Questa volta sappiamo che viso avesse e pure come si chiamava: Gaetano Bresci, nato a Coiano di Prato da Gaspero e Maddalena il 10 novembre 1869, esattamente un giorno prima del futuro re Vittorio Emanuele III, «che sarebbe diventato re un po’ in anticipo sui piani della natura, proprio per sua intercessione», essendo Bresci colui che con un colpo di rivoltella andato a segno mandò all’altro mondo Umberto I di Savoia, a Monza, la sera del 29 luglio 1900. Nelle sue intenzioni quell’omicidio avrebbe dovuto inaugurare un nuovo secolo «senza tiranni e quindi senza guerra, senza fame e senza povertà (...), dove ognuno era veramente libero, poteva esprimersi senza paura, poteva lavorare senza essere sfruttato, poteva amare tutti, poteva, appunto, essere libero». Non è andata proprio così. Sarebbe stato un altro sparo, qualche anno dopo, ad aprire - questa volta sì, per davvero - il secolo breve e ne sarebbe venuto fuori un immane massacro.
Anche per questo motivo, quella in cui morì re Umberto (dopo lo zar Alessandro, dopo Sadi Carnot, dopo Canovas, dopo l’imperatrice Sissi), più che un momento aurorale, potrebbe essere definita piuttosto come «l’ultima estate dell’anarchia». Sia la vittima, uccisa su un’arcaica carrozza nell’era incipiente delle automobili, sia l’attentatore appartengono infatti ancora a un orizzonte pienamente ottocentesco, in cui tanto l’oppressione quanto la sovversione sono per lo più una questione di élites. Bresci stesso si sentiva parte di «un’avanguardia di illuminati» capaci di prendere l’iniziativa e compiere quel passo che i più non erano abbastanza intrepidi per fare. «Romanticamente convinto della crucialità dell’atto individuale nel dispiegarsi della storia», immaginava che il suo gesto, concepito senza appoggi e in totale autonomia, avrebbe potuto innescare movimenti rivoluzionari nei vari popoli del mondo. Gli mancava del tutto la consapevolezza che, per farsi realmente storia, l’azione delle masse popolari richiedesse invece di essere organizzata intorno a una qualche forma di sintesi condivisa. Suo malgrado, Bresci comprese a cose fatte, quando nessuno scese in piazza per chiedere la sua liberazione, che «non bastava più uccidere il re o l’imperatore, come nell’antica Roma, per cambiare le cose, per sovvertire l’ordine costituito. Adesso tutto era più complesso, più difficile». Si poteva stare «dalla parte giusta della storia» e ritrovarsi ciononostante in una «solitudine assoluta», proprio come l’isolamento che gli fu imposto dopo la condanna all’ergastolo, dal momento che il Codice Zanardelli aveva già da tempo abolito la pena di morte dall’ordinamento giuridico italiano (sebbene, proprio in quell’occasione, ci fosse chi ne reclamasse il ripristino: senza il patibolo, si diceva, il nostro paese è diventato la patria dei briganti e degli assassini politici). Per questo anche figure non certo sospettabili di simpatie monarchiche o reazionarie, come lo stesso Errico Malatesta, denunciarono l’inefficacia di quell’attentato velleitario, che nell’immediato provocò solo un’ulteriore stretta poliziesca in un periodo già pieno di tensioni e di tentazioni autoritarie (sbattere l’anarchico in prima pagina torna alla fine sempre utile alle guardie, che se ne ricorderanno con Valpreda).
Se già mediamente conosciamo poco la nostra storia unitaria, pochissima familiarità abbiamo in particolare con quella stagione, collocata tra il Risorgimento e la Grande Guerra, che invece meriterebbe maggiore attenzione. «É un Paese che cammina su una corda sospesa nel vuoto, quello di fine secolo. Basta poco per farlo cadere nel baratro» - e non sono pochi a ritenere «che una dittatura di qualche anno avrebbe fatto bene», per riportare ordine e moralità. Marco Albeltaro ricostruisce appunto il clima surriscaldato in cui Bresci matura il suo piano, provando a mostrare come le diverse catene causali della “grande storia” e delle vicende personali di un singolo uomo possano incontrarsi, dopo molti giri, in un determinato punto dello spaziotempo. Per farlo ricorre a una curiosa forma di storytelling: come «un film incastonato in un documentario», secondo la sua stessa definizione, l’autore segue infatti, intrecciandoli, i punti di vista di tre personaggi, di cui uno inventato di sana pianta, ossia il re, l’anarchico e il cocchiere (e punterei qualche euro sul fatto che sarebbe stato scelto proprio questo titolo se le regole di questa collana non prevedessero altrimenti). L’idea, buona magari per una docufiction, e forse pensata proprio in quell’ottica, mi pare meno adatta per un saggio storico, che può fare tranquillamente a meno delle immaginarie elucubrazioni di un servitore sul fatto che il sangue sparso dal corpo del re non sia blu come s’aspettava. Meglio attenersi alle fonti documentarie, tanto più che contengono numerose chicche senza bisogno di romanzare nulla.
