martedì 21 giugno 2022

29 luglio 1900

Questa volta sappiamo che viso avesse e pure come si chiamava: Gaetano Bresci, nato a Coiano di Prato da Gaspero e Maddalena il 10 novembre 1869, esattamente un giorno prima del futuro re Vittorio Emanuele III, «che sarebbe diventato re un po’ in anticipo sui piani della natura, proprio per sua intercessione», essendo Bresci colui che con un colpo di rivoltella andato a segno mandò all’altro mondo Umberto I di Savoia, a Monza, la sera del 29 luglio 1900. Nelle sue intenzioni quell’omicidio avrebbe dovuto inaugurare un nuovo secolo «senza tiranni e quindi senza guerra, senza fame e senza povertà (...), dove ognuno era veramente libero, poteva esprimersi senza paura, poteva lavorare senza essere sfruttato, poteva amare tutti, poteva, appunto, essere libero». Non è andata proprio così. Sarebbe stato un altro sparo, qualche anno dopo, ad aprire - questa volta sì, per davvero - il secolo breve e ne sarebbe venuto fuori un immane massacro.

Anche per questo motivo, quella in cui morì re Umberto (dopo lo zar Alessandro, dopo Sadi Carnot, dopo Canovas, dopo l’imperatrice Sissi), più che un momento aurorale, potrebbe essere definita piuttosto come «l’ultima estate dell’anarchia». Sia la vittima, uccisa su un’arcaica carrozza nell’era incipiente delle automobili, sia l’attentatore appartengono infatti ancora a un orizzonte pienamente ottocentesco, in cui tanto l’oppressione quanto la sovversione sono per lo più una questione di élites. Bresci stesso si sentiva parte di «un’avanguardia di illuminati» capaci di prendere l’iniziativa e compiere quel passo che i più non erano abbastanza intrepidi per fare. «Romanticamente convinto della crucialità dell’atto individuale nel dispiegarsi della storia», immaginava che il suo gesto, concepito senza appoggi e in totale autonomia, avrebbe potuto innescare movimenti rivoluzionari nei vari popoli del mondo. Gli mancava del tutto la consapevolezza che, per farsi realmente storia, l’azione delle masse popolari richiedesse invece di essere organizzata intorno a una qualche forma di sintesi condivisa. Suo malgrado, Bresci comprese a cose fatte, quando nessuno scese in piazza per chiedere la sua liberazione, che «non bastava più uccidere il re o l’imperatore, come nell’antica Roma, per cambiare le cose, per sovvertire l’ordine costituito. Adesso tutto era più complesso, più difficile». Si poteva stare «dalla parte giusta della storia» e ritrovarsi ciononostante in una «solitudine assoluta», proprio come l’isolamento che gli fu imposto dopo la condanna all’ergastolo, dal momento che il Codice Zanardelli aveva già da tempo abolito la pena di morte dall’ordinamento giuridico italiano (sebbene, proprio in quell’occasione, ci fosse chi ne reclamasse il ripristino: senza il patibolo, si diceva, il nostro paese è diventato la patria dei briganti e degli assassini politici). Per questo anche figure non certo sospettabili di simpatie monarchiche o reazionarie, come lo stesso Errico Malatesta, denunciarono l’inefficacia di quell’attentato velleitario, che nell’immediato provocò solo un’ulteriore stretta poliziesca in un periodo già pieno di tensioni e di tentazioni autoritarie (sbattere l’anarchico in prima pagina torna alla fine sempre utile alle guardie, che se ne ricorderanno con Valpreda).

Se già mediamente conosciamo poco la nostra storia unitaria, pochissima familiarità abbiamo in particolare con quella stagione, collocata tra il Risorgimento e la Grande Guerra, che invece meriterebbe maggiore attenzione. «É un Paese che cammina su una corda sospesa nel vuoto, quello di fine secolo. Basta poco per farlo cadere nel baratro» - e non sono pochi a ritenere «che una dittatura di qualche anno avrebbe fatto bene», per riportare ordine e moralità. Marco Albeltaro ricostruisce appunto il clima surriscaldato in cui Bresci matura il suo piano, provando a mostrare come le diverse catene causali della “grande storia” e delle vicende personali di un singolo uomo possano incontrarsi, dopo molti giri, in un determinato punto dello spaziotempo. Per farlo ricorre a una curiosa forma di storytelling: come «un film incastonato in un documentario», secondo la sua stessa definizione, l’autore segue infatti, intrecciandoli, i punti di vista di tre personaggi, di cui uno inventato di sana pianta, ossia il re, l’anarchico e il cocchiere (e punterei qualche euro sul fatto che sarebbe stato scelto proprio questo titolo se le regole di questa collana non prevedessero altrimenti). L’idea, buona magari per una docufiction, e forse pensata proprio in quell’ottica, mi pare meno adatta per un saggio storico, che può fare tranquillamente a meno delle immaginarie elucubrazioni di un servitore sul fatto che il sangue sparso dal corpo del re non sia blu come s’aspettava. Meglio attenersi alle fonti documentarie, tanto più che contengono numerose chicche senza bisogno di romanzare nulla.

