Alessandro Barbero è uno di quei pochissimi (come Piero Angela, Mattarella o il commissario Montalbano) per i quali sarei disposto a scomodare senza vergogna la famigerata etichetta di santo subito. Eppure l’assoluta intransigenza con cui abbandono qualunque cosa stia facendo, non appena il suo faccione sbuca sullo schermo, per raccogliere anche solo due o tre briciole di un suo qualunque intervento televisivo è andata per lungo tempo a braccetto con una non minore determinazione nel tenermi volutamente alla larga dai suoi libri, temendo l’inevitabile delusione di non potervi ritrovare la capacità affabulatoria di cui è assoluto maestro, essendo questa il risultato di mimica, gestualità e cadenze difficilmente replicabili in un testo scritto. C’è voluto il bicentenario di Waterloo, una nuova collana da edicola e un regalo di mia moglie in occasione dei miei quarant’anni per indurmi a compiere questo passo, nonché la curiosità di capire un po’ meglio come funziona davvero una battaglia napoleonica, avendone conosciuto qualcosa, fino ad allora, solo attraverso la penna sublime ma chissà quanto veritiera di Tolstoj e Stendhal.
Non si tratta evidentemente di una ricerca originale, né intende esserlo. Barbero - che proprio me lo vedo da piccolo, già coi suoi occhialetti, divertirsi un mondo a giocare coi soldatini distinguendo con cognizione di causa le rispettive divise militari come io avrei potuto riconoscere le diverse maglie delle squadre di calcio mentre le schieravo sul campo di Subbuteo – ha macinato per noi l’immensa bibliografia sul tema e ne ha ricavato la versione expanded (decisamente expanded) di una delle sue ormai celeberrime lezioni (dove la sua bravura si misura, appunto, nel riuscire a dare un’ulteriore giro di torchio a tutto questo pout-pourri di informazioni per condensarlo da par suo in appena un’ora, un’ora e mezza, di scintillante narrazione). Qui c’è pane abbondante per chi, come il sottoscritto, sebbene non abbia mai praticato in prima persona i war games, ha sempre trovato affascinanti mappe, miniature e in genere tutto ciò che contribuisce a trasfigurare la guerra da quell’indecente massacro che è in un puro gioco strategico, dal momento che tutto quel che accadde in quella giornata campale del 18 giugno 1815 (anzi, per la precisione, dalla sera prima alla notte dopo) è descritto al dettaglio, minuto per minuto, quasi come se si trattasse di una cronaca sportiva. L’accostamento non disturbi troppo, giacché lo si trova già nelle fonti. «Come molti gentiluomini inglesi, il duca [di Wellington] era un appassionato di pugilato, e gli veniva naturale descrivere una battaglia con il linguaggio di un incontro di boxe, come traspare da una lettera scritta a un amico qualche giorno dopo: “Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni” (un termine dello slang sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si lascia massacrare piuttosto che arrendersi)» (e sì, mi piace pensare che, in inglese, il termine in questione sia proprio wolverine).
Il generale inglese allude qui ai prolungati assalti della cavalleria francese addosso ai quadrati della fanteria alleata, protrattisi incessantemente per tutto il pomeriggio, tra una scarica di artiglieria e l’altra – qualcosa come una ricorsiva ondata di marea che s’abbatte ininterrottamente sulla stessa scogliera, in un testa a testa in cui quel che più contava, alla lunga, era soprattutto mantenere i nervi saldi. Infatti, in battaglie nel corso delle quali, complessivamente parlando, «soltanto una pallottola ogni 459 colpiva il suo uomo» e le perdite erano perciò relativamente basse (oscenamente basse rispetto agli standard cui ci ha abituato la guerra novecentesca), ci si continuava a sparare, in mezzo al fumo, «finché la sensazione che il fuoco nemico fosse più efficace e che la soglia di pericolo stesse crescendo un po’ troppo non si faceva strada in uno dei due battaglioni, producendone lo sbandamento» - e a quel punto era quasi sempre la fine per chi cedeva, anche se, per paradosso, le sue forze fossero state numericamente superiori a quelle avversarie (perché non c’è santo che tenga, un reparto sbrecciato non lo potevi più ricompattare in nessun modo). Perciò, per tornare al nostro corpo a corpo, «se soltanto la cavalleria, osservando segni di sbandamento in un quadrato, magari composto da reclute, fosse riuscita a entrarci e metterlo in rotta, si sarebbe aperta una falla nella linea di Wellington; e se lo stesso successo si fosse ripetuto in diversi quadrati vicini, la falla sarebbe diventata impossibile da tamponare».
