venerdì 30 dicembre 2022

2 giugno 1946. Storia di un referendum

Azzardo la previsione che quelle stesse altissime cariche dello Stato così solerti nel ricordare l’anniversario della nascita di un movimento neofascista saranno altrettanto pronte a celebrare, fra pochi giorni, il settantacinquesimo dell’entrata in vigore di una Costituzione antifascista, con la stessa impudenza con cui si pensa di poter cancellare le leggi razziali attraverso la consegna di un mazzo di fiori e la stessa nonchalance di chi fa finta di non capire che se volesse prendere davvero sul serio quella storia che dice di onorare dovrebbe mettere una bomba sotto il seggio più alto del Senato, anziché accomodarvicisi sopra e leggervi la Gazzetta dello Sport. L’indulgenza verso il Ventennio – che è in fondo una forma di autoindulgenza – arriva, del resto, da lontano. Ne fu primo protagonista lo stesso re Vittorio, quando provò inopinatamente a rifarsi una verginità il 25 luglio, liquidando Mussolini, sì, ma con juicio, come dimostra il fatto che nei gangli della pubblica amministrazione continuarono a esercitare la professione quelli che l’avevano fin lì fatto, senza particolari turbamenti, in nome del regime e nelle carceri, almeno fino all’8 settembre, continuarono a restarci quelli a cui, sempre in nome del regime, i primi avevano tolto la libertà (tutte cose, fra le altre, che spinsero Croce – e dico Croce, non Robespierre – ad affermare nel gennaio del ‘44 che «fin tanto che rimane a capo dello stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che, così, non possiamo respirare e vivere»). Un’Italia defascistizzata, almeno nelle forme, ma solidamente reazionaria, si pensava potesse piacere agli Alleati, probabilmente non era sgradita quantomeno agli inglesi e forse poteva davvero costituire un’ipotesi politica realistica, se è vero come è vero che il potenziale fascino esercitato dalla bella presenza del principe Umberto e di Maria José suscitò non pochi timori in chi contava di gettarsi alle spalle, coi fez e i littori, anche il sistema che ne aveva reso possibile l’ascesa.

É più o meno questo lo scenario di cui si occupa il libretto che Federico Fornaro ha intitolato al 2 giugno 1946, ma che ricostruisce in realtà la complessa vicenda che sta dietro a quel referendum, a partire appunto dalla caduta del fascismo, in quei quasi tre anni di continue tensioni tra una monarchia ampiamente screditata ma disposta ancora a giocarsi il tutto per tutto per restare a galla, i partiti del CLN desiderosi di dare vita a un’Italia profondamente rinnovata anche sul piano delle istituzioni e le forze d’occupazione straniere interessate a far sì che questa transizione avvenisse senza troppi sussulti e colpi di testa. Libretto particolare, per la verità, leggendo il quale ho avuto infatti la sensazione di essere accompagnato da un virgolettato all’altro, come nei centoni che mi costruisco quando, dovendo affrontare un nuovo tema, comincio a copiare, incollare, tagliare, cucire, smontare, rimontare, aggregare citazioni ed estratti presi di qua e di là fra le mie letture, finché non mi sembra che dal caos emerga un qualche filo conduttore – il che lo rende più un patchwork compilativo che un originale contributo di ricerca, ma proprio per questo, paradossalmente, utilissimo, in quanto chi lo ha realizzato ha fatto per te il lavoro sporco di raccogliere spunti che saresti invece dovuto andarti a cercare in volumi diversi.

Ed è proprio la voce in presa diretta dei protagonisti ciò che, in questi casi, incuriosisce maggiormente, in quanto non è detto che la percezione che i contemporanei avevano di quanto stava accadendo loro intorno coincida sempre con l’idea che ce ne siamo fatti noi a posteriori. Colpisce, ad esempio, soprattutto rispetto all’importanza epocale della questione, la scarsa rilevanza data dalla stampa all’introduzione del suffragio femminile, previsto già da un decreto emanato dal governo Bonomi prima della Liberazione (colpisce un po’ meno, invece, che chi ne diede notizia lo fece a volte, come Il Resto del Carlino, con titoli tipo “Mentre si muore di fame, ci si preoccupa del voto alle donne”: i redattori di Libero non hanno inventato nulla). Il timore che il voto alle donne potesse tradursi in una caterva di preferenze per conservatori e cattolici spiega almeno in parte la diffusione di questa freddezza nei partiti progressisti, quegli stessi partiti che si rivelarono peraltro anche i più titubanti nell’accettare il ricorso al referendum istituzionale, chiedendo che fosse invece demandata in toto alla Costituente la scelta del futuro assetto del paese. Sembra paradossale questa diffidenza mostrata verso il popolo proprio da parte di forze dichiaratamente popolari, ma è solo un segno delle ambiguità in cui sguazzano i populismi di ogni epoca e che mantiene viva nella cultura democratica la perenne tentazione della tecnocrazia. Poteva infatti apparire scontato che una popolazione impigrita dalla dittatura ed ancora sensibile agli ideali risorgimentali (le stesse brigate partigiane comuniste erano intitolate a Garibaldi, mica a Stalin) scegliesse in massa l’usato sicuro della corona sabauda anziché l’avventura inedita della repubblica – non per nulla erano i monarchici a spingere per il referendum – eppure accadde proprio il contrario, e fu un bene, perché, come infine anche i progressisti capirono, una repubblica partorita per alchimie di palazzo sarebbe stata infinitamente più debole e facilmente rovesciabile.

L’esito del referendum fu senza dubbio una sorta di miracolo laico che non cessa di sorprendermi. Come scrisse sul Corriere Calamandrei il 9 giugno ‘46, alla vigilia del pronunciamento definitivo della Cassazione, «mai nella storia è avvenuto, né mai ancora avverrà che una repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il Re». Che noi stessi fatichiamo a metabolizzare quanto accaduto lo prova implicitamente il ritornello sui brogli che di tanto in tanto salta fuori e a cui in molti immagino continuino a credere, nonostante sia stato ampiamente smentito dai fatti e dalla logica (l’apparato burocratico che avrebbe potuto falsificare i dati era in realtà ampiamente filomonarchico), come se fosse più semplice per noi rappresentarci ai nostri stessi occhi nelle vesti di inguaribili truffatori anziché riconoscerci autentiche virtù repubblicane. Eppure sappiamo essere migliori di come ci disegniamo. Dovremmo solo ricordarcelo più spesso.

(finito il 25 giugno 2021)

Ho parlato di


Federico Fornaro
2 giugno 1946. Storia di un referendum
(Bollati Boringhieri 2021)

208 pp. | 14 €

venerdì 28 ottobre 2022

All'inferno e ritorno. Europa 1914-1949

C’è una cosa che è opportuno sapere, prima di avventurarsi nelle oltre seicento pagine di questo libro (che peraltro è solo la prima metà di un dittico dedicato alla storia d’Europa dal 1914 ai nostri giorni), e cioè che, come onestamente riconosce il suo autore, «praticamente per ogni singola frase che ho scritto era disponibile una moltitudine di lavori specialistici, spesso di grande qualità», al punto che provarne a ricavare anche solo una bibliografia minima sarebbe «come contare i granelli di sabbia», un’impresa ai limiti dell’insensatezza. Non credo sia un’iperbole. Anzi, in fondo è un’ovvietà, soprattutto agli occhi di chi nella vita ha svolto un minimo di ricerca, eppure riconoscerlo chiaramente, una volta superata la vertigine e il senso di smarrimento per la consapevolezza che non riusciremo mai davvero a sapere tutto quello che ci sarebbe da sapere, aumenta il senso di gratitudine per quegli storici autorevoli come Ian Kershaw che, giunti sulla settantina, provano a rifondere in una sintesi relativamente agevole tutto quello che ritengono di avere capito dopo una vita di onorati studi, consentendo anche a noi dilettanti di orientarci meglio in questioni più grandi di noi. «Ciò che questo libro ha di originale riguarda dunque esclusivamente la struttura e l’interpretazione: il come la storia è scritta e, a un livello più profondo, la natura dell’argomentazione». Nessun contributo inedito, perciò. Poco male: tenere in pugno tutto quanto è umanamente possibile, organizzato per temi e capitoli, così da averne un quadro coerente e non rapsodico, è in fondo l’obiettivo di ogni insegnante. E a ciò serve, appunto, un libro come questo.

Qual è allora la sintesi che resterà quando, fra dodici secoli, sui manuali di storia si dovranno condensare, non dico in seicento, ma in due pagine, questi eventi per noi ancora così vividi? Potremmo dirla così: «uno dei cliché prediletti dei commentatori delle partite di calcio, quando dopo l’intervallo si verifica un rovesciamento delle sorti della gara, è che si tratta di una partita “spaccata a metà”. É forte la tentazione di pensare al Novecento europeo come a un secolo “spaccato a metà”, forse con un tempo supplementare dopo il 1990». In quel lontano futuro, presumibilmente, si scriverà perciò che in quei quarantacinque anni compresi tra l’attentato di Sarajevo e la divisione delle due Germanie, in quella «catastrofica, quasi suicidaria» prima metà di XX secolo, l’Europa arrivò a un nulla dall’autodistruzione, salvo poi riprendersi e imboccare, almeno nella sua parte occidentale, una strada di inaudita prosperità, durata lo spazio di un paio di generazioni, prima che nuove crisi rimettessero in discussione risultati che apparivano acquisiti e riaprissero pozzi avvelenati che ci si era illusi di avere sigillato, sussurrando il sospetto che nell’inferno da cui in qualche modo ci si era tirati fuori si possa tornare a sprofondare da un momento all’altro. Ma poiché, per intanto, siamo ancora pienamente nel cono d’ombra del XX secolo, a cento anni esatti dalla marcia su Roma, provo a spremere da questa lettura qualche contributo più spendibile per orientarsi nel tempo presente. Lo farò a mio gusto, consapevole che si tratta di una selezione opinabile.

