sabato 2 novembre 2024

Sulla guerra

Di guerra si può parlare in altrettanti modi quanti sono quelli attraverso cui la si può fare (anzi, il solo parlarne è spesso già esso stesso un modo subdolo per praticarla), ma pur provando ammirazione per la lucidità di quanti si ostinano a seguire con rigore il filo del ragionamento anche di fronte a massacri che parrebbero sconfessare del tutto l’autoproclamato carattere logico della nostra specie, ne provo ancor di più per chi nella guerra ci si è ritrovato immerso in prima persona, senza necessariamente averla cercata, e dalla guerra è stato costretto a rivedere giorno per giorno le proprie posizioni, impegnandosi in un corpo a corpo contro se stesso, pagato in termini di compromessi sofferti e oscillazioni, prima ancora che contro un nemico esterno ben riconoscibile nella sua divisa. A tale gruppo appartiene anche Simone Weil, le cui riflessione disperse sul tema, spesso rimaste allo stato progettuale - testimonianza di una ricerca inquieta e mai appagata -, sono state raccolte in questo intenso volume che, sebbene privo di sistematicità, tutto fa fuorché eludere i problemi e accontentarsi di soluzioni semplicistiche. É per questo che mi è sembrato opportuno rivolgermi anzitutto a lei per risciacquare i miei pensieri all’inizio di questo desolante e cruento ultimo biennio.

Va subito detto che Simone Weil è una pensatrice che non fa sconti e che non trovi mai dove t’aspetteresti che fosse. All’inizio degli anni ‘30, quando, da giovane militante di sinistra, te la immagineresti pronta a innalzare le barricate pur di fermare la marea montante del nazifascismo in Europa, invita invece alla cautela: avendo capito precocemente che cos’era diventata l’Unione Sovietica, e come lo era diventata, memore di quanto già era accaduto ai tempi di Robespierre, dichiara infatti esplicitamente che proprio chi desidera mantenere aperta la possibilità di una autentica rivoluzione deve resistere alla tentazione di intraprendere una qualsivoglia guerra, persino quando l’avversario è indifendibile e criminale. «La guerra rivoluzionaria», infatti, «è la tomba della rivoluzione». Qualunque sia l’aspetto sotto cui si presenta – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato – il mostruoso Leviatano dello Stato moderno, con i suoi giganteschi apparati burocratici e polizieschi, non vede infatti l’ora che scoppi un nuovo conflitto per schiacciare con ancor maggior forza i suoi cittadini, sottraendo loro ogni spazio di libertà in nome dell’unico obiettivo considerato accettabile: la vittoria. In questo senso, la guerra non è dunque l’anomalia che turba la quiete sociale, ma l’occasione che smaschera il vero volto di ogni sistema di potere, «l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione»: «il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità personale di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità nazionale, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza». Non c’è via di scampo: quand’anche tu combattessi in nome della libertà e dell’emancipazione, dei più alti valori che l’uomo possa concepire, nel momento in cui ti proponi di difenderli manu militari, quegli stessi valori saranno proprio la prima cosa che andrà immediatamente perduta.

Eppure, nonostante queste premesse, quando poi in Spagna una guerra scoppia davvero, ritroviamo Weil arruolata fra i volontari delle brigate internazionali, perché – come dice con una frase stupenda che non mi stancherò mai di citare – «non mi piace la guerra; ma, nella guerra, ciò che mi ha sempre fatto più orrore è la condizione di chi si trova nella retrovia». Tentennare, non si può; pensare che non ci riguardi, che sia un problema d’altri, era un’ingenuità allora come lo è ancora, se non di più, oggi. Del resto, se c’è mai stata una guerra giusta e onorevole, dove i buoni e i cattivi sono chiaramente distinguibili, quella sembra proprio essere la guerra di Spagna. «Non si dirà che qualcosa al mondo ci sia più caro della vita del popolo spagnolo. Se noi invece li abbandoniamo, se li lasciamo massacrare, e poi facciamo lo stesso la guerra per un altro motivo, che cosa potrà giustificarci ai nostri propri occhi?». Con che coraggio, infatti, potremmo mai dichiarare “giusta” una qualsiasi altra guerra, se rinunciamo a combattere questa? Perchè mai dovremo morire per Danzica, se abbiamo rinunciato a morire per Madrid? Bastano però poche settimane di partecipazione diretta al conflitto per disilluderla: quella che si consuma oltre i Pirenei non è la sospirata ribellione di operai e contadini contro i loro storici oppressori, ma uno scontro per interposta persona tra Russia, Germania e Italia pieno di episodi ignominiosi su entrambi i fronti – perché poi la guerra è la guerra, e anche gli uomini più ammirevoli finiscono per farsi trascinare dalla violenza e non sanno più tremare di sacro rispetto di fronte alla morte di un altro uomo, se combatte sotto la bandiera sbagliata. Ma così anche l’antifascismo perde completamente di senso, una volta ridotto alla formula «piuttosto che il fascismo tutto, anche un fascismo travestito da comunismo».

Lo scoglio su cui si frantuma ogni idealità è che nessuno, nell’Europa del tempo, può dire di avere la coscienza pulita (e le cose non sono troppo diverse un secolo dopo). Il nazismo stesso non è che la versione, deformata quanto si vuole ma comunque ben riconoscibile a chi ha occhi per vedere, di un delirio di onnipotenza assecondato da tutti gli Stati moderni e pienamente dispiegatosi nelle dominazioni imperialistiche («la Germania è per tutti noi, gente del XX secolo, uno specchio. Ciò che noi scorgiamo là dentro di così odioso, sono i nostri stessi lineamenti, solo accentuati», anche perché una civiltà che ha sempre glorificato le grandi imprese di Roma, soprassedendo sui costi umani che esse hanno comportato, non può che approdare a un esito di questo tipo, salvo esserne terrorizzata quando ci si scopre all’improvviso dalla parte delle vittime). Lo scriveva già Kant: la libertà o è per tutti o non è vera libertà – e dopo le porcherie compiute anche solo nel 1914 e nel 1919, pretendere di rappresentare il diritto e la civiltà, la giustizia e la legge morale appare nient’altro che una «sgradevole ipocrisia» buona giusto per alimentare la grancassa propagandistica. Cos’hanno fatto la Francia e l’Inghilterra per i popoli del mondo per meritarsi che essi si battano fino alla morte affinché non vengano divorate dalle armate tedesche? Si sarebbe forse potuto cogliere una lezione dalla Grande Guerra e intraprendere volontariamente una strada di ridimensionamento, ma ormai è troppo tardi. Ora non si può far altro che prendere tempo, prolungare in modo indefinito la condizione di instabilità, navigare a vista rinunciando a qualsiasi principio in nome della «politica del giorno per giorno», aspettando che il regime nazista imploda da sé per l’impossibilità di mantenere in stato di perenne tensione un intero popolo oltre un certo limite di anni, piuttosto che dare a un «giocatore nato» come Hitler proprio quella guerra che è lui stesso il primo a volere per poter «mantenere alla temperatura del ferro incandescente» l’eccitazione dei suoi concittadini e continuare così a cavalcare l’onda lunga del suo successo. É un percorso rischiosissimo, ma lo è ancor di più aprire le ostilità e spalancare la porta alla possibilità che quel po’ di buoni frutti che la cultura occidentale ha comunque saputo coltivare nel corso della sua storia vengano totalmente divelti dalle croci uncinate.

«Questo pensiero non deve togliere nulla all’energia della lotta; al contrario» - ma questa lotta va bene indirizzata e – soprattutto – deve servirsi di strumenti adeguati. «Non è sufficiente, per lottare bene, difendere un’assenza di tirannia»; né ci si può accontentare di un ritorno allo status quo ante, o, peggio ancora, della sottomissione a un nuovo dominatore che ricorre abilmente alla retorica della democrazia per instaurare semplicemente il proprio potere sul mondo («se saremo liberati soltanto dal denaro e dalle fabbriche degli Stati Uniti, ricadremo, in una maniera o nell’altra, in un’altra servitù, uguale a quella che subiamo»). La rivelazione che la guerra cominciata con l’invasione tedesca della Polonia si manifesta a Simone Weil è che tale guerra avrà davvero un senso se e solo se verrà vissuta come un’occasione di rigenerazione e di «guarigione». Qui la riflessione politica si tinge quasi di profezia. «Hitler gioca per il male; la sua materia è la massa, la pasta. Noi giochiamo per il bene, la nostra materia è il lievito. I procedimenti devono differire di conseguenza». Detto altrimenti, non ci si può opporre al malvagio usando le sue stesse armi, attraverso un’azione uguale e contraria, solo più forte, perché in quel caso il malvagio avrebbe già vinto, imponendoci la sua stessa logica. Quel che i moderni stentano a capire è che si dà un’altra strada oltre alla resa. Si tratta, cioè, di porre al centro della vita di un popolo come di una singola persona quell’infinitamente piccolo per cui la tradizione cristiana ha impiegato le immagini del granello di senape, della perla nel campo, del lievito nella pasta o del sale nel cibo e che per Simone Weil altro non è che Dio stesso, ovvero la microscopica particella capace di incunearsi fra gli ingranaggi messi in moto dalle leggi brute della materia e farli esplodere, con la forza di un vero miracolo («ma la vita umana è fatta di miracoli»). Questa lotta è diversa dalla guerra (come diversa sarà la rivolta dalla rivoluzione per Camus, che fu tra i primi a riconoscere la grandezza della Weil). E lo è, anzitutto, perché aborrisce le astrazioni e i termini assoluti, parole vuote che servono solo a surriscaldare gli animi e a impedire di trovare soluzioni che invece sarebbero alla portata se si accetta di porsi sul piano della mediazione, nella consapevolezza che dittatura e democrazia non si danno mai allo stato puro, ma coesistono sempre in quantità diverse entro ogni regime, e che scopo della politica è appunto quello di servirsi degli spazi di libertà concessi per attaccare, di volta in volta, i grumi di oppressione ancora esistenti. Si renderebbe un servizio all’umanità, scrive Weil, se si restituisse alle menti «il buon uso di locuzioni del tipo nella misura in cui, per quanto, a condizione che, in rapporto a». Solo così, resistendo alle sirene dell’imminente apocalisse che generano un perdurante stato d’ansia e d’eccezione, si possono mettere nel mirino vittorie possibili e dare una chance al futuro. E con sorpresa finisci per scoprire che il vero radicale, in fondo, è sempre stato il riformista.

