venerdì 14 gennaio 2022

La verità è sinfonica

É davvero impressionante pensare che questo densissimo e meraviglioso libretto – la cui stesura, per uno come me, avrebbe potuto tranquillamente costituire, da solo, l’obiettivo di tutta una vita – sia catalogato, invece, con involontaria sufficienza, fra le “opere minori” di von Balthasar, neanche fosse la sua lista della spesa (chissà quanto dovranno essere straordinarie, allora, quelle “maggiori”, e chissà se avrò mai occasione di leggerle in questa vita o se faccio prima ad aspettare di contemplare direttamente la Gloria quando verrà la mia ora). In questo testo del 1972 il teologo svizzero affronta quello che a me pare sempre più essere il problema dei problemi – ossia come tenere insieme unità e pluralità nella fede, nella chiesa e nel mondo – e lo fa ricorrendo a una metafora musicale: «con la sua rivelazione – dice – Dio sta seguendo una sinfonia, della quale non è possibile dire cosa sia più maestoso, se l’ispirazione unitaria della composizione, oppure l’orchestra polifonica della creazione, che egli si è preparato a questo scopo». Perché si dia una sinfonia, infatti, e perché tale sinfonia sia un’opera bella (bella in quanto compiuta, organica, unitaria), i musicisti non devono procedere all’unisono, se no sai che noia, ma seguire tutti la specifica partitura pensata per il proprio strumento. Di una semplicità disarmante, come spesso sono le grandi idee, anche questa è però in grado di suscitare sviluppi sorprendenti, se adeguatamente sviluppata, per assimilare pienamente i quali occorreranno forse secoli, più ancora che decenni. Tali inusitati orizzonti di pensiero e d’azione sono per l’appunto quelli che qui von Balthasar ci prospetta, variando continuamente sullo stesso tema, in maniera non troppo diversa da come Cusano giocava con la sua dotta ignoranza. Cito il Cardinale non a caso, giacché la sua voce rientra fra le sonorità familiari che mi pare di ritrovare in questi virtuosismi metodologici, riarrangiate però in un quadro teologicamente solido e convincente quale non sarei stato assolutamente in grado di fabbricarmi da me. Ben venga, ogni tanto, un libro che mi spiega quello che penso e perché faccio bene a pensarlo.

Partiamo dai fondamenti. Dio è «l’Unico, che nella sua infinita libertà si autopossiede e si autodetermina»: secondo la rivelazione cristiana questa autodeterminazione lo porta a donare totalmente se stesso, «ma in modo tale che nessuno possa appropriarselo a suo uso e consumo». I vangeli di Natale ci hanno ricordato, appunto, che Dio nessuno lo ha mai visto e che solo il Verbo incarnato, generato nel suo seno, ce lo ha rivelato. Eppure persino il Verbo, pur rivendicando la propria intimità speciale con Dio, nel momento stesso in cui lo chiama Padre e si presenta quale Figlio, instaura anche una differenza da intendere come profondità insondabile: in lui c’è tutto Dio eppure Dio è ancora infinitamente più di quello che in lui si manifesta. «Dio, l’eterno inafferrabile, viene incontro a noi come un “Dio della prossimità”, che tuttavia non sarebbe Dio se non restasse anche un “Dio della lontananza”». Mistero insuperabile, che però, a ben vedere, sperimentiamo in una certa misura tutti, quotidianamente, in quanto «la contemporanea presenza di rivelazione e di permanente mistero è propria di tutte le relazioni interpersonali, ne costituisce il valore e la tensione». Infatti, «l’uomo, l’altro, anche se noi lo frequentiamo ogni giorno, rimane sempre un mistero, più o meno svelato – ma sempre un mistero». Offrendosi a noi come un «tu umano», scegliendo di manifestarsi proprio come persona, e non – per dire – come sasso, la verità divina ci ricorda insomma che «non è una cosa e neppure un sistema», qualcosa, cioè, che possa essere de-finito, circoscritto, ridotto a formula da imparare a memoria, infine più o meno manipolato. Quello che Dio vuole dire «è molto di più di quanto tutte le forme del pensiero e il linguaggio dell’umanità possano esaurire» e perciò può essere accostato solo «progressivamente, concentricamente da innumerevoli definizioni», nessuna delle quali esclusiva o risolutiva. Come osservava già Agostino, «Si comprehendis non est Deus, - se pensi di averlo compreso non è più Dio».

