Per quanto sia un principio oggi in declino, in linea di massima resta valido che, per poter parlare di una cosa, uno dovrebbe avere almeno una vaga idea di cosa sia la cosa di cui vorrebbe parlare. E invece, anche se è trascorso più di un anno, io non credo di avere ancora capito bene che cosa ho effettivamente letto quando ho portato a termine questo libro di Don DeLillo su cui mi sto accigendo a scrivere le mie consuete due righe, per cui confesso un certo imbarazzo. Il formato ridotto rispetto a un tradizionale Supercorallo suscita il sospetto di un maquillage editoriale per poter far apparire quantomeno come un romanzetto, stiracchiandolo fino al centinaio di pagine, un testo che, se guardiamo solo alla lunghezza, non sembrerebbe avere i requisiti minimi per rientrare in quella categoria merceologica. Tuttavia, se si considerano la divisione in due parti, l’ulteriore scomposizione di queste parti in brevi, talora brevissimi, capitoletti (che nella seconda sezione perdono ogni indicatore numerico e anche quella specie di titoletto riportato in esergo presenti invece nella prima), la presenza di diversi personaggi che restano però appena abbozzati senza che emerga un chiaro filo narrativo, ma soprattutto un periodare spesso ridotto a sequenze di frasi puramente nominali, con molti spunti e tantissime domande lasciati cadere senza ulteriore approfondimento – questi son tutti indizi che fanno pensare, più che a un’opera compiuta, foss'anche un racconto, a una sorta di palinsesto che potrebbe costituire semmai la traccia per un eventuale, futuro, romanzo tutto ancora da definire.
Del resto, l’argomento prescelto meriterebbe senz’altro più ampio respiro. DeLillo – e questo è meritorio – non ha infatti paura di sporcarsi le mani con quello che potrebbe sembrare un soggetto di genere, roba da fantascienza catastrofista, come il collasso mondiale di tutti i sistemi di comunicazione e di tutti gli strumenti elettronici, per portare avanti il discorso già intrapreso nel precedente Zero K a proposito della sempre più stringente interazione tra uomo e macchina che ci rende già di fatto, per molti aspetti, una specie postumana. Più o meno, ecco la domanda: «cosa succede alle persone che vivono dentro al loro telefono» quando il telefono si spegne definitivamente e ogni interfaccia si riduce a uno schermo nero? «Posso dirvi questo», prova a rispondere la receptionist di un ospedale ormai totalmente ingestibile, «di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsioni o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere il nostro destino?». Subito dopo, anche «le luci sul soffitto cominciarono a sfarfallare e ad affievolirsi finché non si spensero del tutto. La clinica piombò improvvisamente nel silenzio. Tutti aspettavano. E oltre a questo, un senso generale di paura per l’attesa stessa, perché ancora non era chiaro il significato di ciò che stava avvenendo, quanto fosse catastrofica e definitiva quell’anomalia che andava ad aggiungersi a una serie di eventi già di per sé drammatici».
Ed in effetti nessuno capisce che cosa stia succedendo. «É sempre stato ai margini della nostra percezione. L’interruzione della corrente, la tecnologia che piano piano si dilegua» - eppure si resta tutti disorientati, lettore compreso, di fronte a una situazione che non si riesce neppure a nominare. Un po’ come è accaduto con il lockdown, quando il blocco improvviso della routine quotidiana ci ha messo di fronte al vuoto di una nuda vita che in molti non sapevano neanche più di possedere, tanto si era sovraccaricata di riunioni, impegni e attività, così il tacere contemporaneo di tutti gli strumenti elettronici del mondo fa piombare l’umanità in uno stato di sospensione, quasi che con lo spegnimento della lucina rossa dell’alimentazione dei nostri strumenti ci si aspettasse, da un momento all’altro, anche l’esaurirsi del nostro stesso respiro (che invece, curiosamente, continua: «toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua»). Qualcuno parla di «Terza guerra mondiale», qualcuno dice che stiamo assistendo a «un processo di zombificazione», ma in realtà «nessuno ha idea di cosa stia dicendo». Potrebbe essere un’invasione aliena o la proliferazione di un virus informatico o qualcosa di ancor più inconcepibile: «e se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?» - come una sorta di reset cosmico, un update del sistema che prevede la cancellazione dei dati precedenti e la loro sovrascrittura con una versione aggiornata, prova definitiva che la nostra sedicente realtà non sarebbe altro che una simulazione tridimensionale prodotta da una qualche funzione quantistica (tesi che è stata peraltro sostenuta e argomentata recentemente in sede accademica).
A un certo punto, «la gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, s’interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudio». Insomma, è arrivata l’apocalisse, ma se non c’è più neanche il Televideo per dircelo, non siamo in grado di rendercene conto. E se non siamo più allacciati alla rete delle reti, come facciamo a dire ancora che stiamo davvero vivendo tutti quello che stiamo vivendo? Che il mondo è ancora il “nostro” mondo, una realtà condivisa?
I frammenti sparsi che ho estrapolato spero diano un’idea della frammentarietà stessa del libro. Poiché, quando conosci molto bene una persona, puoi comprenderne le sfumature di pensiero anche da un minimo moto del viso che ai più resta impercettibile, è probabile che chi ha una certa familiarità con DeLillo possa riconoscervi comunque bagliori di genio – più di me, per lo meno, che, pur incuriosito, sono arrivato rapidamente alla fine per ritrovarmi a pensare, come lo spettatore di un trailer, “bello, ma quand’è che comincia la storia?”.
(finito il 30 aprile 2021)
Ho parlato di
Il silenzio
(Einaudi 2021)
Trad. di F. Aceto
104 pp. | 14 €
(ed. or.: The Silence, 2020)