(finito il 21 aprile 2022)

Ho parlato di


Simone Weil
Sulla guerra. Scritti 1933-1943
(Rcs 2022)

trad. di D. Zazzi

collana "Filosofi del Novecento" #8

(ed. or.: testi tratti da Écrits des Londres e Écrits historiques et politiques, 1957 e 1960)

domenica 6 ottobre 2024

A margine dei meridiani

Dopotutto, con le migliaia di pagine che ha scritto, era davvero solo questione di tempo prima che mi reimbattessi di nuovo in Simenon – ma se la prima volta, tantissimi anni fa, fu per assecondare una mia curiosità personale evidentemente non rimasta troppo soddisfatta, se poi ne è seguito un così prolungato distacco, devo invece il possesso di questo libro alla porzione di mappa che, violando la tradizionale monocromia pastello delle copertine Adelphi e sposandosi con un meraviglioso titolo, ha prontamente evocato in mia moglie, quando l’ha scelto per regalarmelo, le ossessioni cartografiche a cui ormai l’ho abituata. A scanso di equivoci, va detto che qui Simenon non indossa il suo abito più noto di giallista, bensì quello di giornalista, inviato nientemeno che agli antipodi per spedire da laggiù quelle che egli stesso definisce come delle «semplici cartoline (…) senza pretese» - e sono in effetti brevi reportages, cronachette, ritratti di indigeni e altri singolari viaggiatori raccolti con la stessa curiosità con cui Darwin, un secolo prima, aveva raccolto più o meno da quelle stesse parti ossa d’armadillo e fringuelli – con cui fissare nella memoria spunti che avrebbero potuto eventualmente stimolare in seguito l’ispirazione letteraria e nel frattempo divertire i lettori dei giornali francesi, proiettandoli nel giro di poche battute in quei vastissimi spazi oceanici e polinesiani già percorsi dagli avventurieri di Stevenson e di Conrad, dove la vita scorre a tutt’altra velocità e nessuno sembra seriamente interessarsi ai prodromi sempre più minacciosi di una guerra incombente e che pure sarebbe poi stata definita “mondiale” (sono tutti testi risalenti agli anni ‘30).

Non si tratta però di puro escapismo, giacché una qualche morale, al fondo, la si trova. «Per me, vedete, il giro del mondo non è un viaggio nello spazio. Lo spazio, i fiori di loto, i banani, i coccodrilli, le latitudini e le longitudini, tutto questo non conta! Andando in giro in questo modo, si fa invece, senza volerlo, un terribile, spossante, deprimente viaggio nel tempo. In Sudamerica ho visto bestiacce terrificanti come l’Apocalisse, che vi riportano ai tempi del diluvio universale. (…) Ma non importa! Vengo al punto! Ho visto degli uomini! Tutti gli uomini da Adamo fino ai giorni nostri. E vi assicuro che è questa la cosa triste! È questa la cosa che butta giù! Forse adesso capite perché non leggo mai i telegrammi in cui si parla del signor Flandin o del signor Hitler. Gli uomini che ho visto erano uomini veri, uomini sanguigni, che combattono, che crepano senza ragione e che… (…) Noi invece ce ne andiamo a spasso per il mondo con i nostri bei completi, i cachi, i coltellini, i giornali e la radio. (…) Facciamo finta di crederci i più forti, i più furbi. (…) Ci occupiamo di politica, ma l’avrete letto, l’altro giorno, che la spagnola ha causato non so quanti morti più della guerra». Ci sono, insomma, molte più cose anche solo in terra di quante ne possa sognare la nostra fantasia euroumanisticocentrica. E se ne può avere la controprova anche senza andare necessariamente così lontano, sebbene in terre forse ancor più difficili da raggiungere, come attesta il primo pezzo di questa antologia, resoconto di un viaggio in Lapponia durante l’inverno del ‘33: qui, nell’«immensa notte del Nord» si prova una «solitudine fredda. È un mondo estraneo al nostro, un mondo preistorico», dove – chioso io – si può essere travolti dalla sensazione che, nonostante la sua maggiore ospitalità, anche il resto del mondo non sia stato fatto apposta per noi.

Chi sembra aver capito tutto sono proprio gli abitanti di Tahiti, i quali vivono come se non fossero mai usciti dall’Eden: o fanno l’amore, scrive Simenon, o non fanno niente. La loro «occupazione principale è starsene seduti sulla soglia di casa, a gambe larghe, e guardare la gente che passa. (…) Se ne infischiano di tutto e probabilmente anche di voi». Era almeno dai tempi di Gauguin che questa ostentata inerzia, unita alla loro disinvoltura sessuale, continuava a sedurre e però anche a inquietare terribilmente gli occidentali approdati su quelle coste, che nei nativi finivano per vedere se stessi come attraverso uno specchio e per enigmi. E non furono così pochi quelli che, attratti da tali sirene primordiali, decisero sul serio di gettarsi dal treno in corsa della civiltà moderna per immergersi in quella che immaginavano sarebbe potuta essere una sorta di utopia naturistica e libertaria all’altro capo del mondo. Nel più romanzesco contributo della raccolta, Simenon prova ad esempio a ricostruire la misteriosa e tragica vicenda di una squinternata colonia stabilitasi sull’isola di Floreana, alle Galapagos, e composta da improbabili personaggi che sembrano usciti da un libro di Vonnegut, tra cui una sedicente baronessa coi suoi due amanti e un chirurgo tedesco sostenitore di teorie mediche alternative a quelle di scuola. La storia finì malissimo, con morti, gente sparita nel nulla e quel tanto di torbido in grado di generare una certa risonanza sulla stampa europea dell’epoca. Simenon osserva che «da romanziere, la storia delle Galapagos, non l’avrei inventata, per paura di far sorridere i miei lettori»; poi, però, per quanto metta le mani avanti sostenendo di non voler fare «il Maigret della situazione», abbozza, forse per esigenze di contratto, una sua possibile versione dei fatti, quella che gli sembra più plausibile e che avrebbe potuto tranquillamente costituire la spina dorsale di un possibile racconto.

Nella maggior parte dei casi abbiamo però a che fare con brevi aneddoti o al massimo bozzetti, la materia ancora grezza nella quale lo scrittore di razza sa però fiutare i vissuti cui saprà eventualmente dare maggior respiro quando se ne presenterà l’occasione. Lungo queste rotte remote si muovono infatti uomini e donne così pittoreschi da essere già quasi dei prototipi di personaggi (anche se la cosa più sorprendente, a lungo andare, è che tutte queste diventano facce note, profili riconoscibili), che si tratti di trafficanti di quart’ordine, «miliardari blasé» con i loro yacht di lusso, pacchianissimi turisti yankee o – fenomeno, dati i tempi, relativamente nuovo – intere troupe cinematografiche impegnate, non si sa con quanta consapevolezza, a rappresentare l’esotico nel modo in cui ci si è convinti che l’esotico debba essere rappresentato secondo i parametri stabiliti a Hollywood, ovvero falsificando e travisando sistematicamente la realtà: «sono pressoché dei crimini, dei crimini contro la verità e persino contro la bellezza!», sbotta Simenon, che soggiorna a Tahiti quando è ancora fresco il ricordo della complicata produzione del Tabù di Friedrich Wilhelm Murnau. E non per nulla è proprio il caldo languore di Tahiti a costituire, pare, la sola eccezione alla regola che egli ha infine tratto dal suo girovagare: «viaggiare significa sempre rimanere scottati; si distruggono le proprie illusioni. Senza esagerare, forse potremmo dire che si viaggia per compilare l’elenco dei paesi in cui non si avrà più voglia di mettere piede».

Anch’io in effetti conservo nel cuore un luogo che sembra uscito proprio da uno di questi diari e dove per un verso tornerei domani mattina, ma che d’altra parte non so se vorrei veramente rivedere, per non intaccare l’immagine magica che di esso mi si è sedimentata nella memoria: intendo dire Aguas Calientes, intricatissima cittadina sorta per ragioni turistiche alle pendici di Machu Picchu, in mezzo alla giungla, dove si arriva solo in treno o in battello, aggirandomi tra i cui mercatini, per l’unica volta forse nella mia vita, ho veramente avuto la netta impressione di essere finito dentro una storia di spie. E anche se Simenon confessa di non amare molto quel genere di intrecci, non si prova forse un inevitabile moto di empatia quando, a proposito di Panama e di altri analoghi «crocevia del mondo», constatando che «non conservano a lungo la loro innocenza», sembra rimpiangere l’epoca in cui luoghi come quelli erano solo lo scenario di epici racconti d’evasione (o almeno tali sembravano) e non lo sfondo delle cronache dei reporter di guerra?