Tutto ciò ha svariate conseguenze, in primis per chi fa il mio mestiere. Poste tali premesse, l’autentico significato della ricerca filosofica, intesa, per la verità, non tanto e non solo come disciplina specialistica ma come espressione dell’inquieto interrogare dell’uomo, dovrà infatti consistere principalmente nel «non permettere che si spenga la fiamma del pensiero», resistendo ad ogni tentativo di chiudere definitivamente il cerchio con una risposta conclusiva, magari di tipo tecnico, che respinga come irrilevanti i problemi che non si è in grado di risolvere, appiattendoci così su una confortevole ma sbiadita organizzazione dell’esistente. Le grandi filosofie, in realtà, non hanno mai avuto problemi a confessare «la loro incapacità a raggiungere un traguardo definitivo» e neanche a dichiarare che l’essere può dirsi in molti modi, e perciò sono pronte a interagire, a dialogare, a imparare l’una dall’altra, non per banale sincretismo, ma conscie del fatto che ciascuna di esse si inerpica solo per uno dei possibili versanti attraverso cui si può accedere alla verità e dunque, nel mettere a fuoco un tema in particolare, ne lascia inevitabilmente qualcuno sullo sfondo, che sarà invece un’altra ad approfondire meglio. Devo dire che qui mi sento a casa, su una via a cui mi ha indirizzato Socrate e lungo la quale ho avuto come brillanti compagni di strada tutti quegli scettici frequentati nei miei anni di studi rampanti. Con queste forme di filosofia la rivelazione può accordarsi, e poco importa se esse siano sorte «nel bacino del Mediterraneo, in Estremo Oriente oppure in Africa». Anzi, «non può esserci assolutamente motivo di turbamento al pensiero che la verità della rivelazione, che all’inizio sono state espresse in concetti ellenistici dai grandi concili, non possono essere ugualmente trasfuse in concetti indiani o cinesi. Già gli stessi concetti greci dovettero subire un ampliamento, che spesso equivalse quasi a una nuova creazione (ipostasi), per essere in grado di accogliere, con una certa duttilità, il nuovo contenuto; i concetti indiani e cinesi potrebbero subire ugualmente una simile interpretazione». Dio non parla ebraico, né greco, né tanto meno latino – o meglio, parla tutte queste lingue contemporaneamente, e infinite altre ancora, come lo Spirito il giorno di Pentecoste: sarebbe perciò riduttivo volerlo imprigionare dentro un unico vocabolario, come un pentacolo.