Impressiona, ad esempio, la piaggeria nauseante dei giornali all’indomani della morte del re “buono”, pieni di articoli «in cui non si capisce se si stia parlando di re Umberto o del fratello gemello di Gesù Cristo», leggendo i quali ti vien davvero voglia di dare ragione a Bresci e ringrazi una volta di più che il 2 giugno sia andata com’è andata. La “Domenica del Corriere” del 5 agosto 1900 (quella con la canonica copertina di Achille Beltrame che, in mancanza di fotografie dell’evento, ne ha trasmesso l’iconografia definitiva), scrive ad esempio che Bresci «ha assassinato un uomo, un marito, un padre, un Re di trenta milioni di sudditi che in Lui vedevano il coraggioso soldato delle prime battaglie per l’indipendenza della patria, il figlio di Vittorio Emanuele, che seppe imporsi gravi sacrifici economici perché la memoria di Lui restasse pura; il consolatore degli appestati, l’aiutatore di tutti i miseri, di tutti i sofferenti, dei bersagliati dalla sorte. Se Vittorio è passato nella storia come il Re Galantuomo, Umberto I vi passa ora come il Re pietoso, umano, leale». Pura retorica, eppure, benchè profondamente reazionario, Umberto era in fondo il moderato di casa. Chi detestava profondamente tutte le forze politiche progressiste era soprattutto la regina Margherita. Fosse stato per lei, avrebbe richiamato Crispi al governo e imposto «lo stato d’assedio: qualche fucilata, un po’ di gente in prigione e le cose si sarebbero sistemate. Come si sono sempre sistemate». Eppure proprio lei era anche «la più amata del regno (...), con il suo modo di vestire ricercatissimo che faceva sognare il popolo e la cordialità e la gentilezza che dimostrava con i sudditi». I quali, incantati, le dedicarono la pizza più famosa e perfino i versi terribilmente kitsch del repubblicano Carducci.

C’è qualcosa di profondamente rivelatorio del carattere italiano e del suo complesso rapporto col potere in questa storia che mette insieme individualismo anarcoide e sottomissione servile. Così come c’è qualcosa di italiano anche nel cancan che imperversò nelle settimane successive sulla stampa nazionale intorno alla figura di Bresci. Non ci si fa mancare nulla, comprese le interviste pelose ai familiari e l’analisi dei suoi caratteri somatici. Ma ve l’immaginate quanto si sfregherebbe le mani Bruno Vespa se Lombroso fosse ancora vivo come lo era allora e potesse essere invitato tutte le settimane in televisione? Senonché Lombroso non ravvisò in Bresci indizi fisiognomici che facessero pensare a qualche tara ereditaria e avanzò una spiegazione tutta politica del fatto, la spiegazione più semplice: Bresci avrà pure sbagliato, ma l’attentato era la logica conseguenza di una miope politica repressiva che, sottraendo sempre più margini di libertà a una società in fase di sviluppo, generava crescente insofferenza e rancore nei gruppi meno tutelati. É significativo che “Il Tempo” fosse stato sequestrato «solo perché aveva pubblicato la fotografia di Bresci e, non essendo l’anarchico un mostro con i tratti somatici lombrosianamente da delinquente, le autorità ritennero inopportuno diffonderne l’immagine: non si poteva permettere al popolo di credere che una persona normale avesse compiuto un simile atto». A Bresci gran parte di questa caciara fu risparmiata, se così si può dire, perché condannato, come detto, a un ergastolo durissimo nel carcere di Santo Stefano, sulle Isole Pontine, rinchiuso dentro una cella tre metri per tre dov’era guardato a vista da secondini che avevano ricevuto l’ordine di non rivolgergli mai la parola. Ci sarebbe rimasto un annetto scarso, poiché il 22 maggio 1901 venne trovato morto. Suicidio, dirà la questura – ma a crederci fu solo quella stessa stampa che proclamava Margherita come «la donna più intelligente d’Italia». Almeno in questa fine Bresci è riuscito ad essere un po’ novecentesco.