(finito il 13 aprile 2022)

Ho parlato di


Georges Simenon
A margine dei meridiani
(Adelphi 2021)

trad. di G. Girimonti Greco e F. Scala

223 pp. | 16 €

mercoledì 4 settembre 2024

Hitler

Ancora un libro su Hitler? E perché, con tutti quelli che ci sono, leggere oggi proprio questo, che non contiene nuovi documenti e non è neppure il testo di riferimento consigliato dalla comunità scientifica, ma semplicemente il frutto di un confronto fra due storici – o, come dicono loro, di «un’evasione» rispetto alle rispettive traiettorie di ricerca più che una ricostruzione biografica minuto per minuto della vita del Fuhrer? Se l’ho cominciato con la speranza, rivelatasi poi fondata, di trovarvi una sintesi convincente ancorché non semplicistica da impiegare a fini didattici, ciò che più mi ha dato da riflettere, scorrendolo, è stato tuttavia il suo carattere dichiaratamente problematico, quasi fosse un guanto di autosfida lanciato a se stessi da due studiosi che, non credendo più al principio «secondo cui le grandi figure, comprese le più cupe, fanno la storia incarnando le proprie idee nella realtà», dovrebbero perciò retrocedere l’indagine biografica su Hitler a tema «minore» rispetto all’esame delle «forze che si sprigionano dalla vertiginosa mutazione di quei sistemi economici, sociali e cognitivi che costituiscono l’Europa» tra Otto e Novecento e di cui Hitler sarebbe stato solo «un catalizzatore» o «un condensato», ma che ciò nonostante non possono fare a meno di considerare quel tema un ostacolo «insidioso e complesso», proprio perché pone invece in modo drammatico la questione dell’incidenza delle azioni di un singolo individuo sui meccanismi che mettono in movimento la storia.

Proviamo allora a ripercorrere gli anni di apprendistato di questo montanaro non particolarmente brillante, ma convinto assai presto dalla madre a interpretare la sua solitudine come sinonimo di genialità incompresa; seguiamolo mentre si perde letteralmente nella febbrile Vienna tardoasburgica, crocevia di tutte le principali avanguardie filosofiche e artistiche d’inizio secolo, di cui egli non capisce sostanzialmente nulla, perché non sarà mai altro che un mediocre pittore di bozzetti; immaginiamolo mentre stordisce i suoi compagni di dormitorio con sproloqui zeppi di luoghi comuni razzisti estrapolati da una pubblicistica di grana grossa equiparabile agli odierni editoriali dei giornali di Angelucci. «Cosa fa nelle sue giornate? Nulla o quasi». Quest’«uomo dei progetti irrealizzati» sarebbe probabilmente stato fagocitato dalla modernità incalzante e reso inoffensivo prima di poter nuocere veramente a qualcuno se nel frattempo non fosse scoppiata la Grande Guerra, che costituì «la matrice e l’orizzonte di riferimento insuperabile» per lui come per gran parte dei suoi coetanei mandati a morire nelle trincee. È infatti proprio l’esperienza della trincea, dove tutto si riduce basicamente a una questione di vita o di morte, a determinare il suo «approccio straordinariamente angosciato verso il mondo» e a convincerlo che solo una comunità compatta e coesa intorno al suo capo come un manipolo di soldati sta riunito intorno al suo ufficiale avrebbe avuto qualche chance di reggere l’urto della cospirazione globale ordita per annientare la Germania in quanto tale da quel camaleontico nemico, l’Ebreo, capace di presentarsi ora con le fattezze del rivoluzionario bolscevico, ora con quelle opposte del magnate capitalista, e le cui macchinazioni sottobanco sono l’unica possibile spiegazione razionale (per lo meno secondo i criteri razionali distorti tipici della mente complottista) all’inopinata sconfitta dell’altrimenti invincibile esercito tedesco. Nulla di tutto questo è veramente originale negli anni di Weimar, giacché il vittimismo è da sempre un collante potente fra gli sconfitti e già durante la guerra i soldati tedeschi si erano abituati a considerare la loro come «una battaglia difensiva, che protegge il territorio e la popolazione del loro paese, persino quando combattono a Verdun o nella Somme, ovvero essendo penetrati ben dentro il territorio francese» (per una beffa della storia, è il medesimo ragionamento che oggi spinge i falchi di Israele a giustificare il carnaio di Gaza). Lo stesso famosissimo putsch della birreria di Monaco, per come fu dilettantisticamente condotto, lascia pensare che, qualunque fosse l’idea che avevano di se stessi, i primi nazisti fossero solo degli sprovveduti non troppo diversi dagli sciamani che quattro anni fa hanno preso d’assalto Capitol Hill.

Eppure è questa «la loro grande fortuna», che «non vengono presi sul serio». Alla fine del 1932, quando, nonostante la travolgente avanzata elettorale, «il bilancio politico nazista è assolutamente disastroso» e perfino i leader, Hitler e Goebbels, «sono convinti di aver perso il treno della storia», sarà solo la cieca certezza nutrita dalle élites conservatrici, immemori di quanto era già accaduto con Napoleone III, di poter manipolare l’imbecille di turno a spianare a quest’ultimo la via del cancellierato. Non sembra esserci nessun disegno a lungo termine, nessuna meditata strategia nella resistibile ascesa del nazismo. Sin da quando, agli inizi della sua avventura politica, Hitler aveva minacciato di dimettersi dalla guida di un partito ancora microscopico – al punto che, se nessuno glielo avesse impedito, «sarebbe tornato alla sua marginalità» -, nella sua condotta si manifesta semplicemente «il cristallizzarsi del comportamento oltranzista, intransigente, radicale, che non fa concessioni, di un uomo che fa a braccio di ferro fino a rompersi la mano pur di non cedere», non già per titanica coerenza, ma con la stessa ottusa protervia di un bambino capriccioso (e ne conosciamo tutti a iosa di colleghi o amici che alla fine ottengono sempre quello che vogliono semplicemente perché non hai voglia di litigare con loro). Sarà più la coda di paglia di Francia e Inghilterra che non la sua lungimiranza a consentirgli di dominare le relazioni internazionali, finché una nuova guerra, dopo che la prima l’aveva tenuto a battesimo, ne farà emergere la condizione di totale alienazione. Allora, «quest’uomo che non ha mai saputo dialogare, che si è sempre chiuso in monologhi arzigogolati e torrenziali, che sa soltanto innervosirsi o esaltarsi da solo nella sua torre d’avorio, che non ha mai avuto uno scambio con gli altri, si isola sempre più dalla realtà e non accetta che essa contraddica le sue predizioni», fino alla decisione estrema di anticipare il Ragnarok per sé e per tutta la Germania, «convinto che se il Terzo Reich non poteva vincere la guerra, se il Reich millenario era irraggiungibile, almeno una morte millenaria era alla portata del suo gesto suicida: un mito della memoria che sorgesse dal ricordo di questo gesto eroico, di questa epopea razziale, di una guerra di civiltà contro il giudaismo e il bolscevismo».

E tale Hitler è per l’appunto rimasto nell’immaginario neonazista e persino in quello dei suoi avversari, personificazione a seconda dei casi di una volontà superiore o di suprema crudeltà, caso apparentemente unico e irraggiungibile, quando sarebbe invece bastato un nulla per scalzarlo via dal corso degli eventi – perché poi nella storia accade sempre così, che ciò che a posteriori appare sempre un destino inevitabile sia in realtà appeso spesso al tenuissimo filo delle circostanze. Probabilmente l’energia accumulata nel sottosuolo sociale di inizio Novecento avrebbe comunque prodotto, presto o tardi, un terremoto devastante quanto la seconda guerra mondiale, ma Hitler, di per sé, è solo una variabile tra le tante. «Contro la prefabbricazione del mito – ambizione estrema di Hitler e di Goebbels – il lavoro dello storico può aiutare a vincere un’ultima volta il nazismo. Da una parte ristabilendo la verità contro i negazionismi di ogni risma che imperversano ancor oggi tentando di negare o di minimizzare i crimini nazisti. Dall’altra smontando meticolosamente il mito nazista e mostrando fino a che punto quest’uomo non fosse onnipotente, né fosse il genio che ha preteso di essere. () É forse anche questa una delle missioni degli storici: decostruire con pazienza i miti». Non esistono insomma geni del male, ma questo è assai poco rassicurante e richiede estrema circospezione, perché vuol dire che anche il più squinternato sostenitore dell’idea che il mondo stia andando al contrario, a determinate condizioni, potrebbe essere in grado di provocare l’apocalisse.

