Non saprei dire quante volte mia moglie è già stata costretta ad assistere un po’ vergognata a una scenetta simile, col sottoscritto protagonista: «il confine (...) serpeggiava capricciosamente e (...) durante le passeggiate lunghe si poteva attraversare con facilità senza essere visti. A volte mi capitava per disattenzione, quando durante il mio giro d’ispezione arrivavo fin lì. Ma qualche volta mi piaceva oltrepassarlo apposta, con premeditazione, andavo di là e tornavo di qua. Anche decine e decine di volte. Per una mezz’oretta mi divertivo ad attraversare il confine. Mi piaceva, perché ricordavo i tempi in cui era impossibile. Mi piace oltrepassare le frontiere». I miei, però, sono semplici balletti un po’ scemi sul filo delle linee invisibili che, tracciando un solco immaginario tra province, regioni o stati, separano a volte in modo decisivo le vite di persone altrimenti dirimpettaie. Ma si può immaginare un gesto più eversivo di questo, nella Polonia sovranista che oggi chiede all’Europa di finanziare i suoi muri contro i migranti? Olga Tokarczuk l’aveva intuito per tempo (il libro da cui cito risale al 2009) e non a caso tre anni fa le è stato assegnato il Nobel proprio “per un'immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l'attraversamento dei confini come forma di vita”.
Questo piccolo esempio mostra quanto possa essere liberatoria, all’occorrenza, la letteratura. D’altronde, basta vedere una foto dell’autrice, sorridente sotto i suoi irriverenti dreadlocks, per intuire quanto debba sentirsi fuori luogo nella Polonia di oggi, «un paese di individualisti nevrotici» - così lo definisce - «ciascuno dei quali, non appena si trova in mezzo agli altri, comincia a istruirli, criticarli, offenderli e a dimostrare la sua indubbia superiorità» (d’accordo, è la Polonia, ma non pare troppo dissimile dall’Italia). E allora non meno catartico dev’essere stato per lei centrare un intero romanzo sulle divagazioni di un personaggio non lineare, una donna sola e già un po’ avanti con l’età, una «stramba» con una personale Teoria (rigorosamente in maiuscolo) su ogni cosa, il vezzo di assegnare nomignoli alle persone in base al carattere che pretende di individuare al primo sguardo gettato su di loro e un’autentica ossessione per le date di nascita, senza le quali non potrebbe divinare l’oroscopo proprio e altrui – insomma, una sorta di strega postmoderna, a cui per molti versi sarebbe difficilissimo stare vicino, perché intenta continuamente pipponi sulle più insostenibili cause perse e filtra seguendo una logica a dir poco personale tutto quello che le accade intorno (per chi conosce la serie Frankie e Grace, una specie di Frankie Bergstein un po’ più acida e meno zuzzurellona). Di se stessa, riconosce senza rancore di appartenere alla cerchia di quelli «che il mondo considera inutili. Non facciamo nulla di essenziale, non produciamo né pensieri importanti né oggetti necessari, alimenti, non coltiviamo la terra, non stimoliamo nessuna economia. (…) Finora non abbiamo dato nessun profitto al mondo. (…) Facciamo i nostri lavori, ma sono assolutamente insignificanti per tutti gli altri. Se venissimo a mancare, non cambierebbe proprio nulla. Non se ne accorgerebbe nessuno».
Marginale è anche il luogo in cui questa donna è finita a vivere: l’altopiano di Klodzko, un cuneo polacco conficcato nel fianco nordorientale della Repubblica Ceca, località a metà strada tra Praga e Breslavia, ma in realtà «distante dal resto del mondo», quasi una Fargo slava percossa anch’essa da venti gelidi e attraversata da personaggi bizzarri che non sfigurerebbero affatto nel film dei fratelli Coen, discendenti di quei dissidenti rinascimentali che passarono di qui per sfuggire alle polizie religiose di mezza Europa. Indifferenti alle convenzioni umane, vagano di qua di là dalla frontiera anche cervi, volpi, lepri e altri animali selvatici, continuamente insidiati dalle trappole dei cacciatori: proprio la morte apparentemente accidentale di uno di questi (ribattezzato dalla protagonista Piede Grande, per via dei suoi arti inferiori da troll), seguita da una sequenza di ulteriori decessi che non è immediatamente chiaro se siano delitti oppure no, e che di conseguenza gettano ombre anche sul primo, ci introduce da subito nelle atmosfere di un noir artico – che, come nella migliore tradizione dei noir, è solo un pretesto per parlare d’altro. Solo a una prima impressione leggero nei toni, il libro pone in realtà delle questioni importanti, affidandole, appunto, alla voce inattendibile di questa sorta di idiote savante allegramente anarchica che, pur non raccontando mai esattamente le cose come stanno davvero, ha tuttavia per l’autrice il potere di dire la verità.