Prendiamo, per esempio, la questione della pace. Nessuno, dopo il 1918, vuole seriamente riaprire le ostilità – nessuno, s’intende, a parte i nazisti. Le cosiddette democrazie occidentali hanno a cuore più di ogni altra cosa la stabilità e, per quanto essi siano «talvolta ripugnanti», se ne infischiano degli affari interni delle dittature che spuntano come funghi nell’Europa tra le due guerre, almeno finché non si vadano a minacciare i confini, e a volte anche oltre, come dimostrano i farseschi accordi di Monaco sventolati incautamente da Chamberlain dinanzi alla folla. Inglesi e francesi fanno di tutto pur di evitare lo scontro diretto, svendendo a Hitler pezzi di Europa orientale in base alla stessa logica che spinge oggi un Orsini a chiedere che si ceda unilateralmente a Putin tutto quello che vuole purché non sganci l’atomica (logica secondo la quale si dovrebbe coerentemente attribuire la responsabilità del secondo conflitto mondiale proprio ad inglesi e francesi, anziché ai tedeschi, per essersi di colpo inspiegabilmente irrigiditi sulla Polonia: se avessero ceduto anche su quella, la guerra forse non sarebbe mai cominciata e si sarebbero evitati un sacco di morti, per lo meno sui campi di battaglia, ma forse non nei campi di sterminio). La controprova è che, dopo la guerra, Franco e Salazar rimasero al loro posto – e ci sarebbe rimasto credo anche Mussolini, se non si fosse intestardito ad affiancare l’alleato tedesco. Salutare ingordigia nazista, verrebbe da dire, senza la quale, a forza di compromessi al ribasso, si sarebbero continuati a tollerare senza troppi scrupoli nel cuore dell’Europa discriminazioni e violazioni dei diritti come ogge li si tollera in paesi considerati amici come gli emirati del Golfo o l’Arabia Saudita. Kershaw sottolinea infatti chiaramente che, sin dal 1936, l’espansione militare era diventata ormai l’unica via d’uscita aperta alla Germania per sopperire alle spese e agli investimenti voluti dal regime, a meno di non scegliere un’impossibile (per ragioni ideologiche) “normalizzazione” del regime stesso. Essendo intimamente convinto che «soltanto la guerra – e l’acquisizione di nuove risorse economiche – avrebbe risolto i problemi della Germania», Hitler mise il suo paese nelle condizioni di non poter far altro che la guerra: splendido caso di profezia che si autoavvera. Ecco, ma un mondo in cui la svastica sventola impunemente da Acquisgrana a Konigsberg può essere davvero considerato un mondo in pace? Oppure aveva ragione Kant quando diceva che «la violazione del diritto in un luogo della terra viene sentita in tutti»? Siamo in grado, oggi, di pensare un ordine globale che possa tagliare alla radice le premesse di una futura catastrofe prima di arrivare alla lotta di tutti contro tutti?

Secondo appunto. Ciò che garantì il successo dei regimi totalitari, soprattutto quelli di destra, fu la capacità di sfruttare gli strumenti messi a disposizione dalla democrazia per impiegarli in chiave antidemocratica, facendo passare l’idea che questo fosse «il volto moderno dell’arte di governare» (non senza pesanti responsabilità da parte di chi aveva contribuito a impaludare e svilire sistemi parlamentari che certo non erano sempre specchio di democrazia). Questa retorica continuamente riemergente mi fa più paura dei nostalgici coi busti di Mussolini nel salotto. Anche allora, infatti, «per buona parte della popolazione più che di un’entusiastica adesione al regime si deve parlare di un conformismo coatto (…) C’era in giro molta apatia e passiva accettazione di ciò che non poteva essere cambiato. (…) In pratica, l’idea di una totale compenetrazione di Stato e società non parve mai vicina a concretarsi. Il fascismo si dimostrò incapace di conquistare ampie sezioni della società italiana (…). Ma dove mancava la convinzione sincera c’era quanto meno l’acquiscenza. Gli italiani accettarono il regime, e vi si adattarono». É fuorviante interrogarsi troppo sui gradi del consenso, quando la pura inerzia produce lo stesso effetto, ed assai più a buon mercato.

Con questo vengo al terzo e ultimo punto: la difficoltà di fare i conti con il passato. I processi di Norimberga hanno avuto un alto impatto simbolico, ma anche l’effetto di isolare i mostri, garantendo una sorta di impunità, anzitutto di fronte alla propria coscienza, in chi non fu chiamato alla sbarra. In realtà, «la denazificazione della società tedesca era un compito non già semplicemente formidabile, ma irrealizzabile», in un paese in cui più di otto milioni di persone erano state iscritte al partito. Ma questo vale anche per fiancheggiatori e collaborazionisti di tutti i paesi, compresi quelli vincitori, come la Francia, per non parlare dell’Italia. «Lo sguardo rivolto al futuro doveva prevalere su una più completa opera di purificazione del passato. L’amnesia collettiva era la premessa della marcia in avanti». Così abbiamo cominciato a raccontarcela e a convincerci di essere stati magicamente prigionieri per vent’anni di un manipolo di matti giunti da Marte – e persino molti tedeschi, stremati da due anni di bombardamenti, quando ormai ne morivano a diecimila al giorno nell’immondo Ragnarok del Reich, cominciarono a percepirsi come vittime, dimenticandosi di aver «applaudito i primi successi di Hitler e gioito per le vittorie della Wehrmacht, mentre innumerevoli europei soggetti al giogo nazista soffrivano miseria e schiavitù, morte e distruzione». Ma dal punto di vista delle vere «vittime della disumanità, non si poteva certo dire che giustizia fosse stata fatta, nemmeno lontanamente; il veleno non era stato prosciugato. Niente poteva risarcire le loro sofferenze; nessuna autentica catarsi era immaginabile. (…) La resa dei conti era rimasta – ineluttabilmente – incompiuta. Per il resto del Novecento, l’Europa non sarebbe riuscita a liberarsi completamente del fetore della grottesca disumanità degli anni di guerra». É solo in questo senso, come un’onta, un ricordo rimosso non rielaborato e non certo come un onore, che occorre sempre ricordare, come dice quel tale, che siamo tutti quanti eredi del Duce.

(finito il 19 giugno 2021)

Ho parlato di


Ian Kershaw
All'inferno e ritorno. Europa 1914-1949
(Laterza 2020)

Trad. di G. Ferrara degli Uberti

651 pp. | 24 €

(ed. or.: To Hell and Back. Europe, 1914-1949, 2015)

venerdì 30 settembre 2022

Anatomia di un istante

Considerata la mia fissazione per le ricorrenze, non apparirà strano che, avvicinandosi la scadenza dei quarant’anni e giunto il momento di scegliere il libro che presumibilmente sarebbe stato presente sul comodino il giorno del mio compleanno, ne abbia individuato uno che raccontasse eventi accaduti proprio nello stesso anno in cui nacqui, appena due-tre mesi prima del parto. Si tratta per la verità di avvenimenti che in un italiano medio evocano, credo, pochi ricordi diretti – a differenza che in uno spagnolo, per il quale costituiscono invece un punto di riferimento generazionale fondamentale, come lo sarebbero state, per me, ad esempio, le stragi di mafia – ma su cui la grande letteratura ha spiegato la potenza del suo braccio, rendendoli in un certo senso universali. Penso di non dire nulla di eccezionale, infatti, se riconosco Anatomia di un istante fra i libri fondamentali di questo primo ventennio di XXI secolo, di quelli che merita leggere non solo perché, leggendoli, si imparano una marea di cose su qualcosa di cui probabilmente non si sapeva molto (come, in questo caso, il tentato golpe militare del 23 febbraio 1981 contro la giovane democrazia spagnola), ma anche e soprattutto perché, intraprendendo piste non ancora battute, offrono un esempio delle straordinarie potenzialità ancora latenti in quel vecchio arnese che è la scrittura.

Dove sta la peculiarità di questo libro? Cercas (di cui avevo già adorato Soldati di Salamina, che era un altro splendido esercizio di resa dei conti con il passato) lo presenta come «l’umile testimonianza di un fallimento», consistente nel non essere riuscito a realizzare un romanzo, come avrebbe voluto, sul tema prescelto. Infatti, dopo aver stracciato e ripreso diversi progetti, «compresi infine che gli eventi del 23 febbraio possedevano in sé tutta la forza drammatica e il potenziale simbolico che esigiamo dalla letteratura e compresi che, sebbene io fossi uno scrittore di romanzi, per una volta la realtà mi importava più della finzione letteraria o mi importava troppo per volerla reinventare sostituendole una realtà alternativa, perché nulla di quanto io potessi immaginare sul 23 febbraio mi coinvolgeva e mi emozionava tanto, né sarebbe potuto risultare più complesso e persuasivo, della pura realtà del 23 febbraio». Mi chiedo se questo discorso non valga in realtà per ogni evento storico: se il mio obiettivo è misurarmi con ciò che è stato, perché dovrei accontentarmi di una sua versione romanzesca, quando ho gli strumenti per accertare quanto accaduto? Dirò di più. Il potere specifico della poesia (qui concordo con Aristotele) è di dare coerenza e unità a un garbuglio altrimenti incongruo di episodi, giocando coi tempi e col montaggio per trasformare il puro vissuto in una autentica narrazione; l’invenzione è appunto una strategia utile a fornirci delle ipotesi di senso attraverso le quali provare a sintetizzare la marea di dati da cui siamo quotidianamente sommersi. Non c’è nulla di male, in fondo è una funzione vitale della nostra specie, tant’è vero che i “grandi racconti” non sono affatto spariti dai radar, ma proliferano più che mai, specie in quel particolare ramo della cultura pop che è diventata la politica contemporanea.