La manifestazione della verità divina in forma di persona consente inoltre di capire perché, già nello stesso Nuovo Testamento, possano coesistere, in tensione ma non in contraddizione, cristologie diverse. «Da Cristo (…) si dipartono, girando continuamente attorno al suo mistero, nuove vie verso tutte le direzioni»: è questo il senso di un autentico «pluralismo cattolico» e di una «legittima pluralità teologica». L’unico criterio a cui occorrerà attenersi è appunto quello di non pretendere di racchiudere la realtà essenziale cui la fede risponde - Dio ama il mondo in modo sconsiderato - dentro una cornice logica o giuridica che pretenderebbe di dedurla come un atto in qualche modo dovuto, una necessità dialettica, dal momento che si tratta, al contrario, di un un atto libero, gratuito, eccedente ogni ragionamento, perché Dio è l’amore stesso, e nessuna legge può imporre di amare. Un simile mistero, lo si ripete quasi ad ogni pagina, è «inesauribile», come inesauribili sono le modalità diverse con cui si può amare una persona: per questo «il discorso vivo del Dio, che si autorivela lungo il corso sempre più ampio della storia della Chiesa, può crearsi nuovi organi di vita e di espressione, che partecipano della verità nella misura in cui manifestano genuinamente la sua azione e il suo annuncio. Quanto più perfetta è l’unità che si manifesta, tanto più varia e inaspettata, ricca e molteplice essa può presentarsi. (…) Il principio unificante, che, solo, permette di coordinare e quindi anche di comprendere le differenti rivelazioni di Dio (…) non sarà mai a disposizione dell’uomo, del teologo per esempio, che su di esso potrebbe costruire un sistema della verità divina o della conoscenza assoluta; esso rimane l’Io di Dio in Cristo, che non può mai essere comunicato al punto da cessare di autodonarsi». Paradossalmente, lo scopo di ciò che chiamiamo “dogma” è di tenere antidogmaticamente sempre aperto il discorso, anziché di chiuderlo una volta per tutte. Insomma, c’è spazio per chiunque non pretenda che la sua sia l’ultima parola: la clausola sembra minima, eppure basta a mettere fuori gioco le rappresentazioni inadeguate di Dio e le giustificazioni di chi vorrebbe tagliare il grano con la zizzania.

La pluralità teologica non è però altro che un’espressione del pluralismo ecclesiale – il tema che forse, in quella fase di primissima ricezione conciliare, von Balthasar aveva più a cuore sottolineare. L’essere istituita da una chiamata impone infatti alla Chiesa di verificare continuamente se «ha sufficiente fantasia (nello Spirito Santo) per dare una risposta alla inesauribile fantasia di Dio nel suo donarsi». Il mistero che essa custodisce «si attua – sempre unico e identico – attraverso tutti i tempi e nel presente», sicché nessuno può dire di incarnarlo – lui solo o il gruppetto di cui fa parte – nella sua pienezza. Tutti i credenti «costituiscono una tessera di questo mosaico, di questo mistero, di cui non possono scegliere nessuna parte, perché è stato piuttosto il mistero come totalità che ha scelto loro». Ciò significa che non c’è una forma, un ordine, un tempo privilegiato, come non c’è una forma, un ordine, un tempo da ripudiare in modo definitivo. «Se tutti insieme rivolgono il loro sguardo al Capo, il Maestro che serve, il dialogo tra i discepoli – qualunque sia la loro missione speciale nel Corpo del Cristo – non potrà mai cessare a causa di reciproca incomprensione oppure degenerare in amarezza». Si apprezza meglio, in questo senso, l’invito paolino a “sopportarci a vicenda”. Il pluralismo non è una condizione da tollerare per via della nostra fragilità, «ma è richiesto come un bene di altissimo valore», perché è precisamente in quella pluralità di esperienze – e non nonostante quella pluralità – che l’Altissimo si manifesta. Questa è appunto una risorsa del cattolicesimo, che resta fedele al suo mandato solo se non si interpreta come una conventicola separata dalle altre per il suo rito, il suo culto, il suo linguaggio, cadendo così nella tentazione narcisistica del settarismo (per cui si sta a proprio agio solo con quelli che la pensano esattamente come me), ma nella misura in cui offre al mondo un modello di come sia possibile stare comunque insieme pur essendo, per tanti aspetti, diversi. Del resto, «l’unità dell’amore è quella che esige la pluralità delle forme, essa le origina e le tiene raccolte in sé».