(finito il 10 aprile 2022)

Ho parlato di


Johann Chapoutot | Christian Ingrao
Hitler
(Laterza 2021)

trad. di L. Falaschi

152 pp. | 16 €

(ed. or.: Hitler, 2018)

martedì 20 agosto 2024

Il Maestro e Margherita

Da una quantità di indizi raccolti qua e là nel corso degli anni sono giunto da tempo alla conclusione che esiste una cerchia di menti eccellenti per le quali Il Maestro e Margherita non è semplicemente il grande classico che bene o male tutti accettano che sia, ma dovrebbe senz’altro occupare un posto da titolare nel quintetto base della letteratura almeno novecentesca, se non universale, cosa che è invece meno scontata e le cui motivazioni, condivisibili o meno poi nel merito, potrebbero del tutto sfuggire a una lettura che si lasci abbindolare dai trucchi di cui il testo è disseminato e si mostri per questo incapace di riconoscere, prima ancora che di sciogliere, gli autentici enigmi di cui esso è portatore e che effettivamente, tantissimi anni fa, quando provai per la prima volta ad abbordarlo, mi mandarono totalmente fuori di testa già all’altezza del secondo capitolo. Da quel giorno più non vi lessi avante, finché non tornò a farsi irresistibile l’ambizione di riuscire anch’io ad intrufolarmi fra gli iniziati ammessi alla contemplazione di quel mistero, e quando in un raptus di follia collettiva sembrava che sugli autori russi dovesse cadere l’ostracismo occidentale mi ci sono nuovamente tuffato dentro con tutta l’apertura mentale di cui sono capace.

Confermo che anomalo, questo romanzo, lo è eccome, e spiazzante, intanto perché i due sedicenti protagonisti compaiono molto avanti nell’opera, quando quasi ti sei dimenticato che è di loro in fin dei conti che si dovrebbe parlare, e poi perché l’opera stessa, lasciando pure da parte tutte le folli invenzioni di cui trasuda, è come l’aggregato di due libri diversi costruiti l’uno dentro l’altro, accomunati dalla loro ultima riga, e rifacimento, a loro volta, di un altro libro ancora, vale a dire il Faust di Goethe. Qui Mefistofele assume le fattezze dell’eccentrico professor Woland, esperto in negromanzia, «un individuo alto due metri e passa, ma con le spalle strette, d’incredibile magrezza e dalla fisionomia, vi prego di notarlo, beffarda», il quale si materializza dal nulla nel bel mezzo di una serata primaverile presso gli stagni Patriarsie di Mosca e sin dal suo primo incontro con due malcapitati letterati comincia a seminare scompiglio e confusione, talora con conseguenze drammatiche, talora solo comiche, in quella che dovrebbe essere l’ordinatissima società sovietica di fine anni ‘20. Insediatosi nell’appartamento di una delle sue vittime con tutta la sua improbabile corte dei miracoli – tra cui giganteggia il meraviglioso Behemoth, un gattone antropomorfo che gioca a scacchi, indossa un cravattino e sorseggia amabilmente dal bicchiere, eretto sulle due zampe posteriori, generando sempre un senso di indefinito disorientamento in chi lo incontra – più che tentare apertamente il prossimo, Woland saggia di volta in volta con fare sornione le qualità morali di chi gli capita a tiro, in modo che vengano spontaneamente a galla le piccinerie immancabili in quel sottobosco assuefatto alla delazione e all’intrigo che prospera sotto la coltre apparentemente onnipervasiva della burocrazia staliniana. Del resto, in una società che dovrebbe essere totalmente pianificata, il disordine è la prima forma di eversione – e quanta non ne portano Woland e i suoi coribanti, che l’uno lasciano in mutande, l’altro trasportano all’istante a Jalta, a un altro consegnano dei soldi in valuta straniera che poi spariscono proprio sul più bello, e a un altro ancora – stupenda trasfigurazione poetica – gli fanno invece svanire il corpo mentre il vestito continua imperterrito a firmare, timbrare, protocollare tutta la documentazione che passa per il suo ufficetto, senza che gli si possa dir nulla, perché timbri, firme e protocolli stanno appunto dove devono stare, nonostante le modalità eccentriche con cui vengono prodotti («se non ci sono i documenti, non c’è nemmeno la persona», si dice a un certo punto, ma vale anche il contrario, per quanto assurdo possa sembrare). La si può quasi sentire la risata liberatoria, ma sofferta, con cui Bulgakov seppellisce da par suo tutto l’insopportabile campionario umano da cui si sentiva quotidianamente schiacciato, e in particolare la sua espressione peggiore, gli intellettuali di partito che avevano ottenuto, in cambio della loro accondiscendenza al regime, le comodità di una sovvenzione statale e soprattutto quel diritto a essere pubblicati a lui negato invece per tutta la vita proprio per questo suo libro così integralisticamente poco convenzionale e pieno di allucinate fantasmagorie.

Sua controfigura narrativa (e qui si può cominciare anche a intravedere il complicato gioco di rispecchiamenti allestito dall’autore) è colui che viene chiamato il Maestro: anche lui ha scritto un libro scomodo, anche lui è stato messo al bando dall’intellighentija zdanovista, anche lui in un primo momento ha bruciato le copie del suo scritto, dopo essere stato stroncato da censori che per screditarlo hanno fatto ricorso ad argomenti a cui in fondo non credono e che risultano tanto più spietati quanto più monta in loro la rabbia di dover prendere posizione contro chi fa quello che loro non hanno più la forza di fare. Travolto dalla disperazione, il Maestro si è autosegregato in una clinica psichiatrica, da cui potrebbe anche uscire, se lo volesse, ma per andar dove – si chiede -, se tutt’intorno regna questa viltà che costituisce il «più terribile» dei vizi e che è rimasta incisa come uno stigma sulla memoria del protagonista del suo romanzo, fulcro di tutte le sue ossessioni, il procuratore della Giudea Ponzio Pilato? Anche a lui serve un atto di coraggio per credere nel potere performativo della sua opera, e a infonderglielo è l’amore genuino della bella Margherita, che per riaverlo non esita a mettere a repentaglio la propria stessa vita. Lui vorrebbe evitarle la pericolosa marginalità a cui si sente irrimediabilmente condannato, ma «chi ama deve condividere la sorte dell’amato» e nell’ora della prova lei non si tirerà indietro; anzi, sarà proprio grazie all’intermediazione di Margherita che Woland farà riapparire il romanzo incenerito, accompagnando il prodigio con una frase - «i manoscritti non bruciano» - destinata a diventare uno slogan libertario negli anni della repressione, emblema di una possibile risurrezione laica in una terra di anime morte. «Seguimi lettore! Chi ti ha detto che al mondo non esiste l’amore vero, fedele, autentico! Che sia tagliata la lingua infame del bugiardo! Seguimi, lettore, e segui me soltanto, e io ti mostrerò un simile amore». Se non si è disposti a credere a questo, come si potrà credere che sia possibile continuare a vivere oltre i limiti del corpo, attraverso la propria arte, e che l’arte stessa possa in qualche modo chiudere i conti che la vita inevitabilmente lascia aperti (come avviene anche nei film “revisionisti” di Tarantino)?

Com’è complicato eliminare, infatti, il sospetto che tutto sia vano, e che proprio come l’amore, con tutta la sua forza, sembra sfracellarsi contro la morte, a maggior ragione la letteratura sia destinata ad affondare nel pantano dell’inutilità. Quando tutto è compiuto, «il cielo si oscurò. Quest’oscurità, giunta da occidente, coprì l’enorme città. Scomparvero i ponti, i palazzi. Tutto sparì, come se non fosse mai esistito sulla faccia della terra. Attraverso tutto il cielo corse un unico filo di fuoco. Poi la città fu scossa da un tuono». Ai moscoviti, visitati da Satana, scoppia letteralmente l’apocalisse in casa, ma poi il temporale passa «senza lasciare traccia» e tutto finisce per essere spiegato in modo prosaico, poiché in quel paese inaridito nessuno ha più gli strumenti per capire davvero quello che è successo: le porte dell’eternità per un attimo si sono spalancate di fronte a lei e la grande città è stata giudicata per quello che è, né calda né fredda. Quasi ogni cosa torna infine al suo posto, ma è appunto quel “quasi” a fare la differenza, seppure senza troppe illusioni. Curiosamente, il mite Yeoshua che tanti mal di testa provocò a Pilato e il sinistro Woland sembrano giocare la stessa partita e suggerire la stessa conclusione, tant’è che alla fine viene da chiedersi chi abbia venduto l’anima al vero demonio, se Margherita (che esulta, danzando, «come sono felice, come sono felice, come sono felice d’aver fatto un patto con lui!») o l’umanità piegata al mostruoso Leviatano e alla sua pretesa di regolamentare ogni singolo frammento d’esistenza. Diavolo d’uno scrittore – è proprio il caso di dirlo!