In una narrazione ogni anello deve tenersi. La storia, però, è la scienza della complessità, delle alternative sempre possibili, della concomitanza di cause non sempre chiaramente distinguibili, della pietra accidentale su cui a volte si infrangono anche i flussi e riflussi della lunga durata. Se la favola ha una sua morale, la storia può averne molte, anche contrapposte fra loro, e per questo richiede un approccio diverso, che, senza disimpegnarsi dalla ricerca di una spiegazione, sia strutturalmente aperto e consapevole dei propri limiti: chi scrive di storia non assomiglia, cioè, al Dio onnisciente che all’atto della creazione modella la materia sulla base degli esemplari contenuti nella sua mente, bensì al modesto paleontologo che prova a ricostruire a posteriori come sono andate le cose, sapendo benissimo che tra un reperto fossile e un altro ci sono buchi a volte impossibili da colmare e che una minima variazione ambientale avrebbe potuto alterare in modo significativo lo sviluppo della trama di cui sta cercando di dipanare i fili. Per questo, tornando a Cercas, trovo che sia salutare, oggi più che mai, immergersi nella lettura di un libro che non offre una soluzione già pronta, ma che al contrario impiega le tecniche della letteratura per rappresentare la stessa opera di ricerca, coi suoi dubbi, le sue esitazioni, e però anche con i punti fermi che tutto sommato si possono dire ragionevolmente acquisiti, dopo aver vagliato e soppesato tutte le possibilità. Ricostruire la storia di un complotto è l'antidoto migliore ad ogni forma di complottismo. Questo libro, infatti, dice ancora il suo autore, «non rinuncia del tutto a capire attraverso la realtà ciò che ha rinunciato a capire tramite la finzione letteraria». Il suo metodo consiste nel forzare «i limiti del possibile fino a raggiungere il probabile e cercando di ritagliare la forma della verità ricorrendo al verosimile. Naturalmente, non posso assicurare che tutto ciò che racconterò in seguito sia vero; ma posso garantire che è impastato con la verità e soprattutto che è quanto di più vicino alla verità io possa raggiungere, o comunque immaginare».

La descrizione della «placenta» in cui maturò il golpe e di come si svolse e andò a finire non ha però, anzitutto, fini documentari: provare a capire come sono effettivamente andate le cose è piuttosto il modo attraverso cui Cercas (nato nel 1962) arriva infine a comprendere la generazione di suo padre, quella che col franchismo aveva sostanzialmente convissuto e che poi se l’era sfilato di dosso quasi come se niente fosse, identificandosi per questo in quell’Adolfo Suarez che, da primo ministro ormai dimissionario, fu il principale obiettivo del colpo di stato. Era stato proprio Suarez, infatti, dopo una carriera interamente costruita all’ombra della dittatura, ad avviare, sotto il naso dei generali, la transizione democratica. Cercas – che, all’epoca dei fatti, da ventenne, non provava nessuna stima per lui - lo descrive, ripercorrendo il suo percorso biografico, come un «arrivista servizievole e ambizioso», un «galletto falangista, simpatico, cialtrone e ignorante»: nulla, in lui, fa pensare a un campione della libertà, e se anche, nei giorni concitati del golpe, sostenne questa parte è solo perché, giunti a quel punto, la caduta della democrazia avrebbe significato anche la sua caduta personale. Eppure, quel che a sorpresa viene fuori è che, a suo modo, anche Suarez è stato un eroe - più precisamente, un «eroe della ritirata», come lo definì Enzesberger, a cui Cercas espressamente si richiama. L’eroe “della ritirata” è il contraltare dell’eroe “della conquista”: se quest’ultimo è «un idealista dai principi chiari e irrinunciabili» che «raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni», l’altro «è pervaso dal dubbio e si barcamena tra compromessi e negoziati», finché abbandona le proprie convinzioni «facendosi da parte». Per molti aspetti, «l’eroe della ritirata è un eroe del tradimento» - il che richiede però di rivedere profondamente i nostri schemi di pensiero, poiché noi «possediamo un’etica della lealtà», ma non abbiamo ancora elaborato «un’etica del tradimento», sebbene a volte sia propria questa mancanza di intransigenza, persino un po’ grigia rispetto al titanismo dell’idealista, ciò che consente alla vita di continuare il suo corso (un po’ quanto ricorda quell’immagine secondo cui Dio crea il mondo ritirandosi, come la marea di ritorno che lascia emergere la spiaggia).

Qui il discorso coinvolge, oltre Suarez, anche gli altri protagonisti presenti nell’emiciclo parlamentare durante l’assalto del generale Tejero: la scelta di giungere a un accordo che permettesse di lasciarsi alle spalle la dittatura non può essere considerato un atto di giustizia, perché non comportò il risarcimento delle vittime, eppure, proprio in virtù di questo compromesso, «è stata costruita una democrazia altrimenti impossibile se l’obiettivo prioritario non fosse stato costruire il futuro bensì – Fiat iustitia et pereat mundus – emendare il passato». E anche se da quel compromesso fosse uscita una democrazia claudicante, poco importa: «non esiste la democrazia perfetta, perché ciò che sancisce una vera democrazia è il suo carattere flessibile, aperto, malleabile – cioè, permanentemente migliorabile -, e dunque l’unica democrazia perfetta è quella che è perfettibile all’infinito. La democrazia spagnola non lo è, ma è una vera democrazia». É proprio questo il dono che, non si sa quanto consapevolmente, fecero ai loro figli questi eroi della ritirata, ossia quei dirigenti che – provenendo dalle fila del franchismo o dell’opposizione - seppero fare un passo indietro, perché compresero che in ciò consiste la politica, nel «cedere sugli aspetti secondari per non rinunciare all’essenziale». Costoro furono tutti, in un modo o nell’altro dei traditori, ma di che cosa? Essi «tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; (...) tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia». E insomma, tutto questo anche per dire che aver mandato a Palazzo Chigi una persona solo perché le si riconosce grande coerenza non è detto che sia per forza di cose una scelta intelligente.

(finito il 16 maggio 2021)

Ho parlato di


Javier Cercas
Anatomia di un istante
(Guanda 2012)

trad. di P. Cacucci

468 pp. | 12,50 €

(ed. or.: Anatomia de un instante, 2009)

mercoledì 31 agosto 2022

Il silenzio

Per quanto sia un principio oggi in declino, in linea di massima resta valido che, per poter parlare di una cosa, uno dovrebbe avere almeno una vaga idea di cosa sia la cosa di cui vorrebbe parlare. E invece, anche se è trascorso più di un anno, io non credo di avere ancora capito bene che cosa ho effettivamente letto quando ho portato a termine questo libro di Don DeLillo su cui mi sto accigendo a scrivere le mie consuete due righe, per cui confesso un certo imbarazzo. Il formato ridotto rispetto a un tradizionale Supercorallo suscita il sospetto di un maquillage editoriale per poter far apparire quantomeno come un romanzetto, stiracchiandolo fino al centinaio di pagine, un testo che, se guardiamo solo alla lunghezza, non sembrerebbe avere i requisiti minimi per rientrare in quella categoria merceologica. Tuttavia, se si considerano la divisione in due parti, l’ulteriore scomposizione di queste parti in brevi, talora brevissimi, capitoletti (che nella seconda sezione perdono ogni indicatore numerico e anche quella specie di titoletto riportato in esergo presenti invece nella prima), la presenza di diversi personaggi che restano però appena abbozzati senza che emerga un chiaro filo narrativo, ma soprattutto un periodare spesso ridotto a sequenze di frasi puramente nominali, con molti spunti e tantissime domande lasciati cadere senza ulteriore approfondimento – questi son tutti indizi che fanno pensare, più che a un’opera compiuta, foss'anche un racconto, a una sorta di palinsesto che potrebbe costituire semmai la traccia per un eventuale, futuro, romanzo tutto ancora da definire.

Del resto, l’argomento prescelto meriterebbe senz’altro più ampio respiro. DeLillo – e questo è meritorio – non ha infatti paura di sporcarsi le mani con quello che potrebbe sembrare un soggetto di genere, roba da fantascienza catastrofista, come il collasso mondiale di tutti i sistemi di comunicazione e di tutti gli strumenti elettronici, per portare avanti il discorso già intrapreso nel precedente Zero K a proposito della sempre più stringente interazione tra uomo e macchina che ci rende già di fatto, per molti aspetti, una specie postumana. Più o meno, ecco la domanda: «cosa succede alle persone che vivono dentro al loro telefono» quando il telefono si spegne definitivamente e ogni interfaccia si riduce a uno schermo nero? «Posso dirvi questo», prova a rispondere la receptionist di un ospedale ormai totalmente ingestibile, «di qualunque cosa si tratti, quello che è successo ha messo fuori uso la nostra tecnologia. La parola stessa mi pare obsoleta, persa nello spazio. Dov’è la fede nell’autorità dei nostri device sicuri, delle nostre capacità di criptaggio, dei nostri tweet, dei troll e dei bot. Ogni cosa nella datasfera è soggetta a distorsioni o furti? E a noi non resta che starcene seduti qui e piangere il nostro destino?». Subito dopo, anche «le luci sul soffitto cominciarono a sfarfallare e ad affievolirsi finché non si spensero del tutto. La clinica piombò improvvisamente nel silenzio. Tutti aspettavano. E oltre a questo, un senso generale di paura per l’attesa stessa, perché ancora non era chiaro il significato di ciò che stava avvenendo, quanto fosse catastrofica e definitiva quell’anomalia che andava ad aggiungersi a una serie di eventi già di per sé drammatici».

Ed in effetti nessuno capisce che cosa stia succedendo. «É sempre stato ai margini della nostra percezione. L’interruzione della corrente, la tecnologia che piano piano si dilegua» - eppure si resta tutti disorientati, lettore compreso, di fronte a una situazione che non si riesce neppure a nominare. Un po’ come è accaduto con il lockdown, quando il blocco improvviso della routine quotidiana ci ha messo di fronte al vuoto di una nuda vita che in molti non sapevano neanche più di possedere, tanto si era sovraccaricata di riunioni, impegni e attività, così il tacere contemporaneo di tutti gli strumenti elettronici del mondo fa piombare l’umanità in uno stato di sospensione, quasi che con lo spegnimento della lucina rossa dell’alimentazione dei nostri strumenti ci si aspettasse, da un momento all’altro, anche l’esaurirsi del nostro stesso respiro (che invece, curiosamente, continua: «toccare, percepire, mordere, masticare. Il corpo alla fine fa di testa sua»). Qualcuno parla di «Terza guerra mondiale», qualcuno dice che stiamo assistendo a «un processo di zombificazione», ma in realtà «nessuno ha idea di cosa stia dicendo». Potrebbe essere un’invasione aliena o la proliferazione di un virus informatico o qualcosa di ancor più inconcepibile: «e se il mondo che conosciamo venisse sottoposto a un nuovo assetto davanti ai nostri occhi mentre stiamo fermi a guardare, oppure mentre stiamo seduti a parlare?» - come una sorta di reset cosmico, un update del sistema che prevede la cancellazione dei dati precedenti e la loro sovrascrittura con una versione aggiornata, prova definitiva che la nostra sedicente realtà non sarebbe altro che una simulazione tridimensionale prodotta da una qualche funzione quantistica (tesi che è stata peraltro sostenuta e argomentata recentemente in sede accademica).