Ancora una cosa, prego. «A una fede che si basa sulla incarnazione», ricorda von Balthasar, «è proibita ogni fuga dal mondo». E tuttavia, a una fede «che si riconosce totalmente come dono dell’iniziativa di Dio, è proibito ogni tentativo di “accaparrarsi” la salvezza con le sue proprie forze. (…) Il cristiano deve assumere l’impegno storico, senza però soggiacere alla tentazione di Prometeo; di più: egli deve collaborare a un’opera di salvezza del mondo e dell’uomo, sapendo che quest’opera non può essere portata a termine nell’orizzonte intramondano». La consapevolezza che non c’è un paradiso perduto da ripristinare o una società perfetta da realizzare scioglie il cristiano dal pericolo di sprofondare nella nostalgia del passato o nell’attesa messianica del futuro, mettendolo in condizione di vivere pienamente il presente. Il suo segreto consiste nel «poter immettere, anticipatamente, lo Spirito delle realtà eterne in quelle terrestri: non distruggendole e mandandole in frantumi con una violenza anarchico-profetica, ma annullando, liberando e trasformando, dal di dentro, la legge “alienante”, con la spontaneità dell’amore. (…) Mostrando ogni giorno la forza dell’amore, della metanoia, dell’impegno, egli comincia già da oggi a cambiare il mondo, incanala già oggi sviluppi e tendenze nel loro corso che empiricamente si rivela sempre come una circolazione. (…) E così, nella partecipazione del credente alla provvidenza che abbraccia ogni cosa, provvidenza che noi abbiamo indicato come l’evento Cristo, colui che ama, che intercede per gli altri, che soffre con gli altri, contribuisce in modo nascosto a guidare il corso del mondo. Nella visione cristiana la croce è l’azione più grande, che dà i suoi frutti là dove, diversamente, tutto sarebbe ormai sterile». É in questo modo che l’Eterno fa irruzione nel tempo: in ogni singolo bicchiere d’acqua dato a un assetato c’è tutta la rivelazione di Dio senza però che quel gesto la esaurisca per intero. Così, come un sussurro, comincia già qui il Regno dei cieli. La speranza del cristiano è fondata sulla fiducia che, quando sarà il momento, il Padre lo porterà a compimento.

(finito il 29 dicembre 2020)

Ho parlato di


Hans Urs von Balthasar
La verità è sinfonica
(Jaca Book 1991)

trad di R. Rota Graziosi

138 pp. | 20.000 lire

(ed. or.: Die Wahreit ist symphonisch, 1972)

lunedì 3 gennaio 2022

La persona e il sacro

La prendo alla larga e la farò lunga, ma mi comprenderete. Una stella può infatti illuminare la notte più nera, consentendoci di orientare il nostro incerto cammino, a patto però che se ne stia a una ragionevole distanza di sicurezza, se no è un guaio. Con Simone Weil accade qualcosa di simile: è un faro potente nella bufera del Novecento, ma se ci si avvicina troppo si rischia seriamente di venirne inceneriti all’istante, per la luce incandescente sprigionata dal suo pensiero non meno che per la radicalità estrema delle sue scelte di vita, che con quel pensiero fanno tutt’uno. Nonostante nelle foto che le sono state fatte non appaia mai con l’aspetto arcigno di un padre terribile, credo di poter capire quel che intendeva Platone quando usò quelle parole per descrivere il timore reverenziale suscitatogli da Parmenide. Nel mio piccolo, infatti, provo anch’io in questo momento la mia buona dose di sacro terrore e vedo lampeggiare intorno a me, da ogni parte, segnali d’allarme e inviti a maneggiare la materia con cura, per non sporcare con troppe sciocchezze questo prezioso e fragilissimo dono offerto all’umanità, oltretutto già abbondantemente stiracchiato, da una parte e dall’altra, e con sempre maggior forza man mano che ci si sposta verso gli opposti estremi dell’arco costituzionale (e anche oltre). Per cui, adelante, Pedro, con juicio.