(finito il 9 aprile 2022)

Ho parlato di


Michail Bulgakov
Il Maestro e Margherita
(Mondolibri 2011)

Trad. di M. S. Prina

480 pp. | 5,90 €

(ed. or.: Master i Margarita, 1967)

martedì 23 luglio 2024

Cronorifugio

Libro davvero bizzarro, questo, nei contenuti ma soprattutto nella confezione, e difficilissimo per questo da inquadrare senza un’irrimediabile sensazione di sfocatura: labirintico, dispersivo, proteiforme nel suo scivolare di continuo dalla riflessione saggistica alla narrazione, pieno di andirivieni, ammiccamenti, elenchi, citazioni e digressioni, nonché punteggiato di ghirigori e disegnini intercalati fra i paragrafi come se fosse un taccuino d’appunti più che un’opera compiuta, eppure capace come pochi altri di intercettare uno sbuffo dello spirito del tempo e di convertirlo, grazie a una felice intuizione poetica, nell’energia sufficiente per indirizzare le vele, al netto del summenzionato rollio, verso una direzione chiara, così da offrirci qualche coordinata in più per orientare la nostra sospettosa navigazione in quel mare aperto che è la contemporaneità. Gospodinov sa fin troppo bene che «i romanzi e le storie danno un falso conforto di ordine e di forma. Sembra quasi che qualcuno tenga tutti i fili dell’azione, conosca l’ordine e la conclusione, quale scena viene dopo un’altra», il che è però del tutto controfattuale rispetto all’esperienza concreta che facciamo del nostro essere nel mondo, per cui non siamo mai in grado di dire a che punto del racconto ci troviamo e che cosa ci riserverà la pagina successiva, se un prolungamento, quale che sia, della vicenda, o l’annichilimento definitivo dell’ultima pagina bianca (nulla distingue, a priori, questo pacioso pomeriggio estivo da quello del 30 agosto 1939, vigilia dell’ecatombe). Sa inoltre quanto avremmo disperatamente bisogno di aggrapparci a una fabula, come dicono i narratologi, ma sa anche che «la fabula non c’è. E in questo consiste la profonda natura non cinematografica della vita». Consapevole del potenziale effetto falsificante di qualsiasi ricostruzione, suggerisce che «davvero audace, audace e sconfortante allo stesso tempo» sarebbe perciò quel libro «in cui tutte le storie, accadute e non accadute, fluttino intorno a noi nel caos primordiale, gridino e sussurrino, preghino e sghignazzino, si incontrino e si separino nel buio», e ti lascia sottintendere, a tratti, con il suo continuo rimescolamento di carte, che un libro del genere sia proprio quello che ti sta offrendo alla lettura. Ma non ci crede fino in fondo, perché poi alla fin fine il suo bell’asso se lo gioca con una mossa letteraria sorprendente. Forse la vera audacia consiste dopotutto nell’azzardare comunque un’ipotesi, evitando di cadere nelle secche della ragion pigra solo perché si teme di naufragare nell’oceano delle storie che noi stessi ci raccontiamo.

Qual è dunque l’idea-guida che fa da perno all’intero ragionamento? È presto detto. Un singolare psichiatra gerontologo che ci viene presentato col nome di Gaustìn («anche se lui stesso usava questo nome come un cappello che renda invisibili») e che ha imparato a fare del dialogo con i suoi pazienti un’occasione per potersi spostare «di decennio in decennio come noi cambiamo volo in un aeroporto», decide di mettere in piedi un’innovativa struttura per malati di Alzheimer nella quale gli ospiti, sempre più a disagio in un presente faticoso per loro da riconoscere, possano trovare «uno spazio in sincronia con il loro tempo interiore», ossia corridoi e stanze arredati secondo il design e lo stile dell’epoca nella quale la loro memoria, progressivamente divorata dal morbo, è rimasta come intrappolata. Naturalmente, l’impresa è più facile a dirsi che a farsi, e pone sul tappeto tutta una serie di complicatissime questioni filosofiche sull’effettiva riproducibilità del tempo perduto, che, come ci ha insegnato Proust, è un intreccio di incalcolabili madeleines ed è assai più il risultato di una nostra rielaborazione che non un semplice magazzino di anticaglie appoggiate lì, una accanto all’altra. Fatto sta che l’esperimento decolla e la prima «clinica del tempo» viene felicemente inaugurata, ovviamente in Svizzera, paese d’elezione dei sanatori letterari, come tributo verso La montagna incantata, ma anche perché la Svizzera è un paese senza tempo e «può essere più facilmente popolato con tutti i tempi possibili».

Una volta avviata, la sperimentazione richiede però quasi subito un’implementazione perché possa funzionare davvero. Questi non sono, infatti, convalescenti che si stanno semplicemente riprendendo da una frattura o un’operazione d’appendicite. La loro particolarissima condizione impone invece a chi voglia andarli a trovare di calarsi in qualche modo nel loro tempo soggettivo, per incontrarli davvero là dove essi credono di trovarsi. Il passo successivo proposto da Gaustin sarà dunque quello di «costruire un passato protetto, ovvero un “tempo protetto”», o ancora, come dice lui, «un cronorifugio», dove poter sostare per qualche giorno accanto ai propri cari, prima che perdano totalmente lucidità, «nell’unico “luogo” possibile, nell’anno che ancora balugina in lontananza nella memoria del genitore che si andava spegnendo». E tutto ciò significa, concretamente, aumentare gli spazi e la scenografia, allestire come dei veri e propri campus di bolle temporali entro cui garantire la possibilità di un effettivo contatto tra persone che, anche se fisicamente prossime, vivono in realtà in diverse epoche interiori.

Tanto basta per produrre un destabilizzante sobbalzo fantapolitico. In un continente ormai senilizzato e affetto da una forma collettiva di Alzheimer sociale, la terapia di Gaustin deborda infatti dai confini entro cui era stata pensata e inizia ad apparire attrattiva per un numero crescente di persone apparentemente sane. In principio si tratta solo di piccole avvisaglie, come un crescente revival di vecchie mode, analogo a quello per cui, periodicamente, gli antichi nerd passati ai posti di comando delle grandi agenzie di intrattenimento riversano con vent’anni di distanza l’intero loro mondo immaginario sulla collettività, con una gigantesca operazione di ammiccamento e di edulcorazione della realtà (chiamiamolo effetto Happy Days: sono fenomeni ben noti). Perfino «le vecchie barzellette sono di nuovo divertenti». Poi, però, le cose cominciano a prendere una piega ben più drammatica e, paese per paese, ci si comincia a chiedere se non sia il caso di indire appositi referendum per riportare indietro le lancette della storia all’epoca in cui la maggioranza dei cittadini ritenga che si stesse decisamente meglio di ora, posto che tutti sono sempre di per sé convinti che ci sia stato un prima in cui si stava decisamente meglio di ora. Perchè, cioè, se funziona con i vecchietti, non fare anche di ogni Stato, preso tutt’intero, un diverso cronorifugio, erigendo tra l’uno e l’altro confini non solo etnici, linguistici e monetari, ma anche temporali, come griglie di fusi non orari bensì decennali, in cui ciascun popolo possa godersi in santa pace la propria eterna età dell’oro, perennemente sospeso in quell’attimo prima che qualcuno di brutto e cattivo, contro cui vomitare il suo rancore, gliela rovini per sempre?

Il punto è che in questo modo tutta le risorse necessarie per immaginarsi cosa si vuol diventare vengono interamente rivolte al passato, per specchiarsi in ciò che si pensa di essere stati, con l’inevitabile corredo di falsificazioni e autosuggestioni (una su tutte: «la gente non si rendeva conto che di per sé la nazione è un piagnucoloso neonato storico, che vuole sembrare un anziano della Bibbia»). È un meccanismo di cui siamo tutti più o meno vittime, a fasi alterne, nella vita, e per questo così potente (mi è capitato di sentire dei miei studenti sedicenni dire che i “ragazzi di oggi” non sono più come erano loro), così come la stessa propensione del nostro cervello a ricercare spiegazioni ci ha permesso di inventare la scienza, ma ci ha reso inevitabilmente anche un po’ tutti complottisti. Per quanto appaia strano, ci vuole comunque uno scatto del pensiero per interiorizzare il fatto che non erano le nevicate di un tempo a essere molto più copiose delle attuali, ma eri tu a essere piccolino e quando avevi a fianco trenta centimetri di neve di sembrava d’essere Mosé che passava in mezzo alle pareti d’acqua del mar Rosso. Non c’è allora da meravigliarsi se la nuova carta dell’Europa prodotta da questo susseguirsi di consultazioni popolari veda il costituirsi di una sorta di impero napoleonico degli anni’80 , perché «in fin dei conti al referendum le persone hanno scelto gli anni in cui erano stati giovani. I settantenni di oggi erano giovani nei ‘70 e negli ‘80, sui venti e trent’anni. Invecchiati sceglievano il tempo della loro giovinezza, ma ci sarebbero vissuti i giovani che allora non erano nati» (l’Italia fa eccezione, perché da noi si ritornerebbe sempre e comunque ai favolosi anni ‘60 delle rotonde sul mare, ma forse è solo perché da noi l’età media è più alta). Non ci si rende conto, però, che ad essere bramata, più che la giovinezza in quanto tale, è quel che la giovinezza porta sempre con sé, ovvero una certa aspettativa di futuro. La sensazione, infatti, è che, da qualche parte tra la fine degli anni novanta e l’inizio degli «anni con lo zero», sia «accaduto qualcosa col tempo, qualcosa si è incastrato, ingarbugliato, ha scoppiettato, si è bloccato e fermato». E come certifica l’Alzheimer, «la prima cosa a scomparire quando si perde la memoria è proprio la capacità di immaginare il futuro». A quel tempo, ma anche prima, «c’era una riserva intatta di futuro»; ora che non riusciamo più a immaginarcene uno inedito, ci accontentiamo di «un futuro “di seconda mano”», tanto più suggestivo quanto più assomiglia a quello che ci raffiguriamo essere il passato, con l’effetto distorsivo dell’omino ritratto in copertina, che sembra lasciare le impronte dei propri passi davanti a sé anziché alle proprie spalle. Sembra solo una fantasmagoria, con tutte le implicazioni satiriche che ben si possono immaginare e che lascio al lettore scoprire da sè. Eppure… eppure, a pensarci bene, filtrato attraverso la lente del paradosso, «è quello che succede con tutte le elezioni», quando i lungoviventi, in nome di quel che capitava “ai loro tempi”, dettano l’agenda per tutti, scandendo il motto Great Again.