A un certo punto, «la gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, s’interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudio». Insomma, è arrivata l’apocalisse, ma se non c’è più neanche il Televideo per dircelo, non siamo in grado di rendercene conto. E se non siamo più allacciati alla rete delle reti, come facciamo a dire ancora che stiamo davvero vivendo tutti quello che stiamo vivendo? Che il mondo è ancora il “nostro” mondo, una realtà condivisa?

I frammenti sparsi che ho estrapolato spero diano un’idea della frammentarietà stessa del libro. Poiché, quando conosci molto bene una persona, puoi comprenderne le sfumature di pensiero anche da un minimo moto del viso che ai più resta impercettibile, è probabile che chi ha una certa familiarità con DeLillo possa riconoscervi comunque bagliori di genio – più di me, per lo meno, che, pur incuriosito, sono arrivato rapidamente alla fine per ritrovarmi a pensare, come lo spettatore di un trailer, “bello, ma quand’è che comincia la storia?”.

(finito il 30 aprile 2021)

Ho parlato di


Don DeLillo
Il silenzio
(Einaudi 2021)

Trad. di F. Aceto

104 pp. | 14 €

(ed. or.: The Silence, 2020)

lunedì 22 agosto 2022

Il tunnel

Ho la netta sensazione che se avessi scoperto questo libro a sedici anni o giù di lui, il suo protagonista sarebbe entrato difilato nella galleria dei miei eroi adolescenziali. Per il poeta maledetto che immaginavo di essere non appena mi rinchiudevo nella mia cameretta, non ci sarebbe stato infatti nulla di più suggestivo che sprofondare nei monologhi interiori di un personaggio come Juan Pablo Castel, pittore fieramente consapevole «che ciò che a me pare chiaro ed evidente non lo è quasi mai per il resto dei miei simili» e animato per questo da sincera repulsione verso la legione dei normali che tiene in piedi «l’inutile commedia» sociale, limitandosi a ripetere discorsi già detti e ridetti un milione di volte, senza porsi troppe domande. Come avrei potuto evitare di identificarmi, all’epoca, con uno che scrive di sé che «il mio cervello è sempre in fermento» e che al tempo stesso si considera però anche «molto timido» e «condannato a rimanere estraneo alla vita di qualsiasi donna»? Quel suo cervello «sempre in funzione, come un calcolatore» mi avrebbe inevitabilmente richiamato alla mente l’amato Sherlock Holmes, così come le «deduzioni feroci» a cui Castel si abbandona «con rigore assoluto (…) fino alle estreme conseguenze», se non fosse che, a differenza di quanto accade con Holmes, nel «labirinto oscuro» della sua mente tutto questo «analizzare all’infinito fatti e parole» lo porta sistematicamente a «scegliere le strade più accidentate», con la conseguenza di rivestire la realtà di incessanti, contorte, sovraletture, anziché aiutarlo a capire quel che davvero gli accade intorno. Non nego di esserci cascato anch’io – e probabilmente proprio queste ultime considerazioni mi avrebbero potuto aiutare a relativizzare quel che avrei potuto rischiare di idealizzare, come quando ci si accorge, guardando una propria foto, che la posa da duro, in realtà, è solo ridicola: se è vero che le cose non sono necessariamente sempre semplici, fare di questo assunto il pretesto per dare consistenza alle ipotesi più inverosimili non è infatti salutare per nessuno.

Non lo è anzitutto per Maria Iribarne, la donna che, con coraggioso anticlimax, sin dalla prima riga, in quella che dobbiamo immaginare come una confessione stilata in carcere, Castel si assume la responsabilità di avere ucciso. L’errore della vittima – se così si può dire – è stato quello di aver partecipato a un’esposizione delle opere del suo futuro assassino e di essersi soffermata a lungo, con estrema partecipazione interiore, quasi rapita, sul dettaglio di un quadro a cui nessuno degli altri visitatori – e men che meno i critici – aveva fatto caso. Poco importa che quel dettaglio sia una finestrella attraverso cui si vede «una spiaggia deserta e una donna che guardava il mare. Era una donna che guardava come in attesa di qualcosa, forse un richiamo spento e distante». Il punto è che lei, solo lei ha capito che «quella scena costituiva qualcosa di essenziale». Qui l’armatura cinica dell’artista va totalmente in frantumi. Noi lettori siamo abituati a giudicare quel momento folgorante in cui t’imbatti in una frase che ti scava dentro come se fosse stata scritta adesso apposta per te, anche se è stata pensata in un altro tempo e in un altro luogo, come un atto di munificenza del genio che elargisce al mondo la divina sovrabbondanza di doni di cui gode, la sua capacità di vivere migliaia di vite oltre alla sua – eppure lo stesso evento può essere interpretato anche all’opposto, come l’occasione attraverso cui, ritrovando il messaggio in bottiglia che ha gettato nell’oceano della storia, e comprendendone il significato, rassicuriamo il disperato mittente che qualcuno l’ha capito, che non è vissuto invano. Sentite: «era come se entrambi fossimo vissuti in corridoi o in tunnel paralleli, senza sapere di stare un accanto all’altra, come anime somiglianti in tempi somiglianti, per ritrovarci alla fine di quei corridoi, davanti a una scena dipinta da me, come una chiave destinata a lei sola, come l’annuncio segreto che io ero lì e che i corridoi si erano finalmente uniti e che l’ora dell’incontro era arrivata. L’ora dell’incontro era arrivata!».

Sì, sì, mi sto proprio rivedendo, quando trascrivevo sul mio diario gli aforismi di Gibran («il primo sguardo che ci giunge dagli occhi dell’amata è come lo spirito che si muoveva sulla superficie delle acque e che diede origine al cielo e alla terra, quando il Signore parlò e disse: “Che sia così”»), sovrapponendo di continuo i piani al punto da immaginare di poter sedurre la vicina di banco con l’invio di un sonetto. Perché quel che vale per l’arte non vale forse anche per l’amore? Quando in un incrocio di sguardi scatta la scintilla e due perfetti sconosciuti giunti da chissà dove esclamano insieme “sei tu”. Boom. A quel punto anche una cronica acidità cambia colore e persino gli occhi del malmostoso si fanno a cuoricino. «Che tenerezza sentivo nell’anima, che bello mi appariva il mondo, il pomeriggio d’estate, i ragazzini che giocavano sul marciapiede! Adesso ripenso fino a che punto l’amore possa accecare e che magico potere abbia. La bellezza del mondo! Ci sarebbe da morire dal ridere». E infatti a Castel non basta che Maria abbia gettato un giorno il suo sguardo sulla sua opera: a quel punto vuole andare a fondo, conoscerla, entrare nella sua vita, perché la sua non ha più senso senza di lei.

Tutto questo è vero e resta vero anche da grandi. Il problema è che la relazione con Maria non è come Castel se l’aspettava, perché lei (che, fra parentesi, è sposata) è sfuggente e non accetta i deliri totalizzanti con cui lui, come uno stalker, la vorrebbe tutta per sé. «Ci sono molti modi di amare, di voler bene», gli confida, ma lui sul punto non vuole sentire ragioni. Si può facilmente ironizzare su come un simile argomento possa costituire la pretestuosa giustificazione di una donna licenziosa al povero servo della gleba lasciato col cerino in mano e la scopa dove ben sappiamo, eppure è un fatto che in ogni storia d’amore resta davvero sempre un margine di oscurità - non foss’altro perché i due amanti hanno un diverso passato, una propria storia, che non potrà mai essere condivisa del tutto, fino in fondo, fra loro. Amarsi, per fortuna, non è mai fondersi. «Ogni volta che Maria mi si avvicinava in mezzo ad altra gente, io pensavo: “Tra quest’essere meraviglioso e me esiste un vincolo segreto”, e poi, quando analizzavo i miei sentimenti, avvertivo che lei stava diventando indispensabile per me (come qualcuno che incontri su un’isola deserta) per trasformarsi più tardi, una volta che la paura della totale solitudine fosse passata, in una specie di lusso che mi inorgogliva, ed era in questa seconda fase del mio amore che erano cominciate a sorgere mille difficoltà, proprio come quando qualcuno, che sta morendo di fame, accetta qualsiasi cosa, incondizionatamente, per poi, una volta soddisfatte le esigenze più urgenti, iniziare a lamentarsi sempre di più a proposito di difetti e di inconvenienti». E così, la promessa di felicità assaporata al loro primo incontro viene lentamente soffocata dal peso di una quotidanità che il pittore non sa interpretare se non sotto forma di tradimento. «Sentivo per la prima volta che non sarei mai riuscito a unirmi a lei in modo totale e che dovevo rassegnarmi ad avere fragili momenti di comunione tanto malinconicamente inafferrabili come il ricordo di certi sogni, o come la felicità di alcuni passaggi musicali». L’incantesimo non si produrrà mai più, non potrà mai essere come ieri.

Ma quindi la poesia dell’incontro, la fusione di anime? Una «stupida illusione». No, «tutta la storia dei corridoi era una ridicola invenzione o credenza mia». «C’era solo un tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l’infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita. E in una delle parti trasparenti del muro di pietra avevo visto questa ragazza e avevo creduto ingenuamente che arrivasse da un altro tunnel parallelo al mio, quando in realtà apparteneva al grande mondo, al mondo senza limiti di coloro che non vivono in un tunnel; e forse si era avvicinata per curiosità a una delle mie strane finestre e aveva intravisto lo spettacolo della mia solitudine senza scampo, o l’aveva intrigata il linguaggio muto, la chiave del mio quadro. E allora, mentre io avanzavo sempre più per il corridoio, lei viveva all’esterno una vita normale, la vita agitata di quelle persone che vivono all’esterno, quella vita curiosa e assurda in cui ci sono balli e feste e allegria e frivolezza. E a volte succedeva che quando passavo di fronte a una delle mie finestre lei mi stava aspettando muta e ansiosa (perché mi aspettava? E perché muta e ansiosa?); ma a volte succedeva che non arrivava in tempo o si dimenticava di quel povero essere prigioniero, e allora io, con il viso schiacciato contro il muro di cristallo, la vedevo da lontano che sorrideva e ballava spensierata o, peggio ancora, non la vedevo affatto e la immaginavo in luoghi inaccessibili o ignobili. E allora sentivo che il mio destino era infinitamente più solitario di quanto avessi immaginato».