(finito il 28 marzo 2021)

Ho parlato di 


Marco Albertaro
29 luglio 1900
(Laterza 2019)

150 pp. | 18 €

venerdì 3 giugno 2022

Wolf Hall

La potenza dell’affabulazione è tale che - come chiunque può facilmente verificare - persino chi ha vissuto in prima persona un evento, man mano che lo racconterà ad altri, tenderà poco per volta a deformare involontariamente la propria memoria, inducendosi a credere che i fatti si siano svolti come se li è andati rappresentando nella sua storia anziché come sono davvero accaduti – e tanto più ciò accadrà quanto più tale storia risulterà avvincente e ben congegnata. Proprio per questo provo sempre un sottile disagio di fronte a quelle opere narrative che si propongono di ricostruire realisticamente una determinata epoca storica, soprattutto se mettono in scena personaggi realmente vissuti ed avvenimenti storici rilevanti: quando infatti la scrittura è fluida e documentata, la simulazione si fa particolarmente suasiva ed è un attimo che il bello prevalga sul vero e senza accorgertene ti ritrovi a spiegare a scuola la battaglia di Borodino dal punto di vista di Tolstoj o quella di Waterloo secondo Stendhal, spacciando implicitamente per fonte quella che invece è già una rielaborazione. E se funziona meglio, tanto peggio, poiché così la manipolazione si fa impercettibile e più difficile da contrastare. Nasce di qui la mia predilezione per i romanzi che parlano del loro presente e che poi, col passare degli anni, diventano anche testimonianza; oppure per i racconti che giocano apertamente col loro soggetto senza volerti suggerire che le cose siano andate davvero così. Ma dei drammatici scrupoli esistenziali del professore di storia i più possono tranquillamente infischiarsene, considerandoli semmai come un obliquo, ancorché ambiguo, elogio di questo libro di Hilary Mantel, capitolo iniziale di una premiatissima trilogia dedicata all’epoca della prima Brexit, quando le voglie di Enrico VIII portarono Londra fuori dall’orbita romana, avviando un processo che avrebbe fatto di «questa sventurata isola piovosa ai confini della terra», fin lì quasi ininfluente per la sorti d’Europa, la patria di Shakespeare e la capofila della modernità.

Più che il monarca, tuttavia, raffigurato come un bamboccione rinchiuso in un corpo monumentale e «priapeo», pronto e gettarsi in una partita di bocce come se fosse un torneo tra cavalieri e incapace di tenere abbottonati i pantaloni per più di cinque minuti, l’autentico pilota di questa transizione e indiscutibile, affascinante, protagonista del romanzo, è il personaggio mostrato in copertina nel celebre ritratto fattogli da Holbein. Sir Thomas Cromwell (poiché è di lui che si parla) è un uomo dalle origini oscure. Poiché la sua data di nascita non fu mai registrata, di sé può dire «non ho un tema astrale, per cui non ho un destino». E difatti, da vero protagonista del Rinascimento, il suo destino se lo fabbrica da sé, attraverso una giovinezza avventurosa spesa a divorare avidamente pagine e pagine del gran libro del mondo, in Francia ma soprattutto in Italia, dove conosce le tecniche della memoria, quelle della finanza e della politica, e dove apprende in particolare una «elasticità mentale» sconosciuta ai suoi conterranei («siete un italiano fino al midollo, con tutti i loro vizi e le loro passioni», gli viene non per nulla rinfacciato a un certo punto, e non si capisce bene se sia un insulto o un complimento). Chi è questo lettore di Machiavelli e Pacioli che, seppur privo di blasone e di ricchezze, arrivò a tenere ambo le chiavi del cuore di re Enrico, diventandone primo ministro e cancelliere? «Un subdolo imbroglione», «uno scalzacane borioso che tenta la sorte grazie al disordine dei tempi», oppure «un genio», come dice la gente, uno che sa citare la Bibbia a memoria ma anche convincere qualunque creditore a dilazionare un prestito, uno che «può tenere una conversazione sui Cesari o procurarvi vetri di Murano a un sovrapprezzo ragionevole. Nessuno lo supera per parlantina, quando ha voglia di parlare» (Thomas, gli riconosce un amico, «sarai cadavere sotto una lastra di pietra e a forza di parlare convincerai la tomba a lasciarti uscire»). Anima “a diversi piani”, come quella lodata da Montaigne, su di lui i conti non quadrano mai. In cosa creda veramente nessuno riesce a dirlo. Ma del resto, come potrebbero capirlo gli altri, «quando io stesso – afferma – non conosco le mie mosse»?