Simone Weil piace ovviamente a sinistra perché in fondo è da lì che arriva e per la sua risoluta decisione di condividere personalmente la condizione degli oppressi, anziché limitarsi solo a stare dalla loro parte, ma piace anche a una certa destra, perché il suo percorso l’ha portata a denunciare i limiti della modernità e ad abbracciare una prospettiva mistica che a qualcuno fa subito pregustare aromi d’incenso medievali. Lei stessa sembra rendersi conto di questa sorta di strabismo interpretativo quando confessa, in uno degli scritti raccolti in questa piccola silloge, di essersi ritrovata a difendere «una maniera di vedere contraria (…) a quella di quasi tutti coloro che mi sono simpatici, e, purtroppo, simile in apparenza a quella di persone per le quali non provo alcuna simpatia». Si tratta di un’osservazione relativa a una questione specifica (il rapporto tra morale e letteratura), ma credo che potrebbe estendersi senza problemi alla sua intera riflessione. Mi pare di scorgere un’analogia con quanto accaduto in Italia a Pasolini: l’essere stati adottati dai reazionari (beninteso, dopo la loro morte) come testimoni al di sopra di ogni sospetto per sostenere l’accusa scagliata contro l’armamentario ideologico del progressismo libertario figlio dell’illuminismo e del materialismo ottocentesco, che avrebbe liberato i popoli dall’oppio religioso solo per renderli dipendenti dalll’eroina del consumismo.

Il saggio che dà il titolo all’opera (scritto tra il 1942 e il 1943, nel pieno della guerra, poco prima della morte dell’autrice) sembra effettivamente offrire delle sponde a una simile lettura. Fatta pure la tara di tutte le strumentalizzazioni, continua a restare di una scottante provocatorietà. La domanda implicita che si aggira in queste pagine è se la moderna cultura democratica abbia a disposizione degli strumenti intellettuali sufficientemente potenti per fronteggiare il nazismo (che, a scanso di equivoci, resta il nemico principale) e la risposta è negativa, perché di fatto – anche se questa considerazione potrebbe disturbarci – ne condivide gli stessi presupposti. Com’è possibile? Tutto ruota intorno al concetto di “diritto”, che da Simone Weil viene in sostanza concepito come codificazione di un impulso all’autoaffermazione da parte di singoli come di gruppi, ovvero come rivendicazione di un proprio “spazio vitale”, territoriale o biologico, da difendere ad oltranza e sottrarre ad ogni ingerenza esterna di soggetti che, poste queste premesse, non potranno essere percepiti se non come potenziali minacce. Non per nulla questa nozione venne elaborata dai Romani allo scopo di dare maggiore efficacia a quello che, nei fatti, era solo uno spregiudicato uso della forza; Hitler questo lo ha capito benissimo, tant’è che ha imperniato sin dall’inizio la sua propaganda sui diritti violati della «nazione proletaria» tedesca, potendo contare sulla cattiva coscienza delle potenze vincitrici a Versailles. Questa intuizione può forse aiutarci a capire meglio in che modo, senza neanche rendercene conto, ci siamo ritrovati avviluppati in uno dei nodi più intricati del nostro tempo, ossia com’è che quella libertà che abbiamo imparato ad apprezzare e che continuiamo a difendere contro gli agghiaccianti meccanismi totalitari possa, però, al tempo stesso costituire il vessillo sotto cui si schierano le legioni di quanti rifiutano tutto ciò che comporta anche solo una minima rinuncia in vista di un bene comune (che sia una tassa o un vaccino) e percepiscono come un’inaccettabile intromissione nel proprio “particulare” ogni richiesta di cooperazione che implichi una minima disponibilità a smuoversi dalle proprie convinzioni di partenza. L’altro, in questo senso, è sempre colui che insidia, appunto, i miei legittimi diritti: non posso più neanche avere la libertà di dirgli “frocio”, se no si offende e io passo per intollerante.