Impressiona, ad esempio, la piaggeria nauseante dei giornali all’indomani della morte del re “buono”, pieni di articoli «in cui non si capisce se si stia parlando di re Umberto o del fratello gemello di Gesù Cristo», leggendo i quali ti vien davvero voglia di dare ragione a Bresci e ringrazi una volta di più che il 2 giugno sia andata com’è andata. La “Domenica del Corriere” del 5 agosto 1900 (quella con la canonica copertina di Achille Beltrame che, in mancanza di fotografie dell’evento, ne ha trasmesso l’iconografia definitiva), scrive ad esempio che Bresci «ha assassinato un uomo, un marito, un padre, un Re di trenta milioni di sudditi che in Lui vedevano il coraggioso soldato delle prime battaglie per l’indipendenza della patria, il figlio di Vittorio Emanuele, che seppe imporsi gravi sacrifici economici perché la memoria di Lui restasse pura; il consolatore degli appestati, l’aiutatore di tutti i miseri, di tutti i sofferenti, dei bersagliati dalla sorte. Se Vittorio è passato nella storia come il Re Galantuomo, Umberto I vi passa ora come il Re pietoso, umano, leale». Pura retorica, eppure, benchè profondamente reazionario, Umberto era in fondo il moderato di casa. Chi detestava profondamente tutte le forze politiche progressiste era soprattutto la regina Margherita. Fosse stato per lei, avrebbe richiamato Crispi al governo e imposto «lo stato d’assedio: qualche fucilata, un po’ di gente in prigione e le cose si sarebbero sistemate. Come si sono sempre sistemate». Eppure proprio lei era anche «la più amata del regno (...), con il suo modo di vestire ricercatissimo che faceva sognare il popolo e la cordialità e la gentilezza che dimostrava con i sudditi». I quali, incantati, le dedicarono la pizza più famosa e perfino i versi terribilmente kitsch del repubblicano Carducci.
C’è qualcosa di profondamente rivelatorio del carattere italiano e del suo complesso rapporto col potere in questa storia che mette insieme individualismo anarcoide e sottomissione servile. Così come c’è qualcosa di italiano anche nel cancan che imperversò nelle settimane successive sulla stampa nazionale intorno alla figura di Bresci. Non ci si fa mancare nulla, comprese le interviste pelose ai familiari e l’analisi dei suoi caratteri somatici. Ma ve l’immaginate quanto si sfregherebbe le mani Bruno Vespa se Lombroso fosse ancora vivo come lo era allora e potesse essere invitato tutte le settimane in televisione? Senonché Lombroso non ravvisò in Bresci indizi fisiognomici che facessero pensare a qualche tara ereditaria e avanzò una spiegazione tutta politica del fatto, la spiegazione più semplice: Bresci avrà pure sbagliato, ma l’attentato era la logica conseguenza di una miope politica repressiva che, sottraendo sempre più margini di libertà a una società in fase di sviluppo, generava crescente insofferenza e rancore nei gruppi meno tutelati. É significativo che “Il Tempo” fosse stato sequestrato «solo perché aveva pubblicato la fotografia di Bresci e, non essendo l’anarchico un mostro con i tratti somatici lombrosianamente da delinquente, le autorità ritennero inopportuno diffonderne l’immagine: non si poteva permettere al popolo di credere che una persona normale avesse compiuto un simile atto». A Bresci gran parte di questa caciara fu risparmiata, se così si può dire, perché condannato, come detto, a un ergastolo durissimo nel carcere di Santo Stefano, sulle Isole Pontine, rinchiuso dentro una cella tre metri per tre dov’era guardato a vista da secondini che avevano ricevuto l’ordine di non rivolgergli mai la parola. Ci sarebbe rimasto un annetto scarso, poiché il 22 maggio 1901 venne trovato morto. Suicidio, dirà la questura – ma a crederci fu solo quella stessa stampa che proclamava Margherita come «la donna più intelligente d’Italia». Almeno in questa fine Bresci è riuscito ad essere un po’ novecentesco.
(finito il 28 marzo 2021)
Ho parlato di
29 luglio 1900
(Laterza 2019)
150 pp. | 18 €