da tenda e i compagni si rannicchiano nelle trincee!». Ma l’estraneità – aggiungo io – non deve produrre necessariamente inettitudine: può anche ispirare rivolta. Se saremo riusciti a tenere viva la fiammella che riscalda il cuore dei nostri allievi e che permette loro di riconoscere lo squallore che infetta il nostro tempo, allora può essere che saremo serviti a qualcosa e forse si vedrà finalmente qualcosa di nuovo sul fronte occidentale.
(finito il 29 gennaio 2019)
Ho parlato di
Ho parlato di
Erich Maria Remarque
Niente di nuovo sul fronte occidentale
(Mondadori, 2008)
trad. di S. Jacini
225 pp. | (f.c.)
(ed. or.: Im Western nichts Neues, 1929)