(finito il 23 marzo 2022)

Ho parlato di


Georgi Gospodinov
Cronorifugio
(Voland 2021)

trad. di G. Dell'Agata

320 p. | 19 €

(ed. or.: Vremeubeziste, 2020)

martedì 2 luglio 2024

Taràs Bul'ba

Anche se tutte le evidenze sembrerebbero attestare il contrario, aspetterei ancora prima di liquidare come una semplice boutade il parere espresso nella sua corrispondenza con Einstein dal dottor Freud, secondo cui il processo di incivilimento porterà poco per volta la nostra specie a introiettare una sorta di istintiva repellenza per ogni forma di guerra. Pensate per un attimo a come abbiamo reagito alla notizia dell’invasione russa dell’Ucraina, quando ci siamo chiesti con sgomento come fosse possibile che la guerra (e una guerra classica, fatta cioè di reticolati, prime linee, sconfinamenti, non quella versione “umanitaria”, “preventiva”, “asimmetrica”, “sporca” che ci è stata venduta dalla caduta del muro di Berlino in poi) potesse scoppiare proprio da noi, in città come le nostre, attorno a stadi che in tempi meno interessanti farebbero risuonare la musichetta della Champions League. E pazienza se questa costernazione rivela la cattiva coscienza di noi anime belle vissute, come si dice, nel più duraturo periodo di pace sperimentato dal nostro continente (i conflitti nella ex Jugoslavia a quanto pare li derubrichiamo istintivamente a scontri tribali balcanici, qualcosa di fatale come le zuffe fra gli animali nella savana): tale miscuglio di stupore, paura e inquietudine rivela appunto che, se non per virtù o sincero spirito di fratellanza, quantomeno per convenienza, utilità e quieto vivere, la guerra è qualcosa che ormai non ci piace più tanto fare (almeno quando ci tocca direttamente).

Ma se noi oggi simpatizziamo senza neanche porci il minimo dubbio con Archiloco quando abbandona lo scudo sul campo per salvare la pelle, non è sempre stato così. Al contrario, tutta l’epica che ha espresso i codici di condotta esemplari della nostra civiltà, e che ancora in gran parte assorbiamo a scuola, dall’Iliade alla Gerusalemme liberata, passando per le saghe nordiche e quelle dei paladini di Francia, ci presenta la guerra non solo come una triste necessità cui è doveroso applicarsi, ma come qualcosa di bello, onorevole, compiutamente virile – e le stesse canzoni trobadoriche, messe momentaneamente da parte le dolci maniere e la bella cortesia, ci ricordano che per secoli il canto degli uccellini all’inizio della primavera è stato per il buon cavaliere il segnale al suono del quale scuotersi di dosso il torpore invernale e rimettersi finalmente in sella alla ricerca della fama promessa a chi avesse irrigato con quanto più sangue possibile quei paesaggi bucolici riemersi dal disgelo.

Così andavano le cose un po’ dappertutto nel mondo, ma forse così andavano ancor di più, «nel difficile XV secolo», in quell’«angolo seminomade d’Europa» posto lungo l’imprecisato confine con l’Asia, dove per chilometri e chilometri non si incontravano «mai villaggi, solo sempre la stessa steppa, infinita, libera, bellissima», anche perché – come nello stato di natura hobbesiano – nessuno si azzardava a costruire più di un rifugio di paglia per sé e per i suoi familiari, ben conscio che tutto il suo lavoro sarebbe stato spazzato via, presto o tardi, dall’inevitabile incursione dei predoni mongoli. Eppure in queste inospitali regioni tanto remote e selvagge che per Plinio non potevano accogliere se non mastodontici scontri tra draghi e altre creature colossali qualcuno che sta perfettamente a proprio agio c’è: sono i guerrieri cosacchi – uomini fieri, rudi, liberi, che fecero dell’isola di Chortycja, sul Dnepr, primo nucleo della Zhaporizzja oggi famosa per la sua centrale nucleare, il centro di una singolare repubblica militare, una roccaforte preclusa alle donne, dove i maschi adulti trascorrevano la maggior parte del tempo nella «gozzoviglia, segno dell’ampia sfrenatezza della loro libertà interiore», interrotta solo dalle stagionali spedizioni intraprese ora contro i tartari, ora contro i turchi, ora contro quei polacchi rinnegati che avevano abiurato la santa fede ortodossa per abbracciare quella cattolica, nobilmente convinti com’erano «che fosse indifferente dove combattere pur di combattere, perché non è bene che un uomo d’onore viva senza battaglie» e che un giovanotto superi una certa età senza mai essersi buttato nella mischia. Sì, ci saranno cadaveri dappertutto, «ma grande sarà il bene in una simile distesa di morte sparpagliata in lungo e in largo! Nessuna impresa magnanima va distrutta, e non si perderà la gloria cosacca come non va perduto nemmeno un granello di polvere nella canna di un fucile. Ci sarà, ci sarà un bandurista con la barba canuta sul petto, e forse sarà un vecchio con la testa bianca ma ancora nel pieno della sua forza virile, saggio spirito, capace di parlare di loro con la sua parola profonda e possente. E si spargerà per tutto il mondo la loro gloria».

É esattamente questo genere di gloria quella cui ambiscono anche Ostap e Andrij, i due figli che il vecchio Taras Bul’ba accompagna tutto orgoglioso per la prima volta al raduno annuale del suo popolo, perché diventino, come lui, due cosacchi tutti d’un pezzo, nonostante i piagnucolii della mamma dinanzi all’alta probabilità che nessuno dei due avrebbe mai più fatto ritorno a casa. E sarebbe diventata sicuramente una grande epopea, la loro storia, se a cantarla fosse stato un anonimo bardo d’altri tempi, anziché un romanziere moderno, con una maggiore sensibilità per le ambiguità del reale. Il destino di questi fratelli è, infatti, totalmente opposto - almeno secondo i codici di condotta cosacchi - eppure, alla fin fine, anche così terribilmente simile da imporre qualche domanda. Andrij, innamoratosi di una bella polacca durante l’assedio di Dubno, abbandona in segreto il proprio accampamento per seguirla all’interno della città compiendo quello che agli occhi di Taras Bul’ba non può non apparire come il più spregevole dei tradimenti. Il figlio, in realtà, ha le sue ragioni («chi ha detto che la mia patria è l’Ucraina? Chi me l’ha data come patria? La patria è quel che l’anima nostra cerca, quel che per lei è più dolce d’ogni altra cosa. La mia patria sei tu! Ecco la mia patria!», afferma, rivolgendosi alla ragazza amata), ma sono argomenti che il padre semplicemente non può capire, tant’è che sarà lui stesso a trafiggerlo con la propria spada quando finiranno per reincontrarsi, a riparazione di un’onta quasi sacrilega («io ti ho generato, io ti ucciderò»: questa è la sua elementare legge morale). Ostap, al contrario, è la luce dei suoi occhi: forte e impavido come pochi altri, paga però la sua irruenza con la cattura, sempre ad opera dei polacchi – e tale è stato il terrore da lui seminato in battaglia che la pena a cui verrà sottoposto dovrà risultare memorabile. In quel secolo brutale, il suo supplizio diventa così un autentico spettacolo che richiama tutti i cittadini di Varsavia, comprese «una moltitudine di vecchie, le più devote, una quantità di fanciullette e di donne, le più delicate, che in seguito per tutta la notta avrebbero sognato cadaveri insanguinati»; anche i macellai presenti commentano sotto il palco «con l’aria dell’intenditore» le tecniche di squartamento impiegate dal boia. Ad una ad una gli saranno spezzate tutte le ossa, senza che gli aguzzini riescano però a strappargli dalla gola una parola di lamento, finché, dopo aver sopportato tutto questo con la massima fermezza, il ragazzo viene assalito dall’angoscia e, novello Cristo crocifisso, invoca il soccorso paterno («Bat’ko!», che potrebbe stare per Abbà, «Dove sei? Mi senti?»). E proprio in quel momento, in mezzo alla folla ammutolita, Taras Bul’ba, che era riuscito a intrufolarsi furtivamente nella città nemica, risponde con voce tonante «Sento!».

Difficile immaginarsi scena più potente, che a un certo tipo di lettore potrebbe apparire come un modo per celebrare un complesso di valori in cui l’ossequio verso le tradizioni dei padri fa tutt’uno con la percezione di se stessi quale estremo baluardo difensivo della cristianità contro la minaccia degli infedeli provenienti dai confini del mondo e ancor più contro quella degli infedeli già mischiati fra noi, portatori di tendenze effeminate e corrotte (qui tipicamente rappresentate dall’ebreo che accompagna i cosacchi nelle loro spedizioni, pur subendone le angherie, per succhiare profitti dalla devastazione mentre loro sputano sangue). Per un miracolo della letteratura, uno scrittore russo nato in Ucraina come Gogol’, anche se forse non capirebbe quello che sta accadendo ora da quelle parti, perché le linee di demarcazione che aveva in testa non prevedevano significative distinzioni tra la Rus’ di Kiev e quella di Mosca, ci offre comunque degli strumenti utili per provare a comprendere il nocciolo ideologico che sorregge la retorica di Putin, con tutto la sua fortissima carica escatologica («aspettate, verrà il tempo, ci sarà il tempo, verrete a sapere cosa sia la fede ortodossa! Già adesso lo sentono i popoli lontani e vicini: si alzerà dalla terra russa il suo zar, e al mondo non ci sarà forza che gli si potrà opporre»). Per un miracolo ancora maggiore, però, in quegli schemi di pensiero possiamo riconoscere anche gli stessi meccanismi che operano attivamente, sia pure con diversi livelli di semplificazione, nei discorsi delle forze politiche oggi riemergenti in Europa, alle quali Gogol’ sembra preventivamente obiettare: ma davvero non sappiamo fare di meglio che preparare il terreno all’ecatombe dei nostri figli? Perchè è questo quello che succede quando non si riesce a capire che, nonostante l’addobbamento cristiano, sotto il petto di Taras Bul’ba continua a pulsare il cuore di una divinità guerriera delle steppe e non quello del Padre misericordioso che spezza definitivamente la logica della violenza. Spero vivamente che, quando suonerà la prima tromba, gli opportunisti ci salvino dagli invasati.

