É davvero impressionante pensare che questo densissimo e meraviglioso libretto – la cui stesura, per uno come me, avrebbe potuto tranquillamente costituire, da solo, l’obiettivo di tutta una vita – sia catalogato, invece, con involontaria sufficienza, fra le “opere minori” di von Balthasar, neanche fosse la sua lista della spesa (chissà quanto dovranno essere straordinarie, allora, quelle “maggiori”, e chissà se avrò mai occasione di leggerle in questa vita o se faccio prima ad aspettare di contemplare direttamente la Gloria quando verrà la mia ora). In questo testo del 1972 il teologo svizzero affronta quello che a me pare sempre più essere il problema dei problemi – ossia come tenere insieme unità e pluralità nella fede, nella chiesa e nel mondo – e lo fa ricorrendo a una metafora musicale: «con la sua rivelazione – dice – Dio sta seguendo una sinfonia, della quale non è possibile dire cosa sia più maestoso, se l’ispirazione unitaria della composizione, oppure l’orchestra polifonica della creazione, che egli si è preparato a questo scopo». Perché si dia una sinfonia, infatti, e perché tale sinfonia sia un’opera bella (bella in quanto compiuta, organica, unitaria), i musicisti non devono procedere all’unisono, se no sai che noia, ma seguire tutti la specifica partitura pensata per il proprio strumento. Di una semplicità disarmante, come spesso sono le grandi idee, anche questa è però in grado di suscitare sviluppi sorprendenti, se adeguatamente sviluppata, per assimilare pienamente i quali occorreranno forse secoli, più ancora che decenni. Tali inusitati orizzonti di pensiero e d’azione sono per l’appunto quelli che qui von Balthasar ci prospetta, variando continuamente sullo stesso tema, in maniera non troppo diversa da come Cusano giocava con la sua dotta ignoranza. Cito il Cardinale non a caso, giacché la sua voce rientra fra le sonorità familiari che mi pare di ritrovare in questi virtuosismi metodologici, riarrangiate però in un quadro teologicamente solido e convincente quale non sarei stato assolutamente in grado di fabbricarmi da me. Ben venga, ogni tanto, un libro che mi spiega quello che penso e perché faccio bene a pensarlo.
Partiamo dai fondamenti. Dio è «l’Unico, che nella sua infinita libertà si autopossiede e si autodetermina»: secondo la rivelazione cristiana questa autodeterminazione lo porta a donare totalmente se stesso, «ma in modo tale che nessuno possa appropriarselo a suo uso e consumo». I vangeli di Natale ci hanno ricordato, appunto, che Dio nessuno lo ha mai visto e che solo il Verbo incarnato, generato nel suo seno, ce lo ha rivelato. Eppure persino il Verbo, pur rivendicando la propria intimità speciale con Dio, nel momento stesso in cui lo chiama Padre e si presenta quale Figlio, instaura anche una differenza da intendere come profondità insondabile: in lui c’è tutto Dio eppure Dio è ancora infinitamente più di quello che in lui si manifesta. «Dio, l’eterno inafferrabile, viene incontro a noi come un “Dio della prossimità”, che tuttavia non sarebbe Dio se non restasse anche un “Dio della lontananza”». Mistero insuperabile, che però, a ben vedere, sperimentiamo in una certa misura tutti, quotidianamente, in quanto «la contemporanea presenza di rivelazione e di permanente mistero è propria di tutte le relazioni interpersonali, ne costituisce il valore e la tensione». Infatti, «l’uomo, l’altro, anche se noi lo frequentiamo ogni giorno, rimane sempre un mistero, più o meno svelato – ma sempre un mistero». Offrendosi a noi come un «tu umano», scegliendo di manifestarsi proprio come persona, e non – per dire – come sasso, la verità divina ci ricorda insomma che «non è una cosa e neppure un sistema», qualcosa, cioè, che possa essere de-finito, circoscritto, ridotto a formula da imparare a memoria, infine più o meno manipolato. Quello che Dio vuole dire «è molto di più di quanto tutte le forme del pensiero e il linguaggio dell’umanità possano esaurire» e perciò può essere accostato solo «progressivamente, concentricamente da innumerevoli definizioni», nessuna delle quali esclusiva o risolutiva. Come osservava già Agostino, «Si comprehendis non est Deus, - se pensi di averlo compreso non è più Dio».
