Azzardo la previsione che quelle stesse altissime cariche dello Stato così solerti nel ricordare l’anniversario della nascita di un movimento neofascista saranno altrettanto pronte a celebrare, fra pochi giorni, il settantacinquesimo dell’entrata in vigore di una Costituzione antifascista, con la stessa impudenza con cui si pensa di poter cancellare le leggi razziali attraverso la consegna di un mazzo di fiori e la stessa nonchalance di chi fa finta di non capire che se volesse prendere davvero sul serio quella storia che dice di onorare dovrebbe mettere una bomba sotto il seggio più alto del Senato, anziché accomodarvicisi sopra e leggervi la Gazzetta dello Sport. L’indulgenza verso il Ventennio – che è in fondo una forma di autoindulgenza – arriva, del resto, da lontano. Ne fu primo protagonista lo stesso re Vittorio, quando provò inopinatamente a rifarsi una verginità il 25 luglio, liquidando Mussolini, sì, ma con juicio, come dimostra il fatto che nei gangli della pubblica amministrazione continuarono a esercitare la professione quelli che l’avevano fin lì fatto, senza particolari turbamenti, in nome del regime e nelle carceri, almeno fino all’8 settembre, continuarono a restarci quelli a cui, sempre in nome del regime, i primi avevano tolto la libertà (tutte cose, fra le altre, che spinsero Croce – e dico Croce, non Robespierre – ad affermare nel gennaio del ‘44 che «fin tanto che rimane a capo dello stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che, così, non possiamo respirare e vivere»). Un’Italia defascistizzata, almeno nelle forme, ma solidamente reazionaria, si pensava potesse piacere agli Alleati, probabilmente non era sgradita quantomeno agli inglesi e forse poteva davvero costituire un’ipotesi politica realistica, se è vero come è vero che il potenziale fascino esercitato dalla bella presenza del principe Umberto e di Maria José suscitò non pochi timori in chi contava di gettarsi alle spalle, coi fez e i littori, anche il sistema che ne aveva reso possibile l’ascesa.
É più o meno questo lo scenario di cui si occupa il libretto che Federico Fornaro ha intitolato al 2 giugno 1946, ma che ricostruisce in realtà la complessa vicenda che sta dietro a quel referendum, a partire appunto dalla caduta del fascismo, in quei quasi tre anni di continue tensioni tra una monarchia ampiamente screditata ma disposta ancora a giocarsi il tutto per tutto per restare a galla, i partiti del CLN desiderosi di dare vita a un’Italia profondamente rinnovata anche sul piano delle istituzioni e le forze d’occupazione straniere interessate a far sì che questa transizione avvenisse senza troppi sussulti e colpi di testa. Libretto particolare, per la verità, leggendo il quale ho avuto infatti la sensazione di essere accompagnato da un virgolettato all’altro, come nei centoni che mi costruisco quando, dovendo affrontare un nuovo tema, comincio a copiare, incollare, tagliare, cucire, smontare, rimontare, aggregare citazioni ed estratti presi di qua e di là fra le mie letture, finché non mi sembra che dal caos emerga un qualche filo conduttore – il che lo rende più un patchwork compilativo che un originale contributo di ricerca, ma proprio per questo, paradossalmente, utilissimo, in quanto chi lo ha realizzato ha fatto per te il lavoro sporco di raccogliere spunti che saresti invece dovuto andarti a cercare in volumi diversi.
Ed è proprio la voce in presa diretta dei protagonisti ciò che, in questi casi, incuriosisce maggiormente, in quanto non è detto che la percezione che i contemporanei avevano di quanto stava accadendo loro intorno coincida sempre con l’idea che ce ne siamo fatti noi a posteriori. Colpisce, ad esempio, soprattutto rispetto all’importanza epocale della questione, la scarsa rilevanza data dalla stampa all’introduzione del suffragio femminile, previsto già da un decreto emanato dal governo Bonomi prima della Liberazione (colpisce un po’ meno, invece, che chi ne diede notizia lo fece a volte, come Il Resto del Carlino, con titoli tipo “Mentre si muore di fame, ci si preoccupa del voto alle donne”: i redattori di Libero non hanno inventato nulla). Il timore che il voto alle donne potesse tradursi in una caterva di preferenze per conservatori e cattolici spiega almeno in parte la diffusione di questa freddezza nei partiti progressisti, quegli stessi partiti che si rivelarono peraltro anche i più titubanti nell’accettare il ricorso al referendum istituzionale, chiedendo che fosse invece demandata in toto alla Costituente la scelta del futuro assetto del paese. Sembra paradossale questa diffidenza mostrata verso il popolo proprio da parte di forze dichiaratamente popolari, ma è solo un segno delle ambiguità in cui sguazzano i populismi di ogni epoca e che mantiene viva nella cultura democratica la perenne tentazione della tecnocrazia. Poteva infatti apparire scontato che una popolazione impigrita dalla dittatura ed ancora sensibile agli ideali risorgimentali (le stesse brigate partigiane comuniste erano intitolate a Garibaldi, mica a Stalin) scegliesse in massa l’usato sicuro della corona sabauda anziché l’avventura inedita della repubblica – non per nulla erano i monarchici a spingere per il referendum – eppure accadde proprio il contrario, e fu un bene, perché, come infine anche i progressisti capirono, una repubblica partorita per alchimie di palazzo sarebbe stata infinitamente più debole e facilmente rovesciabile.
L’esito del referendum fu senza dubbio una sorta di miracolo laico che non cessa di sorprendermi. Come scrisse sul Corriere Calamandrei il 9 giugno ‘46, alla vigilia del pronunciamento definitivo della Cassazione, «mai nella storia è avvenuto, né mai ancora avverrà che una repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il Re». Che noi stessi fatichiamo a metabolizzare quanto accaduto lo prova implicitamente il ritornello sui brogli che di tanto in tanto salta fuori e a cui in molti immagino continuino a credere, nonostante sia stato ampiamente smentito dai fatti e dalla logica (l’apparato burocratico che avrebbe potuto falsificare i dati era in realtà ampiamente filomonarchico), come se fosse più semplice per noi rappresentarci ai nostri stessi occhi nelle vesti di inguaribili truffatori anziché riconoscerci autentiche virtù repubblicane. Eppure sappiamo essere migliori di come ci disegniamo. Dovremmo solo ricordarcelo più spesso.
(finito il 25 giugno 2021)
Ho parlato di
2 giugno 1946. Storia di un referendum
(Bollati Boringhieri 2021)
208 pp. | 14 €