Ho ben presente dei momenti in cui ho provato esattamente questo tipo di emozione – e ho presente anche il rancore (di cui non vado fiero) che in certi momenti m’ha preso, immerso in tali situazioni. Ma, appunto, ero adolescente. Di più, un adolescente imbevuto di letteratura, seguace dei romantici, uno per cui “o tutto o niente”. Oggi ritrovo spesso questo atteggiamento nelle prese di posizione, a volte letterariamente fascinose, di chi, aborrendo il livellamento merceologico del tempo presente, propone come unica via di salvezza l’annichilimento nell’Assoluto, poiché ogni altra forma di vita sarebbe una vile compromissione, come se l’umano non fosse invece un microcosmo in cui l’angelo e il fango si toccano e in qualche modo stanno insieme. «Generalmente, quella sensazione di sentirmi solo al mondo si mescola a un orgoglioso sentimento di superiorità; disprezzo gli uomini, li trovo sporchi, brutti, incapaci, avidi, volgari, meschini; la mia solitudine non mi spaventa, è quasi olimpica». In certi momenti, però, «sento che il mondo è spregevole, ma comprendo che anch’io ne faccio parte; In quegli istanti m’invade una furia di annichilimento, mi lascio accarezzare dalla tentazione del suicidio, mi ubriaco, vado a puttane. E sento una certa soddisfazione nel comprovare la mia propria bassezza e nel verificare che non sono meglio degli orribili mostri che mi rcircondano». Ma questa è, appunto, la posizione di chi non riesce a misurarsi con la realtà, di chi non sa accettare lo strano impasto del concreto e prova perciò ad aggrapparsi all’eterno - oppure, non credendovi, riserva al mondo solo parole di dileggio. «Dio mio, come si poteva non perdere ancor più la fiducia nel genere umano, al pensiero che tra certi istanti di Brahms e una cloaca ci sono occulti e tenebrosi passaggi sotterranei!». E invece è proprio questo il bello: quando si riesce a farci i conti si diventa autenticamente uomini.

(finito il 24 aprile 2021)

Ho parlato di


Ernesto Sabato
Il tunnel
(Feltrinelli 2014)

Trad. di P. Collo e P. Tomaselli

148 pp. | 8 €

(ed. or.: El Túnel, 1948)

martedì 26 luglio 2022

Impero

Sempre a proposito di Stati Uniti, Gore Vidal è un intellettuale che, se non fosse morto esattamente dieci anni fa, proprio in questi giorni, mi aspetterei oggi di ritrovare impegnato a sostenere che le ragioni profonde della guerra in Ucraina sarebbero da attribuire anzitutto all’espansionismo americano nell’Europa orientale, con la stessa vis polemica con cui, dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e l’Afghanistan, aveva apertamente preso posizione contro l’amministrazione di Bush junior. Ma poiché si tratta anzitutto di un grande scrittore (anzi, per me, uno dei grandissimi), dubito che la sua produzione saggistica possa offrirci spunti di riflessione più stimolanti rispetto alla sua opera narrativa, fra cui un posto a sé hanno i sette romanzi del ciclo “Narratives of Empire”, ciascuno dei quali dedicato a un momento chiave della storia che ha condotto l’America dalla proclamazione della sua rustica indipendenza alla conquista dello status di superpotenza globale. Il quarto volume della lista, intitolato semplicemente Impero, racconta in particolare quel periodo compreso tra il 1898 e il 1905 in cui per la prima volta la bandiera a stelle e strisce fu innalzata in luoghi esotici a coronamento di un’occupazione militare presentata come meritoria opera di liberazione (in questo caso, Cuba, Portorico e le Filippine sottratte alla Spagna dopo una breve guerra). Sono le avvisaglie del nuovo secolo che sta iniziando e che si preannuncia per gli americani come quello del «nostro apogeo» e della «nostra età augustea», in cui essi si arrogheranno l’onere, fin qui sostenuto per lo più dall’Inghilterra, di «civilizzare e (…) cristianizzare» le popolazioni arretrate, procedendo pian piano «verso l’annessione, se possibile, del mondo intero». Qui però non si ha solo uno scarto tra la “vecchia” Europa e la “giovane” America, ma anche tra la “vecchia” America rappresentata da chi guarda con nostalgia al patriarca Lincoln (che pure era stato un innovatore) e la “nuova” America pronta a lanciare il guanto di sfida alle altre potenze mondiali, dimostrando così di saper cavalcare il corso di una storia in rapida accelerazione, la cui legge fondamentale sembra essere quella «che vuole che il più efficiente sia destinato a prevalere».

Ebbene, Vidal si colloca al cuore stesso del sistema e descrive le lotte chi vi avvengono, per lo più dietro le quinte, per assicurarsi appunto la possibilità di controllare questa trasformazione della confederazione in una «neo-repubblica imperiale», sebbene la parola “impero” e i suoi sinonimi non vengano mai usati nei discorsi ufficiali, dal momento che ciò potrebbe urtare gli americani più sensibili (poi ci dicono, a noi insegnanti di storia: “tagliate, per arrivare a parlare dei giorni nostri!” Ma come si fa a tagliare, con due ore appena a settimana, se persino in questo paragrafo relativamente minore dei nostri manuali scolastici si annidano vicende così interessanti?). In questo prototipo di House of Cards, il talento dell’autore emerge soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi, che siano reali o fittizi. Il presidente McKinley, per esempio, col suo «pancione, largo e rotondo come il mappamondo», incarna perfettamente «lo spirito della nostra razza nel momento in cui irrompiamo sulla scena mondiale e recitiamo il nostro ruolo, un ruolo di leader». «Papale» quanto i senatori che lo circondano assomigliano ai «cardinali della Roma rinascimentale», «sapeva a stento chi fossero Giulio Cesare o Alessandro Magno, eppure aveva conquistato una parte della terra altrettanto estesa senza muoversi una sola volta dalla sua orribile residenza di stato, con i suoi importantissimi telegrafi e i non meno potenti telefoni». «Nel corso degli anni, la bontà del suo temperamento aveva trasformato un viso che sarebbe potuto essere ottuso, un po’ bovino, in una radiosità quasi divina: “quasi”, perché, a differenza della maggior parte degli dèi, in William McKinley non c’era collera, perfidia, invidia dell’umana felicità, ma solo una continua, raggiante umanità, quasi un’aureola confortante intorno alla sua grossa testa, il cui mento rotondo rifletteva la luce del sole pomeridiano grazie al burro del quale era unto, come fosse stato un unguento sacro». 

L’assassinio di questo «garbato Buddha americano» ad opera di un anarchico, nel 1901 - un anno dopo quello di Umberto I -, spiana la strada a un personaggio che per certi versi ne è l’opposto caratteriale, il suo vice Theodore Roosevelt, anch’egli oggetto di un ritratto memorabile da parte di Vidal. «Uomo di pura energia (…) primitiva e irrazionale», «energia inesauribile al di fuori di qualsiasi disegno», perennemente in movimento «come un soldatino che qualcuno avesse caricato con la molla ma si fosse dimenticato di orientare in una precisa direzione», «tutto azione e spacconate» accompagnate da un fiume infinito di parole ininterrottamente riversate sui suoi interlocutori – Teddy è «un eroe ai suoi stessi occhi», a cui appare come un vero cowboy, un americano tutto d’un pezzo, una cosa sola con l’uomo della strada. «Lui vuole qualunque cosa il popolo voglia» - e sa come ottenerlo: «un uomo istruito – e certamente allude a se stesso – non deve darsi alla politica in qualità di persona colta perché è destinato ad essere sconfitto da qualcuno del tutto privo di istruzione (…); perciò lo consiglia di affrontare le elezioni come se fosse privo di istruzione e di presentarsi all’elettorato (…) semplicemente come un americano; in questo caso vincerà ed è questo quello che conta». Ebbene, questo personaggio così apparentemente fuori dagli schemi, diventato, a 42 anni, il più giovane e anche «il più improbabile» dei presidenti americani, si ritrova a occupare «un posto più rilevante di quello di Traiano nella fase più importante dell’impero romano (…). Nessuno, prima d’ora, ha avuto tanto potere, in un momento così favorevole della storia».  

Possibile che gli oligarchi di Washington si siano fatti cogliere di sorpresa da questa mina vagante populista? Niente affatto. Anche se si presenta come uno «zelante riformatore» dalla parte del popolo contro i poteri forti dei trusts, Roosevelt ha comunque bisogno della «macchina del partito» per diventare prima governatore dello Stato di New York, poi vicepresidente di McKinley e infine candidato vincente alle presidenziali nel 1904. Il fatto è che Teddy «parla proprio come noi e agisce come vogliono che agisca le persone che pagano per lui». É lui il condottiero perfetto per far digerire agli americani, «nel nome della ricerca della felicità, della libertà e dell’indipendenza», e ancor più nel nome del benessere, «un concetto così tipicamente non americano come quello di impero», ma di cui ormai non si può più fare a meno. In realtà, già «al tempo di Lincoln il popolo non svolgeva alcun ruolo nel governo degli Stati Uniti, e ancora meno ora, nell’era di Theodore Rex. Lincoln era stato incline a governare per decreto, grazie al principio multiuso della “necessità militare” che conferiva legittimità alle sue azioni più arbitrarie. Roosevelt, dal canto suo, perseguiva i propri interessi nella sua maniera reticente e alquanto sorprendente: era per l’impero a ogni costo. Il popolo, naturalmente, era sempre più o meno : di tanto in tanto bisognava lusingarlo, esortarlo alla battaglia o ad assecondare qualsiasi desiderio del Cesare Augusto di Washington. Il risultato era una costante tensione tra il popolo in generale e la classe dirigente, persuasa (…) della necessità di concentrare la ricchezza nelle mani di pochi facendo in modo che questi ultimi, per quanto possibile, si mantenessero virtuosi, almeno in apparenza». Ma tutto sommato questo patto iniquo andava bene ai «bravi americani, ansiosi di mantenere i loro padroni nel lusso e se stessi nella speranza di vincere un giorno alla lotteria» - e per questo ostili a qualunque reale programma di redistribuzione delle ricchezze, liquidato subito come pericoloso “socialismo”.  