Tutto ciò ha svariate conseguenze, in primis per chi fa il mio mestiere. Poste tali premesse, l’autentico significato della ricerca filosofica, intesa, per la verità, non tanto e non solo come disciplina specialistica ma come espressione dell’inquieto interrogare dell’uomo, dovrà infatti consistere principalmente nel «non permettere che si spenga la fiamma del pensiero», resistendo ad ogni tentativo di chiudere definitivamente il cerchio con una risposta conclusiva, magari di tipo tecnico, che respinga come irrilevanti i problemi che non si è in grado di risolvere, appiattendoci così su una confortevole ma sbiadita organizzazione dell’esistente. Le grandi filosofie, in realtà, non hanno mai avuto problemi a confessare «la loro incapacità a raggiungere un traguardo definitivo» e neanche a dichiarare che l’essere può dirsi in molti modi, e perciò sono pronte a interagire, a dialogare, a imparare l’una dall’altra, non per banale sincretismo, ma conscie del fatto che ciascuna di esse si inerpica solo per uno dei possibili versanti attraverso cui si può accedere alla verità e dunque, nel mettere a fuoco un tema in particolare, ne lascia inevitabilmente qualcuno sullo sfondo, che sarà invece un’altra ad approfondire meglio. Devo dire che qui mi sento a casa, su una via a cui mi ha indirizzato Socrate e lungo la quale ho avuto come brillanti compagni di strada tutti quegli scettici frequentati nei miei anni di studi rampanti. Con queste forme di filosofia la rivelazione può accordarsi, e poco importa se esse siano sorte «nel bacino del Mediterraneo, in Estremo Oriente oppure in Africa». Anzi, «non può esserci assolutamente motivo di turbamento al pensiero che la verità della rivelazione, che all’inizio sono state espresse in concetti ellenistici dai grandi concili, non possono essere ugualmente trasfuse in concetti indiani o cinesi. Già gli stessi concetti greci dovettero subire un ampliamento, che spesso equivalse quasi a una nuova creazione (ipostasi), per essere in grado di accogliere, con una certa duttilità, il nuovo contenuto; i concetti indiani e cinesi potrebbero subire ugualmente una simile interpretazione». Dio non parla ebraico, né greco, né tanto meno latino – o meglio, parla tutte queste lingue contemporaneamente, e infinite altre ancora, come lo Spirito il giorno di Pentecoste: sarebbe perciò riduttivo volerlo imprigionare dentro un unico vocabolario, come un pentacolo.
La manifestazione della verità divina in forma di persona consente inoltre di capire perché, già nello stesso Nuovo Testamento, possano coesistere, in tensione ma non in contraddizione, cristologie diverse. «Da Cristo (…) si dipartono, girando continuamente attorno al suo mistero, nuove vie verso tutte le direzioni»: è questo il senso di un autentico «pluralismo cattolico» e di una «legittima pluralità teologica». L’unico criterio a cui occorrerà attenersi è appunto quello di non pretendere di racchiudere la realtà essenziale cui la fede risponde - Dio ama il mondo in modo sconsiderato - dentro una cornice logica o giuridica che pretenderebbe di dedurla come un atto in qualche modo dovuto, una necessità dialettica, dal momento che si tratta, al contrario, di un un atto libero, gratuito, eccedente ogni ragionamento, perché Dio è l’amore stesso, e nessuna legge può imporre di amare. Un simile mistero, lo si ripete quasi ad ogni pagina, è «inesauribile», come inesauribili sono le modalità diverse con cui si può amare una persona: per questo «il discorso vivo del Dio, che si autorivela lungo il corso sempre più ampio della storia della Chiesa, può crearsi nuovi organi di vita e di espressione, che partecipano della verità nella misura in cui manifestano genuinamente la sua azione e il suo annuncio. Quanto più perfetta è l’unità che si manifesta, tanto più varia e inaspettata, ricca e molteplice essa può presentarsi. (…) Il principio unificante, che, solo, permette di coordinare e quindi anche di comprendere le differenti rivelazioni di Dio (…) non sarà mai a disposizione dell’uomo, del teologo per esempio, che su di esso potrebbe costruire un sistema della verità divina o della conoscenza assoluta; esso rimane l’Io di Dio in Cristo, che non può mai essere comunicato al punto da cessare di autodonarsi». Paradossalmente, lo scopo di ciò che chiamiamo “dogma” è di tenere antidogmaticamente sempre aperto il discorso, anziché di chiuderlo una volta per tutte. Insomma, c’è spazio per chiunque non pretenda che la sua sia l’ultima parola: la clausola sembra minima, eppure basta a mettere fuori gioco le rappresentazioni inadeguate di Dio e le giustificazioni di chi vorrebbe tagliare il grano con la zizzania.