(finito il 5 marzo 2022)

Ho parlato di


Nikolaj Gogol'
Taràs Bul'ba
(Gruppo Editoriale L'Espresso 2011)

trad. di S. Prina

La Biblioteca di Repubblica - I Grandi della narrativa n. 24

160 p.

(ed. or.: Taràs Bul'ba, 1835)

mercoledì 19 giugno 2024

Casino totale

Fra gli innumerevoli vezzi che fanno di me il lettore che sono, c’è anche quello di selezionare i libri da portarmi in viaggio sulla base di una più o meno appropriata affinità ambientale con i luoghi che andrò a visitare. E quantunque Loano non sia Ibiza, la tonalità della luce sulla marina o il suo luccichio sulla scorza dei limoni ricreano comunque pure qui uno sfondo sufficientemente adeguato per facilitare l’immersione in una qualsiasi variante di letteratura meridiana, compresa quella noir di cui Jean-Claude Izzo è considerato a buon diritto un maestro – per cui, per una scappata di due giorni in riviera, un libro come questo calza a pennello, anche per la sua snellezza. Semmai, gli stilemi propri del genere – l’annodare, cioè, intorno al filo della trama un variopinto repertorio di riferimenti gastronomici, musicali, poetici, paesaggistici, topografici che restituiscono una fascinosa idea di mondo, con tutta la sua conturbante bellezza, fatta, in questo caso di pastis, aioli, calanchi, versi provenzali, mistral – portano a chiederti come mai, tu che hai girato in lungo e in largo Provenza e Occitania non ti sei mai deciso a fermarti una buona volta a Marsiglia, la vera protagonista del romanzo («La storia che leggerete è totalmente immaginaria. (…) Solo la città è veramente reale. Marsiglia. E tutti coloro che ci abitano. Con quella passione è solo loro. Questa storia è la loro storia» - che è un modo elegante per trasformare un’avvertenza a scopo legale in un’autentica dichiarazione di poetica).

Attenzione, però. Anche se non si sfugge del tutto all’effetto Lonely Planet («scendere rue d’Aubagne, a qualsiasi ora del giorno, è come viaggiare. Un susseguirsi di negozi, ristoranti, come tanti scali. Italia, Grecia, Turchia, Libano, Madagascar, La Réunion, Thailandia, Vietnam, Africa, Marocco, Tunisia, Algeria»), la Marsiglia raccontata in queste pagine non coincide con la rassicurante cartolina venduta dalle agenzie di viaggi. A proposito di una mostra dello scultore locale César allestita alla Vieille Charité – edificio un tempo adibito a ospizio per poveri e appestati, riciclato poi come campo di raccolta durante l’occupazione tedesca – Izzo osserva, appunto, che «i turisti arrivavano a frotte. Interi pullman. Italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi. E giapponesi, certo. Tanta banalità e cattivo gusto in un luogo così carico di storie dolorose, mi sembra il simbolo di questa fine secolo». Esattamente quello che accade ogni qual volta ci si appropria di espressioni come “rinascimento” per avviare massicce ristrutturazioni urbanistiche che danno lustro ai centri storici e spazzano via tutto l’indesiderabile sotto il tappeto delle periferie dormitorio, attraverso una strategia di silenziosa militarizzazione degli spazi attuata in nome della sicurezza («il metrò e le stazioni brulicavano di sbirri. La Francia repubblicana aveva deciso di dare una bella ripulita. Immigrazione zero. Il nuovo sogno francese»). Come se un’operazione di maquillage potesse davvero sopprimere il carattere di una persona, i suoi vissuti.

No, «Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte». E difatti morto, prima ancora che il libro cominci, è uno dei suoi protagonisti – Manu; e morto, prima che finisca il prologo, è anche il secondo protagonista – Ugo – tornato a Marsiglia proprio con l’intento di vendicare Manu; ne resta vivo solo un terzo, Fabio, che di Ugo e Manu era stato intimo amico, ai tempi di una giovinezza avventurosa e tutto sommato felice, piena di letture, dischi, partite alla belotte, sogni, cielo e tanto mare, quando amavano tutti e tre la stessa donna, prima che le cose andassero a scatafascio e le loro strade si dividessero. Tocca appunto a Fabio, che dei tre è il reduce, l’ultimo, ossia «colui che ereditava tutti i ricordi», con il loro carico pesante e glorioso, tentare di capire cosa sia effettivamente successo ai suoi vecchi compagni e, se possibile, provare a riparare qualche torto. Così facendo, lui che è un poliziotto anomalo – e anomalo soprattutto a Marsiglia, dove chi indossa una divisa gioca sin troppo facilmente a fare il cow-boy e vede indiani ovunque, mentre lui sembra più un mediatore culturale che un agente vero e proprio - mette le dita in un ingranaggio complicatissimo e ne vien fuori, appunto, un “casino totale”, con sparatorie, agguati, doppiogiochisti, droga e ovviamente clan contrapposti di camorristi, arabi e marsigliesi (in originale il titolo suona Total Khéops, presentato come un brano di musica rap, quando il rap si faceva ancora nei ghetti ed era sul serio controcultura: «a Marsiglia, si chiacchiera. Il rap è solo questo. Chiacchiere, niente di più. I cugini della Giamaica avevano trovato qui dei fratelli. E chiacchieravano come al bar. Di Parigi, dello Stato centralista, delle periferie scalcinate, degli autobus notturni. La vita, i problemi. Il mondo visto da Marsiglia»).

Il tono disincantato è un tributo al genere, d’accordo, così come il solitario cinismo del protagonista, la sua malinconia di fondo, il racconto in prima persona, con uno stile smozzicato e asciutto, mutuato dal parlato. Ma in un personaggio così visceralmente intriso di marsigliesità, quasi avatar della città stessa, l’amarezza per le promesse incompiute della giovinezza, anziché nutrire meri rancori individualistici, assume immediatamente una prospettiva politica, e il racconto di gangster diventa in tal modo veicolo di una precisa denuncia. Il punto è che Marsiglia, porta aperta sul mondo intero, è veramente «un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”». Non per nulla, sia Manu che Ugo che Fabio sono tutti e tre figli di immigrati, esuli a suo tempo dalla Spagna franchista e dall’Italia fascista, gente per cui la visione del sinistro profilo del chateau d’If deve aver suscitato paradossalmente lo stesso effetto galvanizzante prodotto dall’apparizione della Statua della Libertà a quanti tentarono la sorte oltreoceano. E invece, col tempo, a forza di gettare benzina sul fuoco del risentimento, «Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane».

Adesso, dove adesso è la metà degli anni ‘90, quando Izzo scrive, il microcosmo marsigliese è invece ormai nettamente diviso in continenti fra loro non più comunicanti. Da una parte crescono i «figli di immigrati, senza lavoro, senza futuro, senza speranza. Bastava che accendessero la televisione e ascoltassero il telegiornale, per sapere che il loro padre era stato inculato e che erano pronti a inculare anche loro», giovani a cui i bancari ridono in faccia quando, col loro primo stipendio, chiedono un prestito per comprarsi un macchina. Dall’altra si barricano i figli dei residenti (spesso semplicemente immigrati di più antica data), mosci, assuefatti, ma carichi di diffidenza verso gli ultimi arrivati: «nei loro occhi, sfuggenti, nessun lampo di rivolta. Amari dalla nascita. Avrebbero nutrito odio solo per i più poveri. E per chi avrebbe tolto loro il pane. Arabi, neri, ebrei, gialli. Mai per i ricchi. Si capiva già come sarebbero diventati. Poca cosa. Nel migliore dei casi, autisti di taxi, come il padre. E la ragazza, shampista. O commessa al Prisunic. Dei francesi medi. Cittadini della paura». Al di sopra di tutti prosperano senza vergogna quanti traggono vantaggio da questa guerra tra poveracci che non si stancano di fomentare. «Ero frastornato. L’odio, la violenza. I malavitosi, gli sbirri, i politici. E la miseria come sfondo. La disoccupazione, il razzismo. Eravamo tutti come insetti intrappolati nella ragnatela. Ci si dimenava, ma il ragno avrebbe finito per divorarci». Se la Le Pen arriverà davvero al governo fra meno di un mese, leggendo questo libro si può capire da dove è partita, trent’anni fa.