Paradossalmente, l’unico che sulla carta avrebbe la forza di mettere i bastoni fra le ruote a Roosevelt e all’oligarchia che lo tiene in piedi è un personaggio non meno controverso, quel William Randolph Hearst che fornì a Orson Welles l’ispirazione per Citizen Kane, Quarto potere. Con tutti i giornali che possiede, Hearst, in realtà, il suo impero ce l’ha già, di natura mediatica: non a torto, si considera il vero vincitore della guerra contro la Spagna perché sono state proprio le sue testate a convincere gli americani che l’incidente che aveva dato inizio alle ostilità era stato innescato dagli avversari (cosa tutt’altro che verificata). In questa strana «democrazia basata sui giornali», il «potere reale» e «definitivo» appartiene infatti a «chi reinventa per tutti il mondo, offrendo loro i sogni che si voleva sognassero» - e sebbene neanche Hearst capisca bene la natura esatta di questo potere, sa tuttavia come farlo funzionare. Eccoli, estrapolati da punti diversi del libro, i capisaldi del suo metodo, che sono ancora oggi alla base di tanta sedicente informazione fatta “porta a porta”: «ciò che conta è la luce in cui si mostrano le cose»; «se non ci sono notizie esaltanti da riferire, bisogna crearle»; «ma era improprio parlare di notizie. Non si trattava di notizie ma di divertimento per le masse»; «la chiave di valutazione era il divertimento. Che cosa avrebbe maggiormente eccitato il rozzo cittadino medio?, chi avrebbe rinunciato a un penny per leggere il “Journal”?»; e se il cittadino medio ama gli scandali, offrirgli quello che vuole è un modo generoso di prenderlo finalmente in considerazione e di stare dalla sua parte; «naturalmente terremoti, risultati delle elezioni e delle partite di… baseball (…) sono notizie e pertanto devono essere riportate. Ma il resto di ciò che stampiamo è letteratura, di un tipo particolare che intrattiene, diverte e infiamma i nostri lettori cosicché loro comprano tutto ciò che i nostri inserzionisti hanno intenzione di vendere» (qui le parole di Hearst sono mescolate a quelle di Caroline Sanford, che è invece un personaggio di fantasia, ma non per questo meno affascinante; «una donna indipendente, in un modo al quale il loro mondo non era abituato», che, pur avendo avuto un’educazione europea, abbraccia la carriera editoriale perché comprende che quello è, appunto, il modo per ottenere potere in un paese in cui, in quanto donna, non sarebbe ancora riuscita, neanche oggi, a diventare presidente). Chi è, dunque, Hearst? «Un visionario. Difficile dirlo. Piuttosto, un innovatore, un imprenditore, un evento della natura».  

In forza di questo suo potere, Hearst è «soddisfatto di rimanere al suo posto, come outsider, sì, ma in grado di terrorizzare tutti gli insider». Finché il «populista milionario» non accetta più di essere trattato con sufficienza dai circoli dell’America bene e decide di entrare in politica anche lui,  contro «l’unico uomo verso il quale (…) mostrava segni d’invidia», ossia proprio quel Roosevelt che ritiene essere una sua creazione («siamo stati noi a inventarlo», esaltando oltre ogni misura le vittorie ottenute dal gruppo di volontari da lui comandato in occasione della presa di Cuba, quando Roosevelt divenne una sorta di eroe nazionale). Con questa scelta, appare davvero sulla scena «un’entità nuova, singolare e potente (…) Il creatore (…) cercava di creare se stesso. Era come se uno specchio, invece di riflettere un’immagine, ne avesse proiettata una al di fuori di sé. Hearst era in grado di modificare, in svariati modi, la realtà, ma questa doveva esistere prima che lui potesse operare la sua strana magia. Poteva uno specchio deformante riflettere se stesso se non aveva niente davanti? Hearst era reale?». Fino a quel momento la repubblica americana - «o comunque si volessero definire gli Stati Uniti» – era stata governata «nel migliore dei modi da una classe di ricchi proprietari responsabili» che lasciava di tanto in tanto votare la gente per salvare le apparenze. Teddy Roosevelt era uno splendido leader “popolare”, ma del tutto innocuo, se non addirittura funzionale al mantenimento di questo status quo: “l’americano” per cui si batte è infatti un artificio che esiste solo nella sua testa. Invece «Hearst era diverso, riusciva a suscitare nel popolo reazioni imprevedibili, era in grado di inventare problemi, e poi soluzioni – inventate anch’esse ma non per questo meno popolari. Ora la contesa avveniva tra i pochi dall’animo nobile, guidati da Roosevelt, e Hearst, il vero inventore del mondo moderno. Ciò che Hearst decideva in modo del tutto arbitrario si trasformava in notizia e i pochi potenti erano obbligati a reagire alle sue invenzioni. Sarebbe però riuscito – ed era un punto alquanto discusso dai pochi – a creare le notizie in modo tale da impadronirsi di una delle cariche più alte dello stato, se non addirittura della più alta?». Allora la testuggine si chiuse e l’assalto del barbaro venne respinto: da parte di Vidal non c’è nessuna concessione alla retorica impiegata per escluderlo, ma neanche la minima simpatia per Hearst. Tanto più che l’attacco si è solo spostato su un altro fronte: «ma io andrò avanti – dice, infatti, il magnate, dopo la sua sconfitta – e continuerò a descrivere il mondo in cui viviamo, che diventerà quello che dirò io». E noi ci siamo pienamente dentro.

(finito il 20 aprile 2021)

Ho parlato di


Gore Vidal
Impero
(Fazi 2019)

trad. di B. Marietti

712 pp. | 20 €

(ed. or.: Empire, 1987)

giovedì 21 luglio 2022

Storia degli Stati Uniti

Siamo talmente plagiati dall’immaginario americano che dell’America pensiamo sempre di conoscere tutto, ma come al cagnolino che per lunga confidenza ha imparato le abitudini del padrone non attribuiremmo per questo una reale cognizione anche dei suoi travagli interiori, così probabilmente anche a noi sfugge sempre qualcosa di quanto cova all’ombra della Statua della Libertà. L’assalto a Capitol Hill è stato per me l’ennesimo squillo di sveglia: dopo tanto girarci intorno, non ho più tollerato saperne così poco – e poiché in queste cose sono noiosamente metodico, ho voluto riprendere il filo del discorso dall’inizio, almeno per quanto è possibile a uno che non se ne occupa di mestiere, procurandomi cioè una bella storia degli Stati Uniti che mi offrisse una griglia entro cui collocare via via nomi, concetti ed eventi. Il fatto che ce ne sia una in commercio firmata da Giovanni Borgognone ha facilitato la mia scelta. Con lui mi sembra di giocare in casa, non solo perché ho avuto modo di apprezzarne dal vivo le lucide lezioni tenute ai miei studenti sullo spicchio finale di quella stessa storia, ma anche perché, in un lontanissimo esame di oltre quindici anni fa, era stato proprio lui a interrogarmi sulla Democrazia in America di Tocqueville, uno dei libri che più ha contribuito a formare il mio modo di vedere il mondo. La regola d’oro che suggerisce di differenziare le proprie fonti può forse essere almeno in parte disattesa quando si individua una guida affidabile – e io sono a tal punto convinto che questa lo sia da consigliare a scatola chiusa il suo ultimo libro (America bianca. La destra reazionaria dal Ku Klux Klan a Trump), anche se non ho idea di quando riuscirò a leggerlo.

Giova inoltre il fatto che, per quanto si tratti pur sempre di un testo di sintesi, l’autore non si limiti a mettere semplicemente in fila quanto accaduto dai Padri Fondatori a Obama (ho letto infatti l'edizione del 2013 anche se nel frattempo ne è uscita una nuova e aggiornata), ma si preoccupi sempre di corredare il racconto con ampi riferimenti ai modi, anche discordanti, con cui gli americani hanno interpretato se stessi e il proprio agire, fornendo così delle chiavi per comprendere meglio cosa è diventata l’America e, di riflesso, cosa siamo diventati o cosa stiamo diventando anche noi che ne subiamo l’influenza. Dal momento che qui troviamo alcune delle basi di quell’aggrovigliato filamento che compone il dna delle nostre moderne liberaldemocrazie, credo valga la pena provare a capire se non vi sia qualche tara genetica che rischia di trasmettersi per via ereditaria. Per dire, consideriamo il progetto originario su cui si fonda quel paese: abbandonare la vecchia Europa e abitare la nuova Terra Promessa offerta da Dio ai suoi eletti oltre l’Atlantico, così come un tempo il popolo d’Israele aveva abbandonato l’Egitto del Faraone per abitare il territorio che gli era stato offerto al di là del Giordano, con i pellerossa a svolgere la parte che era stata delle tribù cananee, ossia quella di essere respinti sempre più indietro dall’incedere di quella nuova Arca dell’Alleanza chiamata ora Destino manifesto. Non è così insensato che su queste premesse abbia potuto attecchire nella società americana uno strisciante e perdurante sentimento di xenofobia da parte degli immigrati della prima ora nei confronti di quelli che hanno commesso il solo errore di essere emigrati dopo; più assurdo, ma tutt’altro che insolito, è che tale atteggiamento abbia preso il nome di “nativismo”: evidentemente, dove abbondò la colpa, sovrabbonda anche la rimozione. I veri nativi non sono del resto gli unici esclusi da questa impresa, che almeno inizialmente ignorava anche le donne e i neri (le “altre persone” che abitano il paese a cui allude di passaggio la Costituzione americana, distinguendole bene da “We, the People”). Da quel che capisco, la prossima battaglia tornerà a giocarsi su questo stesso terreno (dentro i privilegiati, fuori tutti gli altri), se già si stanno cominciando a ridisegnare i collegi elettorali in modo da garantire che le minoranze restino minoranze senza violare, formalmente, quel principio maggioritario che noi tendiamo a identificare con la democrazia in quanto tale.

