venerdì 2 marzo 2012

Mitalogie

Frontespizio dell'edizione originale
de L'Italiano
  Da non so quanto tempo noi italiani viviamo appesi al giudizio che sul nostro conto viene emesso dagli altri paesi e conviviamo con maggiore o minore fastidio con l'immagine dogmatizzata nella santa trinità "spaghetti-pizza-mandolino" (per non parlare dell'assai meno pittoresco riferimento alla criminalità: quando a Londra, tradito dal mio pessimo inglese, rivelai al libico che gestiva il fish&chips sotto casa la mia provenienza italiana, questi commentò con un sorriso tra il sarcastico e il sornione "ahhhh... mafia"; un'esperienza analoga capitò a un mio amico ad opera di un agente di frontiera tra Austria e Ungheria in un'altra occasione). Si può capire la curiosità che provai qualche anno fa nel constatare, leggendoli, che i grandi romanzi che avevano fondato il genere gotico - e che io mi immaginavo ambientati in tetre brughiere nordiche costellate di cimiteri di campagna in cui si aggiravano spettri che si confondevano con la nebbia - parlavano in realtà di noi, a cominciare proprio dal testo che tradizionalmente viene considerato il capofila di quella tradizione, Il castello di Otranto (Horace Walpole, 1765). Il quale, va da sé, si svolgeva nella città pugliese in un'epoca imprecisata al tempo delle Crociate («Gli episodi principali riflettono le credenze caratteristiche delle età più buie del cristianesimo...», si legge nella prefazione). Un altro classico del genere porta impresso il nostro segno sin dalla copertina, giacché si intitola L'Italiano o Il Confessionale dei Penitenti Neri (Ann Radcliffe, 1797), e narra vicende dislocate tra Napoli e altri luoghi del nostro Mezzogiorno non più proiettate sullo sfondo medievale, ma pressoché contemporanee, di una contemporaneità però ancora profondamente immersa, agli occhi dell'autrice, in un passato mai realmente superato. Analoghe caratteristiche si riscontrano anche ne Il Monaco (Matthew Lewis, 1796), che pure è ambientato in terra di Spagna. Immagino che la ragione di questo trend sia da ricercarsi nell'equiparazione tra "gotico" e "medievale" e nella facilità con cui l'opinione pubblica dell'Europa settentrionale guardava all'Europa mediterranea e cattolica come un vero e proprio residuo di quei "Dark Ages" da cui la modernità si era in qualche modo trascinata fuori: non per nulla queste storie parlano immancabilmente di segregazioni conventuali, di faide familiari, di possessioni diaboliche, di torture inquisitoriali, secondo ciò che il gusto del tempo immaginava essere stato il Medioevo.

  Si tratta ovviamente di un mito, elaborato a partire da dati più o meno storicamente attendibili ma destinato poi a godere una vita propria nell'immaginazione pubblica (correlato fantasioso dell'opinione pubblica). Questo non fu tuttavia l'unico mito d'Italia costruito in età moderna. I testi sopraccitati mi sono ritornati alla mente, qualche giorno fa, quando mi sono imbattuto in un brano di Jean Bodin, il grande giurista francese (1529-1596) che nel 1576 pubblicò Les Six Livres de la République, un testo-chiave per la legittimazione dello stato moderno. Quest'uomo così impegnato a riflettere sulle grandi mutazioni politiche in atto nel cosiddetto "secolo di ferro" non poteva non dedicare un'attenzione particolare alle vicende che travagliavano la sua Francia e che assunsero la forma, da noi più volte richiamata in questo blog, delle guerre di religione. Bodin non si limitò a trattare la questione in punta di diritto, ma si profuse in una profondissima indagine teorica durata molti anni con cui cercò di andare alla radice del problema e i cui risultati confluirono nel Colloquium heptaplomeres de rerum sublimium arcanis abditis (potremmo tradurre con "Colloquio a sette voci intorno ai reconditi arcani delle realtà sublimi", e pazienza se così dicendo l'oggetto rischia di restare un po' vago...). Come si evince dal titolo, trattasi di un dialogo tra sette personaggi, in rappresentanza di sette orientamenti diversi nei confronti della religione, nel rispetto di un genere letterario che vanta un'antica tradizione: abbiamo così il cattolico di ampie vedute, il luterano, il sostenitore della religione naturale, il calvinista, l'ebreo, il musulmano e un personaggio inedito che interpreta la parte dello scettico (segno che lo scetticismo stava cominciando davvero a entrare in circolo nella cultura europea). Sull'effettiva paternità di quest'opera, che fu stampata solo alla metà dell'800, sono emersi talora pareri contrastanti, che qui non interessano. Mi interessa invece l'esordio del dialogo, che contiene un elogio appassionato di una città italiana, Venezia, dove appunto si ritrovano tutti i partecipanti alla discussione, provenienti da Roma, Costantinopoli, Augusta, Siviglia, Anversa e Parigi.

Antica mappa di Venezia
(...) avendo costeggiato la riviera adriatica dopo una difficile traversata, approdammo a Venezia, porto comune di quasi tutte le genti o piuttosto del mondo intero, poiché non solo i Veneziani si rallegrano nel vedere e nell'ospitare gli stranieri, ma in quella città puoi anche vivere con grandissima libertà; e mentre le guerre civili o la paura dei tiranni o le dure esazioni delle tasse minacciano altre città e altre regioni, questa sola quasi mi sembra libera e immune da tutti questi generi di servitù. Perciò accade che vi giungano da ogni dove quanti decisero di trascorrere una vita con grandissima pace e libertà, dedicandosi al commercio, all'industria o all'ozio degno degli uomini liberi.

  A Venezia, per la verità, non molti anni dopo, sarebbe stato arrestato Giordano Bruno, ma è estremamente interessante constatare che per un dotto francese del '500 Venezia era l'unico luogo in cui si sarebbe potuta ambientare con una minima credibilità una discussione a tutto campo sui fondamenti della religione. La Serenessima rappresentava allora e rappresenterà ancora a lungo il simbolo dello stato repubblicano, quasi un residuo dell'antica libertà civile romana rimasto miracolosamente vivo dopo tantissimi secoli. Parlando del suo amico Etienne de la Boétie, uomo animato da un profondo amore per la libertà, Montaigne in uno dei suoi Saggi (I, 28) si dice certo che avrebbe preferito con ogni probabilità nascere a Venezia piuttosto che a Sarlac - e di esempi se ne potrebbero fare molti altri.

  É questo, evidentemente, un altro mito, frutto anch'esso di un impasto di dati storici e suggestioni fantastiche, non diversamente da quello di cui i romanzi gotici si nutrono e che contribuiscono a diffondere (il '500 italiano, per dirne una, è anche quello del "Franza o Spagna, purché se magna" e della cura del "particulare" di cui parla Guicciardini, che con la libertà sembrano avere poco a che fare). Ma per noi che viviamo nell'era dello spread dovrebbe essere più facile capire, a differenza che in altri tempi, quanto poco eterei siano i miti e quante ricadute concrete, anche drammatiche, essi possono avere nella storia effettuale dei paesi e delle persone. 

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