Questo instancabile tessitore di trame che ogni mattina, prima di uscire di casa, adatta i lineamenti del viso trasformandolo in maschera, come suggeriva di fare Erasmo e avrebbe poi fatto Cartesio, è tuttavia persona leale e di buon senso, disposta a immergere le mani nel fango di discutibili compromessi («per me non c’è redenzione», confessa malinconicamente in una pausa di riflessione), pur di evitare guai peggiori al suo paese e salvare vite innocenti. L’esatto contrario dell’assai più famoso Thomas More, qui presentato con tratti molto diversi da quelli con cui è solitamente descritto, ossia come un fanatico cacciatore di eretici in cilicio che si spingerà con compiacimento al martirio personale senza riguardo per le ricadute che la sua bella morte avrà sull’Inghilterra e sulla cristianità. Alla sua erudizione bigotta e intransigente è sistematicamente contrapposta, con intento ideologico fin troppo scoperto, la coscienza laica di Cromwell: se il primo ride ferocemente dei suoi simili - Moro è abilissimo a «coniare battute perfide, pur essendo incapace di accettarle» - ma ha scarsa fiducia nella possibilità di migliorare questo mondo («Utopia, in fondo, non è un posto dove sia possibile vivere»), il secondo mostra una versatilità scettica che sa diventare autentica pietas. Cromwell «non è un sacerdote mancato, un predicatore frustrato come Tomaso Moro. Non c’è volta in cui lo incontri – Moro è una stella di un altro firmamento, il cui saluto è un arcigno cenno del capo – che non gli venga voglia di chiedergli, ma cos’hai che non va? O, cosa ho io che non va? Perché tutte le cose che sai, le cose che hai studiato, tornano soltanto a conferma di quanto credevi prima? In me, invece, quello con cui sono cresciuto e in cui pensavo di credere è stato scalpellato via un poco alla volta, prima un frammento, poi un pezzo intero e poi un altro ancora. A ogni mese che passa si smussano le certezze che avevo su questo mondo: e anche sull’altro».

Mentre tale tensione sotterranea tiene in piedi il palco, su di esso vanno intanto in scena tutti i maneggi per rimaritare Enrico VIII, con tale sfoggio vertiginoso di personaggi da suscitare a tratti stordimento. Qualcuno di essi, però, emerge chiaramente dallo sfondo: il cardinale Wolsey, per esempio, protettore di Cromwell prima di cadere in disgrazia, uno che «non vive mai in un’unica realtà, ma in una mutevole, impalpabile rete di possibilità diplomatiche» e che «non riesce ad accettare che una proprietà immobiliare non possa essere trasformata in denaro con la stessa prontezza e disinvoltura con cui lui trasforma un’ostia nel corpo di Cristo»; o, per restare in tema, Anna Bolena, l’amante del re che «usa il proprio corpo come un soldato (…) e, come i maestri della Scuola Anatomica Patavina, lo divide e ne nomina le parti, questa è la mia coscia, questi sono i miei seni, questa è la mia lingua» - entrambe a loro modo icone dell’incipiente secolarizzazione. Se l’ambientazione è infatti quella di una tragedia, l’esito è «un grande spettacolo di marionette», in cui ci si ammazza ancora in nome di Dio senza rendersi conto dell’inarrestabile processo in atto di riorientamento dello spazio e risemantizzazione del cosmo in base a cui, dopo il viaggio di Colombo, «la traversata comincia a sostituirsi all’ascensione» (l’espressione è di Sloterdijk) e il verticale si va appiattendo sull’orizzontale. Come già nel memorabile Q, anche qui il Cinquecento diventa una chiave d’accesso alla contemporaneità. Il mondo, non è più governato, come ancora crede il re, «dalle fortezze di confine e da Whitehall. Il mondo è governato da Anversa, da Firenze, da luoghi che neppure immagina; da Lisbona, dai porti da cui fanno rotta verso ovest, arse dal sole, le navi con le vele di seta. Non dalle mura del castello, ma dagli uffici della contabilità, non dallo squillo del corno ma dallo schiocco dell’abaco, non dal crepitio del meccanismo del fucile ma dallo scricchiolio della penna sul vaglia cambiario che paga per il fucile e l’armaiolo, la polvere e la pallottola». Ed è appunto in siffatto mondo rimasto privo di riferimenti assoluti e stabili, in cui tutto cambia improvvisamente da un momento all’altro, che, pur tra mille rovelli morali, Cromwell si muove a suo agio, senza ideali eppure, proprio per questo, capace di produrre impercettibili molecole di bene – che è tutto quello che probabilmente si può fare quando svanisce la possibilità della trascendenza. C’è di che riflettere. Poi, però, per capire davvero come sono andate le cose, forse è meglio andarsi a leggere un bel libro di storia, che tanto gli inglesi ne sanno scrivere di accattivanti proprio come dei romanzi.

(finito il 26 marzo 2021)

Ho parlato di


Hilary Mantel
Wolf Hall
(Fazi 2014)

Trad. di G. Oneto

779 pp. | 16,50 €

(ed. or: Wolf Hall, 2009)