Che poi, a ben vedere, anche se per noi l’America è sinonimo di democrazia, quando scoppiò la guerra contro la madrepatria inglese, «l’“ideologia” rivoluzionaria si incentrò soprattutto sulla nozione di “libertà” (liberty); l’ideale prevalente tra i Padri “non era la ‘democrazia’ (termine usato molto raramente nei dibattiti dell’epoca), ma appunto la “libertà” e l’autogoverno (self-government), da realizzarsi in forma rappresentativa». Una libertà quasi illimitata intensivamente quanto limitata estensivamente, come dicevo, e dalla quale resta perciò estranea l’idea di rimettere in questione gli assetti di potere consolidati, poiché rifiutare un’autorità superiore non significa automaticamente essere disposti a condividere il potere con chi si trova al di sotto di te. La dialettica che sta al cuore del sistema politico americano è difatti quella tra i fautori di un maggior coordinamento da parte dello Stato centrale e quanti sostengono, al contrario, che un’autorità statale forte possa ledere la sacralità delle libertà personali, ossia tra quelli che, con terminologia in un certo senso opposta a quella a cui siamo abituati noi, chiamiamo rispettivamente federalisti e antifederalisti. La nascita degli Stati Uniti come li conosciamo non ha posto fine al dilemma, anzi «il localismo (...) ha continuato a rappresentare una potente forza ideologica nella vita americana; se la struttura del governo è stata plasmata dai federalisti, lo spirito della politica americana, in notevole misura, è stato ispirato dagli antifederalisti». Esso coincide con il «patrimonio identitario della provincia americana, diffidente nei confronti non solo dell’Europa, ma anche delle grandi città della costa orientale statunitense, giudicate troppo vicine allo spirito europeo, e della politica centralistica del governo federale, considerata oppressiva e liberticida, e proprio per questo antiamericana» - quella tipica provincia, per intenderci, che praticava abitualmente i linciaggi come espressione, appunto, «della sovranità popolare». La pretesa di non dover subire la minima ingerenza da parte dello Stato tende così a prevalere sulla disponibilità a elaborare insieme un progetto comune: meglio conservare il diritto individuale di inquinare e di morire senza cure e in povertà che usare denaro pubblico per provare a uscirne insieme (come dimostra il continuo ostruzionismo alle proposte di legge sulla sanità, sulla riduzione delle emissioni nocive, sull’impiego delle armi e via discorrendo).

Mi sembra di individuare, fra le pagine del libro, un filo conduttore che da Thomas Jefferson arriva fino al boom del secondo dopoguerra. «La libertà, proprio in un’epoca in cui trionfavano i grandi poteri economici del tutto al di fuori di un autentico mercato competitivo, e in cui la “fabbrica dei bisogni” giungeva a perfezionare a livelli mai visti i propri strumenti per manipolare le menti dei cittadini e dettare loro la scala delle priorità, si configurava innanzitutto come “libertà di impresa” e “libertà di consumo”». Di nuovo, «al centro della propaganda americana vi era più questa nozione rispetto a quella di democrazia politica», ed è forse per questo che si è poi cercato di esportarla come una merce fra le altre. Al Leviatano che pretende di regolamentare ogni spazio della tua vita subentra il mostro mite che ti convince di aver bisogno di ciò che ti vende e ti lascia fare quello che vuoi in tutte le scelte che risultano innocue rispetto al mantenimento dello status quo, scambiando il soddisfacimento di una voglia per autentica libertà. Davvero fu lucidissimo Tocqueville, che intravide già tutto questo visitando l’America nell’età jacksoniana, quando per la prima volta si andò profilando l’idea di un “dispotismo democratico” esercitato su una «massa atomizzata di individui, chiusi nella cerchia della propria famiglia e dei propri amici e sempre più indifferenti alla società nel suo complesso». Mettete insieme la legge del sangue e la libertà più sfrenata, la difesa con le armi e con i muri del proprio particulare, la retorica patriottica e il familismo amorale, ed ecco comparire i tratti ricorrenti della destra reale, comunque poi la si chiami, così come si manifesta appunto nelle democrazie avanzate. Si parte nobilmente dalla difesa dei diritti e si arriva all’ognun per sé, come ammoniva Simone Weil.

Il problema, per chi vorrebbe opporsi a questa deriva, è che anche il principale modello alternativo elaborato finora negli States presenta dei limiti in un certo senso speculari. Lo si è definito dapprima “progressista”, poi “liberal” (a partire dal New Deal): il suo tratto peculiare è di opporre all’anarchia del mercato - ma anche alla partecipazione popolare - il mito efficientista della pianificazione tecnocratica e l’opera illuminata dei competenti. Prodotto di una cultura urbana, accademica e d’élite, tale atteggiamento è all’origine di uno stuolo infinito di controsensi, come quello per cui un ricchissimo tycoon come Trump ha potuto presentarsi come campione della gente comune contro i poteri forti rappresentati da Hilary Clinton, o quello non meno sconsiderato per cui personaggi come Monti o Draghi finiscono per essere inopinatamente considerati “di sinistra”, solo perché non ruttano a tavola e sono rispettosi del principio di realtà (quando invece la sinistra dovrebbe far leva sull’immaginabile per scardinare la rassegnazione al dato di fatto). Da Wilson a Roosevelt a Kennedy, giù giù fino a Clinton e Obama, questa linea di condotta ha sempre suscitato diffidenze autonomiste e proteste neoidentitarie, in quanto «ritenuta responsabile di una forma di “dispotismo soft” da parte di tecnocrati e alti burocrati federali, considerata come la più grave minaccia nei confronti dell’autentica tradizione politica statunitense, quella della libertà individuale e del self-government», ma ha anche prodotto reazioni contrariate in chi non si ostina ad accettare il neoliberismo come legge naturale e rifiuta «l’“approccio manageriale delle scienze sociali” in base al quale i cittadini parevano essere stati ridotti a “consumatori di beni e servizi”, tanto sul piano economico quanto su quello politico».

Le innegabili doti carismatiche dei grandi presidenti democratici degli ultimi cento anni fanno pensare a come, in fondo, a scontrarsi fra loro siano semplicemente due varianti di populismo, in cui l’appello ai cittadini, non più mediato da istituzioni di raccordo e di confronto, si risolve, come in un qualsiasi televoto, nella scelta tra proposte preconfezionate presentate in forme sempre più semplificate, secondo le regole del marketing (per dire, la “nuova frontiera” kennedyana e “l’impero del male” di Reagan). «Giungeva in ultima analisi, alle sue estreme conseguenze un processo di lungo corso di “spoliticizzazione della collettività”. Alla “cittadinanza” si era sostituito l’“elettorato”, ovvero “i votanti che acquistano una vita politica al momento delle elezioni” e la cui esistenza politica, tra un’elezione e l’altra, “è relegata a un ruolo ombra di partecipazione virtuale”» (i virgolettati sono del politologo Sheldon Wolin, ma qualcosa di simile c’era già in Rousseau). Retrocessi, insomma, da cittadini a followers, indotti a pensare che la democrazia consista nell’accumulare più like anziché nella faticosa costruzione di processi condivisi: è davvero questo il nostro destino? Hanno dunque ragione quelli che dicono che tanto vale abbracciare allora l’autocrazia, così ci risparmiamo anche le lungaggini procedurali? Nonostante tutto, io mi ostino a pensare che questo non sia l’approdo definitivo di una parabola politica in declino, ma appena l’inizio di un percorso estremamente accidentato all’interno del quale c’è però ancora tanto di inespresso che non ha neanche cominciato ad agire veramente nella storia e che ci penserei due volte prima di buttare a mare.

(finito l'8 aprile 2021)

Ho parlato di


Giovanni Borgognone
Storia degli Stati Uniti
La democrazia americana dalla fondazione all'era globale
(Feltrinelli 2013)

363 p. | 12 €

mercoledì 6 luglio 2022

Todo modo

Come credo quasi tutti quelli che hanno letto qualcosa di Sciascia, anch’io ho preso l’abbrivio, molti anni fa, dal Giorno della civetta - dove in effetti puoi trovare ciò che da sempre ti hanno insegnato ad associare a questo autore, ovvero la Sicilia, la mafia e il balletto dei quaquaraquà. Che però in Sciascia ci fosse ben di più l’ho capito quando ho scoperto Todo modo, compreso in una lista di letture consigliate dal mio professore di italiano tra quarta e quinta superiore e reso immediatamente attraente proprio perché, a sorpresa, dell’autore de Il giorno della civetta, non ci veniva consigliato di leggere Il giorno della civetta. Se getti una seconda occhiata sul miracolo, non è detto che tu riesca a rivedere il prodigio, ma ho voluto correre il rischio e da lì sono ripartito per omaggiare il centenario sciasciano.

In realtà c’era ben poco di che preoccuparsi. Anche se questa volta sapevo bene o male a cosa andavo incontro, il sapore è rimasto comunque intatto, bello forte, con quel retrogusto enigmatico che lo rende inconfondibile. A prima vista sembra infatti di avere per le mani un poliziesco, perché ci sono i morti e c’è pure il commissario (anche se questo qui «non era certo un’aquila»), eppure del poliziesco è una sorta di parodia (come recita il sottotitolo de Il contesto, romanzo di quegli stessi anni con cui Todo modo mi sembra affratellato). Non solo manca la rassicurante scena madre in cui il detective raduna i sospettati e scioglie punto per punto la matassa, ma benché il narratore affermi apertamente di avere «risolto il problema», e addirittura che la soluzione trovata è «netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe» - ossia qualcosa che abbiamo proprio lì sotto gli occhi - tale soluzione non viene mai rivelata. Se si trattasse davvero di un testo di Poe sarebbe lecito pensare a una sfida lanciata al lettore. Credo però che Sciascia avesse altri pensieri per la testa.