Secondo Simone Weil il peccato originale della società moderna sarebbe quello di aver confuso il diritto con la Giustizia, che è una cosa completamente diversa. Su questo punto - e non solo su questo - sapienza greca e pensiero cristiano per lei s’incontrano: dalla disobbedienza di Antigone alla crocifissione di Cristo, infatti, la Giustizia si manifesta sempre come un «eccesso d’amore» che nessun diritto prescriverebbe, poiché «il diritto non ha nessun legame diretto con l’amore». Il giusto, in altri termini, non è colui che si limita a fare ciò che è tenuto a fare, ma chi si dona senza porre condizioni, ed eventualmente anche contro il proprio stretto interesse, semplicemente “perché è giusto fare così”. La logica dei diritti della persona non sa attribuire alcun significato a un simile sbilanciamento: prescrive magari che il lebbroso non venga discriminato, ma non invita ad abbracciarlo, come fa Francesco d'Assisi. Parafrasando Wittgenstein, potremmo insomma dire che, persino nell’ipotesi che tutti i possibili diritti individuali siano stati tutelati, la questione della Giustizia non è stata ancora neppure sfiorata. Non si tratta però di negare quei diritti, come vorrebbe qualcuno, bensì di non accontentarsi di questo: «sopra le istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre destinate a discernere e ad abolire tutto ciò che, nella vita contemporanea, schiaccia le anime sotto il peso dell’ingiustizia, della menzogna e della bruttezza. Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili».

Per intraprendere questo percorso, occorre anzitutto mettere decisamente a dieta l’ipertrofico io moderno. La Giustizia, «compagna delle divinità dell’altro mondo», rientra infatti nel novero di quelle realtà «di primissimo ordine», come la bellezza, la verità o la perfezione, che «abitano il campo delle cose impersonali e anonime», al tempo stesso aperte a tutti e però non controllabili da nessuno. Non hanno nulla a che vedere con ciò che consideriamo “personale”: quando entra in gioco ciò che è giusto, non conta più il mio successo o la mia realizzazione, così come di fronte alla verità non contano più le mie opinioni. É questa la sfera di ciò che Weil considera “sacro”: «ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello». Tuttavia, benché impersonale, questo nucleo sacro pulsa nell’intimo di ogni cuore umano, manifestandosi come invincibile attesa «che gli si faccia del bene e non del male» e come grido di «dolorosa sorpresa» quando questo non accade. I diseredati della Terra lo avvertono meglio di chiunque altro, ma mancano loro le parole per esprimerlo; colpevolmente, gli intellettuali e i politici che dovrebbero fornirgliele, li riempiono invece di concetti e termini inadeguati, quali appunto “diritto” e “democrazia”, con la conseguenza di trasformare quella che sarebbe una giusta protesta verso un sistema orrendo e disumano in «un acre piagnisteo di rivendicazioni, senza purezza né efficacia», un osceno mercanteggiamento su salari e orari di lavoro sostanzialmente identico all’atto di contrattare col diavolo il prezzo per la propria anima - il tutto a vantaggio dei mostri che, approfittando del campo libero, si fanno largo scimmiottando il linguaggio sacrale per i propri scopi indegni. Simone Weil non ha dubbi sulle pesanti responsabilità storiche dei movimenti di sinistra di inizio Novecento: «sin dall’infanzia – dice – le mie simpatie si sono rivolte verso quei raggruppamenti che si richiamavano agli strati disprezzati della gerarchia sociale, fino a che ho preso coscienza che questi raggruppamenti sono di natura tale da scoraggiare ogni simpatia». É per le loro inadempienze che la guerra scoppiata nel 1940 tra Germania e Francia non è altro che lo scontro tra due opposti errori, quello «agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona», il liberalismo moderno che «ha perso del tutto il senso del sacro», e quello che «attribuisce alla collettività un carattere sacro», cioè l’idolatria nazista del sangue e della razza.

