A pensarci bene, se ci mettessero le mani sopra un Rodriguez o un Tarantino, tra preti ubriaconi e rinnegati, poliziotti filosofeggianti, sangue, merda e tanti, tantissimi messicani, potrebbe venirne fuori un bel western dei loro. Graham Greene l’aveva pensato però in maniera diversa, come una sorta di parabola, svolgimento narrativo di un’idea che doveva essere particolarmente cara a San Paolo, perché ci ritorna spesso in quelle sue esperienze pastorali troppo facilmente ridotte a dottrina – l’idea, intendo, per cui il vangelo che annuncia è come un «tesoro in vasi di creta», in quanto affidato a persone fragili, scelte appositamente da Dio per confondere i forti e i sapienti di questo mondo. Certo, la location è ben definita: il Messico postrivoluzionario delle persecuzioni anticlericali degli anni ’20-’30, ma la storia potrebbe tranquillamente svolgersi in un futuro mondo secolarizzato in cui il rito cristiano non abbia più significato del brivido inconsapevole e atavico procurato da un gatto nero quando ci taglia la strada. Il protagonista, del resto, non ha un nome, e neppure un volto ben definito, se è vero che i suoi stessi persecutori non lo riconoscono dalle foto appese nelle loro centrali. La sua condizione è scolpita nell’etichetta caricaturale di “prete dell’acquavite”, cui deve la sua torbida fama: quella di un perseguitato che continua ad attraversare clandestinamente il paese, cedendo spesso al vizio del bere e occasionalmente a quello del sesso, schiacciato dal peso della sua indegnità, «conscio della propria disperata insufficienza» e ciò nonostante pervicacemente impegnato a riattivare il culto nei luoghi in cui di volta in volta sosta, per mezze giornate o poco più, destando al tempo stesso conforto e preoccupazione nella gente (su cui le autorità spesso e volentieri infieriscono per ritorsione quando scoprono che l’hanno ospitato). Non si capisce bene se lo faccia per rassegnazione, superstizione, senso del dovere o perché animato da una sincera vocazione – e forse proprio in questo guazzabuglio sta il fascino di un personaggio nè canaglia nè martire. Il quale sa benissimo di offrire una pessima testimonianza a un messaggio che ormai egli stesso stenta a capire: in mancanza di altri preti, i bambini «da lui avrebbero preso le loro idee sulla religione Ma era pure da lui che prendevano Dio sulle loro bocche... Senza di lui, sarebbe stato come se in tutto quello spazio tra il mare e le montagne Dio avesse cessato di esistere». Ecco perché sarebbe forse più opportuno tradurre il titolo "la potenza e la gloria", affinché riecheggi meglio la formula liturgica che sta tra il Padre Nostro e il segno di pace durante la Messa, alle soglie della comunione. Quella potenza che accetta, appunto, di farsi toccare e consacrare da fragili mani umane, non importa quanto sozze (benché lavate, ritualmente, dal chierichetto di turno).
Certo, per chi crede, qui è racchiuso un mistero profondo. Ma si manifesta anche un possibile paradosso tutto cattolico. «Non poteva più sentire nessun significato in preghiere simili; l’Ostia era un’altra cosa: metterla tra le labbra d’un uomo morente, era come mettervi Dio. Quella era un fatto, qualche cosa che si poteva toccare, ma questa era soltanto una pia aspirazione. Perché Qualcuno avrebbe dovuto ascoltare le sue preghiere? Il peccato era una forza che impediva loro di salire: egli poteva sentire le proprie preghiere grevi come il cibo indigesto nel proprio corpo, incapaci di evasione». Questo oggettivismo esasperato, per cui Dio c’è davvero solo dove c’è un suo ministro, sia pure inadempiente, solo dove ci sono il pane e il vino, rischia di farci scivolare davvero verso la pura magia devozionale. Siamo fragili, d’accordo. Ma Paolo stesso aggiunge che il nostro corpo è anche «tempio dello Spirito». Hai voglia a ingozzarlo di ostie: se non c’è conversione, anche il pane eucaristico finisce nella latrina, esattamente come il lievito dei farisei. Per questo, a mio avviso, il momento più alto del libro è quando il prete trascorre una notte in prigione, questo luogo «molto simile al mondo: traboccante di lussuria, di crimini e d’amore