Non fu, insomma, una grandissima battaglia – non lo fu per il numero complessivo degli uomini impegnati (anche se - questo è vero - concentrati tutti in uno spazio minimo di pochissimi chilometri quadrati) e soprattutto per questo suo sviluppo abbastanza monotono. Ma a onor del vero, va detto che, stante la conformazione del terreno e il modo in cui si erano messe le cose, nemmeno un genio come Napoleone «avrebbe potuto tirarne fuori qualcosa di diverso». E sebbene i resoconti del giorno ci parlino di un Bonaparte «fin troppo apatico» e molti indizi lasciano trapelare che lui e i suoi generali non abbiano lavorato «con l’efficienza abituale in altri tempi», al punto di commettere alcuni madornali errori di valutazione, ciò che può suonare sorprendente alle orecchie di coloro per cui Waterloo suona come sinonimo di disfatta totale è che, in realtà, fino all’ultimo il suo esito rimase estremamente aperto. Anzi, intorno «alle due del pomeriggio, lungo lo chemin d’Ohain tra la Haye Sainte e la Papelotte, i francesi stavano vincendo la battaglia di Waterloo». Decisivo fu l’inatteso arrivo dei prussiani, che, costringendo i francesi a dirottare una parte consistente delle truppe sul loro fianco destro, ne smorzarono quello che avrebbe dovuto essere l’attacco decisivo lungo il fronte centrale, là dove gli inglesi erano ormai alle corde, dopo averle prese per quasi tutto il giorno. «I resoconti di tutti coloro che stavano nei quadrati fra le sei e le sette del pomeriggio sono così simili fra loro, da lasciare l’impressione che con una mezz’ora in più di bombardamento la linea di Wellington si sarebbe semplicemente sfasciata, senza che i francesi avessero neppure bisogno di attaccarla». Ma per dare quest’ultimo scossone sarebbero servite a quel punto forze fresche, quei vignaioli dell’ultima ora il cui compito era precisamente quello di starsene al coperto tutto il giorno per poi uscire ad assestare il colpo finale al momento opportuno. Truppe logorate da una giornata intera trascorsa in prima linea, infatti, «se ricevono l’ordine di andare avanti, marceranno, ma alla prima difficoltà tenderanno a fermarsi; (…) basterà poco, l’esplosione di una granata in mezzo alle file, qualche grido di panico proveniente da chissà dove, l’impressione che altri stiano battendo in ritirata, perché la riluttante avanzata d’un battaglione si fermi di botto, nonostante tutte le esortazioni degli ufficiali, e perché gli uomini comincino a sbandarse e a tornare indietro». Il problema è che, se al mattino Napoleone poteva contare su una riserva strategica di trentasette battaglioni in vista dello sfondamento risolutivo, nel tardo pomeriggio gliene restava solo più una dozzina, gli altri essendo stati appunto mandati a tenere a bada i tedeschi di von Blucher. Quel numero non si rivelò sufficiente e quindi finì come tutti sappiamo. Ma il fatto che l’esercito francese non abbia comunque perduto neanche un’aquila imperiale ci autorizza a pensare che, dopotutto, pur nella disfatta, la sua ritirata non fu del tutto priva di ordine: «in quella sera di giugno, i quadrati della Vecchia Guardia scrissero l’ultima pagina dell’epopea napoleonica, entrando direttamente nella leggenda».
Cos’altro c’è del Barbero che conosciamo in questo racconto? Direi l’attenzione per le vive impressioni registrate indelebilmente nella memoria di tutta quella varia umanità che si ritrovò lì, quel giorno, su fronti opposti, a giocarsi la propria vita. Ed anche alcuni dettagli, di quelli che ti piacerebbe sentire raccontare dalla sua viva voce, con quella stessa verve che consentiva a un altro santo subito come Gigi Proietti di rendere meravigliose anche le barzellette più sceme. Ne cito giusto un paio: la storia della carrozza di Napoleone, «con le ruote vermiglie e i vetri a prova di proiettile», acquistata poi da un imprenditore inglese ed «esibita al pubblico a Londra, dove pagando pochi scellini qualsiasi curioso poté provare l’emozione di sedercisi dentro» oppure l’accenno alla piccola Elizabeth Watkins, di appena cinque anni, che rimase tutto il giorno sul campo insieme alla madre, moglie di un soldato, aiutandola a strappare tela per farne delle bende e che era ancora viva, per raccontarlo, nel 1903. Senza trascurare un’intrigante ipotesi storiografica, avanzata proprio in chiusura di libro: nonostante l’innegabile «forza simbolica» che la battaglia di Waterloo ebbe per i contemporanei e che ancora si riversa su di noi, tanto da farci continuare a occuparcene con curiosità, non è insensato supporre che, se essa fosse andata diversamente, le cose sarebbero probabilmente cambiate giusto un po’ negli anni immediatamente successivi, ma «suppergiù dal 1850 la storia del mondo sarebbe stata identica a quella che conosciamo». Forse qui prende il sopravvento lo sguardo del medievista, con la sua tipica attenzione per la lunga durata. O forse la morale è che in fondo neanche Napoleone con tutte le sue armate avrebbe potuto arrestare l’avanzata del capitalismo in marcia, il vero vincitore della modernità.
(finito il 12 agosto 2021)
Ho parlato di
La battaglia.
Storia di Waterloo
(Gedi 2021)
386 p. | 9,90 €
(ed. or.: 2003)