La pluralità teologica non è però altro che un’espressione del pluralismo ecclesiale – il tema che forse, in quella fase di primissima ricezione conciliare, von Balthasar aveva più a cuore sottolineare. L’essere istituita da una chiamata impone infatti alla Chiesa di verificare continuamente se «ha sufficiente fantasia (nello Spirito Santo) per dare una risposta alla inesauribile fantasia di Dio nel suo donarsi». Il mistero che essa custodisce «si attua – sempre unico e identico – attraverso tutti i tempi e nel presente», sicché nessuno può dire di incarnarlo – lui solo o il gruppetto di cui fa parte – nella sua pienezza. Tutti i credenti «costituiscono una tessera di questo mosaico, di questo mistero, di cui non possono scegliere nessuna parte, perché è stato piuttosto il mistero come totalità che ha scelto loro». Ciò significa che non c’è una forma, un ordine, un tempo privilegiato, come non c’è una forma, un ordine, un tempo da ripudiare in modo definitivo. «Se tutti insieme rivolgono il loro sguardo al Capo, il Maestro che serve, il dialogo tra i discepoli – qualunque sia la loro missione speciale nel Corpo del Cristo – non potrà mai cessare a causa di reciproca incomprensione oppure degenerare in amarezza». Si apprezza meglio, in questo senso, l’invito paolino a “sopportarci a vicenda”. Il pluralismo non è una condizione da tollerare per via della nostra fragilità, «ma è richiesto come un bene di altissimo valore», perché è precisamente in quella pluralità di esperienze – e non nonostante quella pluralità – che l’Altissimo si manifesta. Questa è appunto una risorsa del cattolicesimo, che resta fedele al suo mandato solo se non si interpreta come una conventicola separata dalle altre per il suo rito, il suo culto, il suo linguaggio, cadendo così nella tentazione narcisistica del settarismo (per cui si sta a proprio agio solo con quelli che la pensano esattamente come me), ma nella misura in cui offre al mondo un modello di come sia possibile stare comunque insieme pur essendo, per tanti aspetti, diversi. Del resto, «l’unità dell’amore è quella che esige la pluralità delle forme, essa le origina e le tiene raccolte in sé».
Ancora una cosa, prego. «A una fede che si basa sulla incarnazione», ricorda von Balthasar, «è proibita ogni fuga dal mondo». E tuttavia, a una fede «che si riconosce totalmente come dono dell’iniziativa di Dio, è proibito ogni tentativo di “accaparrarsi” la salvezza con le sue proprie forze. (…) Il cristiano deve assumere l’impegno storico, senza però soggiacere alla tentazione di Prometeo; di più: egli deve collaborare a un’opera di salvezza del mondo e dell’uomo, sapendo che quest’opera non può essere portata a termine nell’orizzonte intramondano». La consapevolezza che non c’è un paradiso perduto da ripristinare o una società perfetta da realizzare scioglie il cristiano dal pericolo di sprofondare nella nostalgia del passato o nell’attesa messianica del futuro, mettendolo in condizione di vivere pienamente il presente. Il suo segreto consiste nel «poter immettere, anticipatamente, lo Spirito delle realtà eterne in quelle terrestri: non distruggendole e mandandole in frantumi con una violenza anarchico-profetica, ma annullando, liberando e trasformando, dal di dentro, la legge “alienante”, con la spontaneità dell’amore. (…) Mostrando ogni giorno la forza dell’amore, della metanoia, dell’impegno, egli comincia già da oggi a cambiare il mondo, incanala già oggi sviluppi e tendenze nel loro corso che empiricamente si rivela sempre come una circolazione. (…) E così, nella partecipazione del credente alla provvidenza che abbraccia ogni cosa, provvidenza che noi abbiamo indicato come l’evento Cristo, colui che ama, che intercede per gli altri, che soffre con gli altri, contribuisce in modo nascosto a guidare il corso del mondo. Nella visione cristiana la croce è l’azione più grande, che dà i suoi frutti là dove, diversamente, tutto sarebbe ormai sterile». É in questo modo che l’Eterno fa irruzione nel tempo: in ogni singolo bicchiere d’acqua dato a un assetato c’è tutta la rivelazione di Dio senza però che quel gesto la esaurisca per intero. Così, come un sussurro, comincia già qui il Regno dei cieli. La speranza del cristiano è fondata sulla fiducia che, quando sarà il momento, il Padre lo porterà a compimento.
(finito il 29 dicembre 2020)
Ho parlato di
La verità è sinfonica
(Jaca Book 1991)
trad di R. Rota Graziosi
138 pp. | 20.000 lire
(ed. or.: Die Wahreit ist symphonisch, 1972)