infelice; pieno di fetore; (...) la gente si aggrappava a quanto poteva esser causa di piacere e di orgoglio, in mezzo a stenti e in un ambiente sgradevole; non c’era tempo di fare qualche cosa che valesse la pena di fare, e si sognava sempre di evadere». Qui, in mezzo agli assassini, «delinquente, in mezzo a un’orda di delinquenti», il nostro prova per la prima volta un sentimento che non aveva mai sperimentato quando organizzava le riunioni della parrocchia e la gente faceva la coda per baciargli la stola, ai bei tempi in cui era credente per abitudine e commetteva solo peccatucci veniali. «Allora, nella sua innocenza, egli non aveva provato amore per nessuno: ora, nella sua corruzione, aveva imparato a...». La frase resta sospesa. Eppura solo qui, libero dal paraocchi perbenista di chi divide il mondo in santi e peccatori, il prete, senza assolvere se stesso, capisce che non può neppure condannare gli altri e che l’odio è «semplicemente una mancanza di immaginazione». Sul Golgota, attorniato dai ladroni, non fa più le prediche che pronunciava dal pulpito. Il mattino dopo lo costringeranno a lavare i bagni della prigione: in quel gesto umile e inutile di pulizia della lordura degli ultimi eccolo dare finalmente senso e concretezza storica all’atto che celebra sull’altare. Anche se, forse, non se ne rende conto. La consapevolezza di ciò lo sfiora appena. Se l’avesse capito, del resto, sarebbe diventato l’eroe che non è.
Certo, per chi crede, qui è racchiuso un mistero profondo. Ma si manifesta anche un possibile paradosso tutto cattolico. «Non poteva più sentire nessun significato in preghiere simili; l’Ostia era un’altra cosa: metterla tra le labbra d’un uomo morente, era come mettervi Dio. Quella era un fatto, qualche cosa che si poteva toccare, ma questa era soltanto una pia aspirazione. Perché Qualcuno avrebbe dovuto ascoltare le sue preghiere? Il peccato era una forza che impediva loro di salire: egli poteva sentire le proprie preghiere grevi come il cibo indigesto nel proprio corpo, incapaci di evasione». Questo oggettivismo esasperato, per cui Dio c’è davvero solo dove c’è un suo ministro, sia pure inadempiente, solo dove ci sono il pane e il vino, rischia di farci scivolare davvero verso la pura magia devozionale. Siamo fragili, d’accordo. Ma Paolo stesso aggiunge che il nostro corpo è anche «tempio dello Spirito». Hai voglia a ingozzarlo di ostie: se non c’è conversione, anche il pane eucaristico finisce nella latrina, esattamente come il lievito dei farisei. Per questo, a mio avviso, il momento più alto del libro è quando il prete trascorre una notte in prigione, questo luogo «molto simile al mondo: traboccante di lussuria, di crimini e d’amore infelice; pieno di fetore; (...) la gente si aggrappava a quanto poteva esser causa di piacere e di orgoglio, in mezzo a stenti e in un ambiente sgradevole; non c’era tempo di fare qualche cosa che valesse la pena di fare, e si sognava sempre di evadere». Qui, in mezzo agli assassini, «delinquente, in mezzo a un’orda di delinquenti», il nostro prova per la prima volta un sentimento che non aveva mai sperimentato quando organizzava le riunioni della parrocchia e la gente faceva la coda per baciargli la stola, ai bei tempi in cui era credente per abitudine e commetteva solo peccatucci veniali. «Allora, nella sua innocenza, egli non aveva provato amore per nessuno: ora, nella sua corruzione, aveva imparato a...». La frase resta sospesa. Eppura solo qui, libero dal paraocchi perbenista di chi divide il mondo in santi e peccatori, il prete, senza assolvere se stesso, capisce che non può neppure condannare gli altri e che l’odio è «semplicemente una mancanza di immaginazione». Sul Golgota, attorniato dai ladroni, non fa più le prediche che pronunciava dal pulpito. Il mattino dopo lo costringeranno a lavare i bagni della prigione: in quel gesto umile e inutile di pulizia della lordura degli ultimi eccolo dare finalmente senso e concretezza storica all’atto che celebra sull’altare. Anche se, forse, non se ne rende conto. La consapevolezza di ciò lo sfiora appena. Se l’avesse capito, del resto, sarebbe diventato l’eroe che non è.