E quale sarebbe questa verità? Che tutto ciò che ci circonda è rivestito «di una tristezza orribile, insopportabile. Guardavo il paesaggio bianco e nero dell’Altipiano e compresi che “tristezza” è una parola importante per definire il mondo. Sta alla base di tutto, è il quinto elemento, la quintessenza». Noi di questo non ce ne accorgiamo mai abbastanza, perché la nostra mente agisce come un filtro difensivo, in quanto vedere la realtà per quello che effettivamente è «non sarebbe sostenibile. Ogni minima particella del mondo si compone infatti di sofferenza». Neanche un Dio potrebbe sopportare questo orrore; anzi, proprio perché onnisciente, «credo che andrebbe in pezzi sotto il peso di questo dolore (...). Solo una macchina sarebbe in grado di sopportare tutto il dolore del mondo. Solo un congegno semplice, efficace e giusto». Se non fossimo dotati di sofisticati meccanismi di difesa, ci renderemmo subito conto anche noi che siamo composti «di particelle materiali che si usurano ogni secondo che passa» e che viviamo per questo «in uno stato d’assedio. Se osserviamo da vicino ogni frammento d’istante, possiamo soffocare dal terrore. Nei nostri corpi avanza inarrestabile la decomposizione, in breve ci ammaleremo e moriremo. I nostri cari ci lasceranno, la loro memoria si disperderà nel chiasso; non resterà niente. Solo pochi vestiti nell’armadio e qualcuno in una foto, ormai irriconoscibile. I ricordi più preziosi svaniranno. Tutto piomberà nelle tenebre e scomparirà». Gli atomi dei nostri capelli, che conservano la memoria «della Catastrofe cosmica che ha dato inizio al mondo», si muoveranno ancora nello spazio quando nulla di ciò che abbiamo costruito e che per noi ha valore sarà rimasto in piedi.
Eppure gli individui di questa specie, la cui vita «sta sulla punta di uno spillo», faticano a provare quella che dovrebbe essere una spontanea solidarietà verso i propri simili, tutti ugualmente «fragilini, effimeri, predisposti alla distruzione». Ma se questo accade è perché in realtà l’intera civiltà che con tanto orgoglio hanno edificato si fonda sull’esercizio sistematico della violenza, quale si manifesta in modo più brutale soprattutto nei confronti degli animali, una violenza divenuta talmente scontata da essercene ormai del tutto immunizzati. «Ma che mondo è questo?! Il corpo di qualcuno convertito in scarpe, in polpette, in würstel, in uno scendiletto, in un brodo di ossa da bere… Le scarpe, i divani, la borsa a tracolla fata con il ventre di qualcuno, riscaldarsi con la pelliccia altrui, mangiare il corpo di qualcuno, tagliarlo a fette e friggerlo nell’olio… Ma è possibile che avvenga davvero questo orrore, questa ecatombe, crudele, insensibile, meccanica, senza alcun rimorso di coscienza, senza la più piccola riflessione che invece si concede generosamente a raffinate filosofie e teologie? Che mondo è quello in cui la norma è uccidere e causare dolore?». Immaginate per un attimo anche solo ai milioni di larve che muoiono, prima ancora di schiudersi e di iniziare davvero a vivere, nei ceppi di legno che vengono bruciati durante il taglio del bosco o che finiscono direttamente in segheria. «Pensai allora che ogni morte inflitta ingiustamente dev’essere resa pubblica. Anche quella di un insetto. Una morte di cui nessuno si accorge è un duplice scandalo».
Per giustificare il proprio spietato dominio sul creato, gli uomini si sono fabbricati un dio antropomorfo. «Ora mi era chiaro perché le torrette di tiro, che pure ricordano le torrette delle sentinelle dei campi di concentramento, si chiamano pulpiti. Sul pulpito l’Uomo si pone al di sopra degli altri Esseri e si attribuisce il diritto di vita e di morte nei loro confronti». Ma basterebbe una mattinata invernale a Klodzko per aprirci gli occhi: «il mercoledì alle sette, in gennaio, si vede che il mondo non è stato creato per l’Uomo, e sicuramente non per la sua comodità e il suo piacere». Così questa donna, che in una sua prima vita da ingegnere civile costruiva ponti in giro per il mondo, e in una seconda vita si è reinventata come insegnante d’inglese - perché anche tradurre da una lingua all’altra è un modo per «avvicinare gli uomini tra di loro» (ed è esattamente l’opposto dell’omologazione: traducendo si fa infatti risuonare il diverso nella propria lingua) – ha come una visione che la porta a impegnarsi come attivista sui generis per mettere radicalmente in discussione il confine che, a suo avviso, determina tutti gli altri confini, perché «della qualità di uno stato decidono i suoi Animali. (…) Se gli uomini si comportano bestialmente con gli Animali, allora non servono a niente né la democrazia né altro». In questo senso, Hiroshima e Auschwitz non sono altro che la logica conseguenza della prima battuta di caccia della storia: inutile vagheggiare una social catena se prima non si è capaci di stringerne una naturale.
(finito il 7 ottobre 2020)
Ho parlato di
Guida il tuo carro sulle ossa dei morti
(Bompiani 2020)
trad. di S. De Fanti
272 pp. | 18 €
(ed. or.: Prowadz swoj plug przez kosci umarlych, 2009)