(finito il 2 marzo 2022)

Ho parlato di


Jean-Claude Izzo
Casino totale
(Edizioni e/o, 2021)

trad. di B. Ferri

230 pp. | 12,90 €

(ed. or.: Total Khéops, 1995)

domenica 19 maggio 2024

Sessanta racconti

Custoditi nelle librerie di tutte le case per cui sono transitato da oltre venticinque anni a questa parte, solido reperto in ottimo stato di conservazione di un’epoca in cui le mie prime incursioni nel fantastico mi avevano suscitato la curiosità di cercare se esistesse qualcosa di simile in lingua italiana, in ossequio a un impulso che mi avrebbe per esempio portato a scoprire, un po’ più avanti, un eccentrico come Landolfi – che di Buzzati è una versione più colta e ancor meno rassicurante -, com’è poi capitato a tanti altri miei libri, anche questi racconti sono in realtà rimasti a lungo lì sullo scaffale, aperti di tanto in tanto, ripresi tassativamente sempre di nuovo dall’inizio, ogni volta con l’impegno di arrivare fino in fondo, ma abbandonati, a seconda dei casi, al quinto, all’ottavo, al nono, senza mai avvicinarmi neanche lontanamente al sessantesimo. La lettura breve, infatti, è traditrice: con la scusa che la puoi riprendere in qualsiasi momento, finisci spesso per accantonarla e dimenticartela, finché arriva un momento in cui, invece, hai bisogno proprio di quello – rapide ricariche di letteratura nei frammenti di tempo che non ti sono sottratti dalle circostanze – e fai della concitazione l’occasione per portare a compimento quel progetto inaugurato molti anni prima, dando temporaneamente scacco al re del mondo.

La prima cosa che mi viene da pensare è che ci vuole certamente del coraggio a mettere in fila, uno dietro l’altro, i racconti di una vita, quando la vita non è ancora conclusa, perché inevitabilmente balzano subito all’occhio quelle ripetizioni di tema, tono e struttura che potevano sfuggire se quegli stessi racconti fossero rimasti dispersi sulle riviste e sui giornali su cui originariamente erano stati pubblicati – e ben lo so io, che mi cruccio se mi rendo conto d’aver usato già ben tre o quattro volte in questi circa duecento post la parola parvenus, trasformando un'innocua civetteria in banale manierismo, o quando devo lottare per trattenere a freno la naturale tendenza a inaugurare ogni mio scritto con una cautelativa litote. In questo modo, anche i pezzi potenzialmente più pregiati del lotto rischiano di svalutarsi un po’, quando ti accorgi che il metallo prezioso di cui sono forgiati, anziché essere concentrato in poche, uniche, gemme, viene diluito in diversi esemplari, senza che le variazioni introdotte eliminino del tutto una certa sensazione di déjà-vu. Racconti pure suggestivi come I sette messaggeri o L’inaugurazione della strada, per dire, si basano su un meccanismo molto simile, e così Qualcosa era successo e Direttissimo – e tutti questi quattro presi insieme, a loro volta, ripropongono in certa misura il tema di un inesorabile e ostinato viaggio verso una meta lontana che sfuggirà sempre o che forse si incontrerà senza rendersene conto o che ci porta a trascurare irrimediabilmente le piccole soste che, sole, potrebbero veramente dare senso alla nostra vita.

In altri casi l’elemento ricorsivo è invece meno invasivo, e assomiglia piuttosto alla firma con cui l’autore certifica che il prodotto è stato fatto proprio dalle sue mani. Spesso tale contrassegno ha una qualità sonora, come lo squillo di un campanello o di un telefono nel cuore della notte, oppure un altro rumore disturbante e sinistro, e tanto più disturbante e sinistro quanto più apparirebbe innocuo in altre condizioni, che sia l’eco lontano della piena montante di un fiume, il bussare di una porta o il tic tac di una goccia che misteriosamente sale i gradini di una scala anziché scivolare giù, perché ciascuno di questi segnali appare come «una specie di minuta palpitazione di occulte presenze annidate negli angoli d’ombra, così neri», intermittenti interferenze da cui la presunta quiete piccolo o grande borghese nella quale per lo più sguazziamo compiaciuti viene disturbata per sempre. Leggere questi racconti ti lascia spesso la sensazione che tutta l’impalcatura sociale e tecnologica a cui abbiamo assicurato le nostre fragili vite possa crollare da un momento all’altro, come se vivessimo, senza curarcene - tanto siamo assuefatti al solito tran tran - su una cordigliera di vulcani silenti ancorché pienamente attivi. E se in alcune short stories degli anni ‘50 che non avrebbero sfigurato su un numero di Urania tale percezione di un pericolo incombente trova la sua rappresentazione concreta nell’incubo atomico (vedi All’idrogeno o Rigoletto – che, con 24 marzo 1958 e Il disco si posò, costituiscono piccoli esempi di possibile fantascienza all’italiana), il più delle volte questo indefinito disagio si solleva dal piano storico a quello cosmico e si manifesta sotto forma di destino inappellabile, giacché, per bene che ti vada, prima o poi arriverà comunque la morte a battere cassa, senza riguardo per il fatto che tu la tua vita l’abbia vissuta decorosamente o l’abbia buttata via male (e in alcuni casi, il che forse è persino peggio, neppure la morte mette del tutto fine all’orrida routine quotidiana, come se in fondo fossimo già morti e, anche qui, non ce ne fossimo ancora resi conto: almeno in questo senso, l’annichilimento generale qua e là evocato risulta decisamente più auspicabile).

Buzzati ironizza ampiamente sullo spauracchio della rivoluzione, sbeffeggiando sia il peloso perbenismo di chi, avvolto in una pelliccia di visone, appare terrorizzato per la fine imminente dei propri privilegi, sia l’inconcludenza di una palingenesi continuamente annunciata ma mai davvero compiuta (tipicamente ciò avviene in Paura alla Scala e La notizia), senza mostrare molta fiducia nella realizzabilità di un effettivo riscatto in chiave sociale – e tuttavia lascia anche intendere che, in un certo senso, di una rivoluzione ci vorrebbe davvero bisogno, prima che la massificazione ottunda completamente i pensieri e chiuda ogni spiraglio alla capacità di immaginare scenari alternativi, abbandonandoci alla «costernante uniformità di vite che dovevano essere romanzo, azzardo, avventure, sogno» (con guizzo da vero narratore sperimentale, ne La parola proibita, coinvolge il lettore in una specie di test per rendergli evidente la capacità autocensoria del nostro cervello, che si accomoda sin troppo facilmente a non individuare neanche la parola mancante in un testo, senza neppure bisogno di divieti formali). Da questo punto di vista, la frontiera, il confine, e il deserto che tendenzialmente comincia appena un po’ più in là sono sì «l’incarnazione dell’ignoto che ci aspetta all’angolo», l’abisso da cui possono irrompere da un momento all’altro le orde assassine dei tartari, ma anche il territorio perennemente aperto dalle mille potenzialità, l’informe ancora da scoprire, la terra promessa a cui guardare per evadere da una vita sempre più ingabbiata in percorsi urbani ed umani obbligati (Il problema dei posteggi è forse il racconto in cui tutto questo appare più chiaro e senza filtri). Come rimugina tra sé e sé il protagonista de Il borghese stregato, colpito da una maledizione mortale durante una pacifica settimana di villeggiatura che lo uccide ma lo ha messo per un momento in contatto con questo altrove, «eroe, non già verme, non confuso con gli altri, più in alto adesso (…) ti ho vinto miserabile mondo, non mi hai saputo tenere». Meglio l’apocalisse, insomma, dell’appiattimento generale. Davvero c’è ben poco da sperare quando la paura dell’incubo spegne sul nascere il gusto di sognare.

Cronista sportivo (e di ciclismo in particolare), interessato ai fumetti come alla fantascienza, Buzzati ha tutti i requisiti per meritarsi la mia totale simpatia, anche se devo ammettere che quando gioca a carte un po’ troppo scoperte e assume una posa eccessivamente oracolare finisce per apparirmi artefatto e finanche stucchevole, con esiti che talvolta ricordano le storielle raccontate dal parroco ai bambini alla novena di Natale. Preferisco di gran lunga quando si ricorda d’essere anzitutto giornalista e ricorre ai ferri del mestiere (compreso l’uso di specificare chiaramente, sin dalle prime righe, nome, cognome, età di molti dei suoi personaggi) per elaborare, come fa ne La corazzata Tod, una sorta di fittizio reportage sul destino di una potentissima nave da guerra nazista che avrebbe dovuto essere l’arma definitiva di Hitler ma non poté più essere usata perché nel frattempo era finita la guerra o, meglio ancora, per inventare storie nerissime – che mi piacerebbe fossero state stimolate da un dispaccio giunto in redazione dalle sedi locali e condensato in un trafiletto – ambientandole in una di quelle tetre valli alpine o prealpine di cui l’Italia è ricca e che non sfigurano affatto rispetto alla brughiera inglese come luogo adeguato per inscenarci un racconto gotico. Qui, infatti, «in certi giorni di settembre, sotto alle nuvole temporalesche, non è poi detto che certe cose non possano avvenire», e al riparo di «cime tozze, a panettone, che parevano desolate e torve», i draghi forse esistono sul serio, protetti dallo «smisurato silenzio delle montagne», memorie petrose di tempi spaventosamente remoti, o i tuoi comunissimi vicini di casa possono veramente essere tenuti in ostaggio da scarafaggi giganti nelle loro ville sul lago. In questa provincia italiana, diceva Carlo Fruttero, l’atterraggio di un disco volante non risulterebbe credibile come in Texas, ma gli orrori nascosti non mancano. E poiché io in provincia ci vivo, quando la vedo rappresentata in questi termini, qualche brivido lungo la schiena effettivamente mi scorre.

(finito il 25 febbraio 2022)

Ho parlato di


Dino Buzzati
Sessanta racconti
(Mondadori 1994)

560 pp. | 14.000 lire

(ed. or.: 1958)