Sembrerebbero non esserci vie d’uscita. E sarebbe davvero così se dovessimo affidarci unicamente alle nostre forze naturali, poiché la natura è segnata da «una necessità forte come la gravità» che «condanna l’uomo al male, gli vieta ogni bene se non strettamente limitato, difficilmente ottenuto, tutto intriso e imbrattato di male». Con un’immagine che le è particolarmente cara e su cui non a caso ritorna più volte, Simone Weil osserva che «la materia pesante è capace di salire contro la pesantezza solo nelle piante, per l’energia del sole che il verde delle foglie ha captato e che opera nella linfa». Ciò vuol dire che «solo la luce che cade in continuazione dal cielo fornisce a un albero l’energia che fa affondare nella terra le potenti radici. In realtà l’albero è radicato in cielo. Solo quello che viene dal cielo è suscettibile d’imprimere realmente un marchio sulla terra». Il «bene autentico», parente stretto della Giustizia, appartiene insomma a una sfera superiore, «sovrannaturale», e solo per questo ha il potere di attecchire sulla terra per rivoltarla e trasformarla davvero. Perciò, «se si vogliono armare efficacemente gli sventurati», non si dovranno architettare rivoluzioni destinate in partenza alla sconfitta in quanto soggiogate alla stessa logica utilitaristica propria del sistema che pretenderebbero di abbattere, ma «occorre metter loro in bocca solo parole la cui sede si trovi in cielo, sopra il cielo, nell’altro mondo. Non bisogna temere che questo sia impossibile. La sventura predispone l’anima a ricevere avidamente, a bere tutto quanto viene da quel luogo. Sono i fornitori, non i consumatori, che mancano per questa specie di prodotti». Eppure, anche se rari, questi «esseri che sono andati oltre un certo limite», questi profeti dell’eccedenza, «non si possono contare; la maggior parte sono nascosti. Il bene puro è mandato dal cielo quaggiù in quantità impercettibile, sia in ogni anima, sia nella società. “Il seme di senape è il più piccolo dei semi”. Proserpina ha mangiato un solo chicco di melagrano. Una perla sepolta in un campo non è visibile. Non si nota il lievito mescolato all'impasto». Quel che i cristiani chiamano il Regno, benché non sia ancora interamente disvelato, è già qui, misteriosamente, all’opera. Stabilire un modo per cui non resti semplicemente profezia affidata agli idioti del villaggio ma diventi forma del vivere comune è il compito più alto della politica.

Nel corso della storia, tuttavia, uomini sicurissimi che Dio fosse con loro hanno perpetrato, in nome di tutto ciò che è sacro, così tante violenze ai danni delle persone da indurci alla prudenza quando ci mettiamo su questa strada. Simone Weil disinnesca le obiezioni e smaschera gli impostori sostenendo che, quando si varca la soglia del sacro, l’unica persona che deve morire è chi compie quel passo, poiché «ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell’impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani». «La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli uomini»: ecco il criterio infallibile per distinguere il grano dalla zizzania. L’impersonale non conduce mai all’indifferenza (che è invece sorella gemella del tornaconto) – tutt’altro – e l’unico sacrificio che prescrive è quello di sé perché l’altro viva. Nella splendida lettera a Bernanos in cui riflette sulla propria partecipazione alla guerra civile spagnola, Weil scrive: «non amo la guerra; ma ciò che mi ha sempre fatto più orrore nella guerra, è la situazione di quelli che si trovano nelle retrovie. Quando ho capito che, malgrado i miei sforzi, non potevo fare a meno di partecipare moralmente a questa guerra, cioè di augurarmi ogni giorno, in ogni momento, la vittoria degli uni, la sconfitta degli altri, mi sono detta che Parigi per me era le retrovie, e ho preso il treno per Barcellona con l'intenzione di arruolarmi». Evitare che chi è sempre stato e continua a starsene comodo nelle retrovie possa essere considerato un “vero patriota” sarebbe già un ottimo proposito per l’anno nuovo.

(finito il 26 dicembre 2020)

Ho parlato di


Simone Weil
La persona e il sacro
(Adelphi 2012)

trad. di M. C. Sala

78 pp. | 7 €

(ed. or.: La Personne et le sacré, 1957)