In effetti «di moventi, tra questa gente, ne puoi trovare a migliaia», così come di catene causali che potrebbero spiegare in modo plausibile quanto accaduto. Con tali premesse, quando si annodano «migliaia di fili, e tutti ammassati», il guazzabuglio, il groviglio o – gaddianamente – il pasticciaccio pare destinato a restare tale e la storia fatalmente «non va a finire». Mostrare lo sfaldarsi dell’indagine mi sembra però appunto un modo per spostare l’attenzione dall’indizio al sistema, che è come dire dal dito alla luna. Poco importa sapere, infatti, se l’assassino sia stato effettivamente tizio o caio, poiché si tratta, in fondo, di un dettaglio. Poteva capitare all’uno come all’altro, di uccidere o di essere uccisi: ecco il vero punto da mettere a fuoco. Chi è infatti “questa gente” di cui si parla qui con sdegnoso distacco? Sono alti prelati, amministratori, parlamentari, ministri, finanzieri – in una parola, «il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica» - convenuti presso un vecchio eremo trasformato in un orrendo albergo per seguire un corso di esercizi spirituali sotto la direzione di uno strano prete, don Gaetano. A raccontarci di loro è un pittore ateo finito involontariamente da quelle stesse parti girovagando in macchina in una calda domenica di luglio, il quale, incuriositosi (“ma davvero si fanno ancora gli esercizi spirituali?”), decide di fermarsi anche lui lì qualche giorno per osservare quel che vi succede. E la prima cosa a colpirlo è che, quando arrivano gli ospiti, l’atmosfera che si crea non è propriamente claustrale, bensì quella «di una compagnoneria facile e sguaiata: gridi di sorpresa, abbracci, manate, scherzosi insulti». I partecipanti «si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti». Pagato con qualche sbadiglio il pegno delle orazioni e dei paternoster, questo stuolo di capibastone si riversa appena possibile negli spazi comuni per scambiarsi «proposte in numeri e numeri in proposte, piccanti aneddoti a carico di amici-nemici e di nemici-amici, adulazioni, condiscendenti apprezzamenti; e qualche barzelletta oscena piuttosto arretrata. (…) Era facile immaginare che i due che si parlavano vicino a me stessero complottando qualcosa contro quegli altri due che stavano dalla parte opposta, e viceversa; e così ogni coppia contro ogni altra distante: sicché lo spiazzale diventava come un telaio su cui si stendeva una fitta trama di inganni, di tradimenti; e le spole che passavano da una mano all’altra». Poco a poco prende insomma forma, in carne, ossa e vasa-vasa, quel tumore che è attecchito nei gangli vitali delle nostre istituzioni repubblicane e le ha schiacciate nelle sue spire, consolidando il suo potere attraverso delitti benedetti con una spruzzatina d’acqua santa («lei, mi scusi, non sa di che cosa è capace la gente casa e chiesa, la gente col libro da messa in mano»...).

La scurrilità delle scene appena evocate, unita alla presenza nell’eremo delle amanti di alcuni di questi alti papaveri, sembra per un attimo far prendere al racconto la piega di una commedia licenziosa in cui da un momento all’altro potrebbe spuntare Lino Banfi. L’aspetto farsesco di tutta questa situazione è quello che in effetti cattura l’attenzione di un altro personaggio che, come il protagonista, non si trova lì per meditare, ossia il cuoco degli esercizi. «Ci vengo a ogni estate – confida sogghignando - per non perdermi questo spettacolo, anche se mi pagano male». La satira fa però solo da scorza a un’opera stratificata e complessa, sovrabbondante di citazioni e allusioni dotte, tanto suggestiva da leggere quanto difficile poi da riassumere senza perderne lo spirito, volutamente barocca anche nel suo rimescolare continuamente, e con compiacimento, realtà e finzione (il riferimento a Borges è esplicito: e forse fu proprio il ritrovarvi insieme, tra gli altri, Borges e Poe a farmela amare così tanto, se ricordo bene il diciottenne che fui). La scena più potente di tutto il libro descrive una sorta di coreografia che vede i partecipanti agli esercizi muoversi ordinatamente avanti e indietro lungo il piazzale antistante l’eremo per la recita del rosario serale, con un continuo trapasso dalle zone d’ombra alle zone di luce di tenore caravaggesco. Ebbene, contemplando questa singolare liturgia, il narratore nota che, pur «nell’abietta mistificazione e nel grottesco» di cui essa è carica, c’era comunque «qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri». Se poi qualcuno obiettasse che un ladro che ruba per il partito è meno ladro degli altri, dovrà comunque accettare che fra loro ci fosse quantomeno un vero assassino, o più d’uno, dal momento che proprio durante una di queste preghiere, «in quel posto al confine del mondo, al confine dell’inferno», avverrà il primo omicidio – il che fa di questo romanzo, a ben pensarci, anche la parodia di una sacra rappresentazione.

A contrappuntare continuamente tutta la vicenda, sollevandoci verso un significato simbolico superiore, è il fitto dialogo intessuto, a parole e con gli sguardi, tra il narratore e don Gaetano. Questi, infatti, è un sacerdote sui generis (si presenta come «molto cattivo»), coltissimo, spigliato e dalla conversazione estremamente piacevole, «parlasse del vino o di Arnobio, di Sant’Agostino, della pietra filosofale, di Sartre». Su tutti i suoi ospiti egli esercita un fascino ipnotico, grazie a cui riesce a rigirarseli come meglio vuole. Al suo interlocutore, ideologicamente agli antipodi, offre appunto la «solidarietà nel disprezzo; come a dire: capisco la sua insofferenza, ma guardi come li tratto». É, insomma, uno che la sa lunga, lontanissimo dall’immagine tipica sia del povero curato di campagna che del reazionario beghino. D’altronde i suoi occhiali sono esattamente identici a quelli indossati dal diavolo nel quadro conservato nella cappella dell’eremo, una copia del Sant’Antonio di Rutilio Manetti spacciata come raffigurazione del sedicente san Zafer a cui il luogo è intitolato, ma che naturalmente non è mai esistito, la sua storia essendo stata inventata a fine Ottocento da un farmacista locale a partire da una leggenda popolare. Proprio la lucidità di don Gaetano, tuttavia, se per certi aspetti lo rende degno d’ammirazione agli occhi del narratore, suscita in quest’ultimo anche un’avversione maggiore di quella nutrita per coloro che si sottomettono alla sua autorità. Anche se ama esprimersi per paradossi (le mie certezze, afferma, «sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi») e se di lui non si capisca mai bene se parli sul serio o per scherzo, don Gaetano, infatti, sa quello che fa. La sua tesi suppergiù è che la parabola della modernità si sia ormai consumata e che quegli stessi arieti usati un tempo per abbattere la religione oggi tornano utili per supportare la ripresa del sacro. Prendiamo la scienza, per esempio: «che scruti la cellula, l’atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all’universo? (…) E lo spavento cosmico sarà nulla di fronte allo spavento che l’uomo avrà di se stesso e degli altri». A quanti restano dispersi e senza rotta in questo mondo buio la chiesa offre un appiglio: non è, come direbbero i “preti buoni”, «la comunità convocata da Dio», ma solo «una zattera, la zattera della Medusa, se vuole», a bordo della quale, certo, si salveranno, se va bene, il dieci o quindici per cento di quanti vi accorreranno, ma per chi vi resterà fuori proprio non ci sarà scampo. Alle perplessità che la coscienza laica muove a questa visione, don Gaetano risponde «che il laicismo, quello per cui vi dite laici» non è altro, in realtà, che «il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, a essere imperfetti...». Detto altrimenti, “Dio esiste, dunque tutto ci è permesso”.

L’unico antidoto a questa rielaborazione della leggenda del Grande Inquisitore sembrerebbe essere la via cui approda Candido, con la sua rinuncia ad ogni grande racconto mitologico e l’impegno modesto ma implacabile a coltivare il proprio giardino illuminandolo col lanternino della ragione. In effetti, all’inizio della sua permanenza, ascoltando per la prima volta la messa in italiano, il narratore aveva avuto l’impressione di assistere alla dissoluzione del cristianesimo e della sua «maestosa illusione», e ciò lo aveva indotto a meditare, con una certa soddisfazione, sul «passato splendore» della chiesa, «il suo squallido presente» e «la sua inevitabile fine». Tuttavia l’attivismo intelligente di don Gaetano lo mette rapidamente in guardia sul fatto che «tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre vigilare». Un cambio di linguaggio (siamo nei primi anni del post-Concilio) non significa cioè un cambio di sostanza: continueranno, anzi, ad essere garantite adeguate coperture a ogni genere di intrallazzo, purché ci si ricordi sempre di dare a Dio quello che è di Dio - e tutto questo dovrà continuare ad essere denunciato, senza farsi ammaliare dalle apparenti novità (credo che Sciascia nutrirebbe forti sospetti su un papa come Francesco: ovviamente non condivido, ma trovo stucchevole insegnare al non credente come dovrebbe fare il non credente e accetto la provocazione). Quasi di sfuggita al protagonista scappa però anche una sorta di ambigua profezia di cui egli stesso sembra sorprendersi («tante cose avevo perso di vista; di tanti mutamenti non mi ero accorto, di tante novità»). Tra le finzioni elaborate dal cristianesimo nel corso della sua storia bimillenaria e la definitiva baracconata a cui sembra essersi ridotto, le prime offrivano almeno un certo qual senso del mistero, venuto meno il quale la classe dirigente fin qui riparatasi dietro lo scudocrociato si ritrova ormai a gestire solo «una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro». Tale esercizio di potere, tollerato finché sorretto da alte motivazioni ideali, sta cominciando ad apparire sempre più insopportabile a chi ne è escluso. Già la scure è posta alla radice degli alberi e si diffonde un gran desiderio di far saltare le teste. Ma non chiamatelo illuminismo – suggerisce l’oracolo: sarà solo una variante di qualunquismo.

(finito il 30 marzo 2021)

Ho parlato di


Leonardo Sciascia
Todo modo
(GEDI 2021)

128 pp. | 8,90 €
Collana "Leonardo Sciascia 100 anni" vol. 2

(ed. or.: 1974)