Fra gli innumerevoli vezzi che fanno di me il lettore che sono, c’è anche quello di selezionare i libri da portarmi in viaggio sulla base di una più o meno appropriata affinità ambientale con i luoghi che andrò a visitare. E quantunque Loano non sia Ibiza, la tonalità della luce sulla marina o il suo luccichio sulla scorza dei limoni ricreano comunque pure qui uno sfondo sufficientemente adeguato per facilitare l’immersione in una qualsiasi variante di letteratura meridiana, compresa quella noir di cui Jean-Claude Izzo è considerato a buon diritto un maestro – per cui, per una scappata di due giorni in riviera, un libro come questo calza a pennello, anche per la sua snellezza. Semmai, gli stilemi propri del genere – l’annodare, cioè, intorno al filo della trama un variopinto repertorio di riferimenti gastronomici, musicali, poetici, paesaggistici, topografici che restituiscono una fascinosa idea di mondo, con tutta la sua conturbante bellezza, fatta, in questo caso di pastis, aioli, calanchi, versi provenzali, mistral – portano a chiederti come mai, tu che hai girato in lungo e in largo Provenza e Occitania non ti sei mai deciso a fermarti una buona volta a Marsiglia, la vera protagonista del romanzo («La storia che leggerete è totalmente immaginaria. (…) Solo la città è veramente reale. Marsiglia. E tutti coloro che ci abitano. Con quella passione è solo loro. Questa storia è la loro storia» - che è un modo elegante per trasformare un’avvertenza a scopo legale in un’autentica dichiarazione di poetica).
Attenzione, però. Anche se non si sfugge del tutto all’effetto Lonely Planet («scendere rue d’Aubagne, a qualsiasi ora del giorno, è come viaggiare. Un susseguirsi di negozi, ristoranti, come tanti scali. Italia, Grecia, Turchia, Libano, Madagascar, La Réunion, Thailandia, Vietnam, Africa, Marocco, Tunisia, Algeria»), la Marsiglia raccontata in queste pagine non coincide con la rassicurante cartolina venduta dalle agenzie di viaggi. A proposito di una mostra dello scultore locale César allestita alla Vieille Charité – edificio un tempo adibito a ospizio per poveri e appestati, riciclato poi come campo di raccolta durante l’occupazione tedesca – Izzo osserva, appunto, che «i turisti arrivavano a frotte. Interi pullman. Italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi. E giapponesi, certo. Tanta banalità e cattivo gusto in un luogo così carico di storie dolorose, mi sembra il simbolo di questa fine secolo». Esattamente quello che accade ogni qual volta ci si appropria di espressioni come “rinascimento” per avviare massicce ristrutturazioni urbanistiche che danno lustro ai centri storici e spazzano via tutto l’indesiderabile sotto il tappeto delle periferie dormitorio, attraverso una strategia di silenziosa militarizzazione degli spazi attuata in nome della sicurezza («il metrò e le stazioni brulicavano di sbirri. La Francia repubblicana aveva deciso di dare una bella ripulita. Immigrazione zero. Il nuovo sogno francese»). Come se un’operazione di maquillage potesse davvero sopprimere il carattere di una persona, i suoi vissuti.
No, «Marsiglia non è una città per turisti. Non c’è niente da vedere. La sua bellezza non si fotografa. Si condivide. Qui, bisogna schierarsi. Appassionarsi. Essere per, essere contro. Essere violentemente. Solo allora, ciò che c’è da vedere si lascia vedere. E allora è troppo tardi, si è già in pieno dramma. Un dramma antico dove l’eroe è la morte». E difatti morto, prima ancora che il libro cominci, è uno dei suoi protagonisti – Manu; e morto, prima che finisca il prologo, è anche il secondo protagonista – Ugo – tornato a Marsiglia proprio con l’intento di vendicare Manu; ne resta vivo solo un terzo, Fabio, che di Ugo e Manu era stato intimo amico, ai tempi di una giovinezza avventurosa e tutto sommato felice, piena di letture, dischi, partite alla belotte, sogni, cielo e tanto mare, quando amavano tutti e tre la stessa donna, prima che le cose andassero a scatafascio e le loro strade si dividessero. Tocca appunto a Fabio, che dei tre è il reduce, l’ultimo, ossia «colui che ereditava tutti i ricordi», con il loro carico pesante e glorioso, tentare di capire cosa sia effettivamente successo ai suoi vecchi compagni e, se possibile, provare a riparare qualche torto. Così facendo, lui che è un poliziotto anomalo – e anomalo soprattutto a Marsiglia, dove chi indossa una divisa gioca sin troppo facilmente a fare il cow-boy e vede indiani ovunque, mentre lui sembra più un mediatore culturale che un agente vero e proprio - mette le dita in un ingranaggio complicatissimo e ne vien fuori, appunto, un “casino totale”, con sparatorie, agguati, doppiogiochisti, droga e ovviamente clan contrapposti di camorristi, arabi e marsigliesi (in originale il titolo suona Total Khéops, presentato come un brano di musica rap, quando il rap si faceva ancora nei ghetti ed era sul serio controcultura: «a Marsiglia, si chiacchiera. Il rap è solo questo. Chiacchiere, niente di più. I cugini della Giamaica avevano trovato qui dei fratelli. E chiacchieravano come al bar. Di Parigi, dello Stato centralista, delle periferie scalcinate, degli autobus notturni. La vita, i problemi. Il mondo visto da Marsiglia»).
Il tono disincantato è un tributo al genere, d’accordo, così come il solitario cinismo del protagonista, la sua malinconia di fondo, il racconto in prima persona, con uno stile smozzicato e asciutto, mutuato dal parlato. Ma in un personaggio così visceralmente intriso di marsigliesità, quasi avatar della città stessa, l’amarezza per le promesse incompiute della giovinezza, anziché nutrire meri rancori individualistici, assume immediatamente una prospettiva politica, e il racconto di gangster diventa in tal modo veicolo di una precisa denuncia. Il punto è che Marsiglia, porta aperta sul mondo intero, è veramente «un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”». Non per nulla, sia Manu che Ugo che Fabio sono tutti e tre figli di immigrati, esuli a suo tempo dalla Spagna franchista e dall’Italia fascista, gente per cui la visione del sinistro profilo del chateau d’If deve aver suscitato paradossalmente lo stesso effetto galvanizzante prodotto dall’apparizione della Statua della Libertà a quanti tentarono la sorte oltreoceano. E invece, col tempo, a forza di gettare benzina sul fuoco del risentimento, «Marsiglia è stata contagiata dalla coglionaggine parigina. Sogna di essere capitale. Capitale del Sud. Dimenticando che quel che la rendeva una capitale era il porto. Incrocio di tutte le mescolanze umane».
Adesso, dove adesso è la metà degli anni ‘90, quando Izzo scrive, il microcosmo marsigliese è invece ormai nettamente diviso in continenti fra loro non più comunicanti. Da una parte crescono i «figli di immigrati, senza lavoro, senza futuro, senza speranza. Bastava che accendessero la televisione e ascoltassero il telegiornale, per sapere che il loro padre era stato inculato e che erano pronti a inculare anche loro», giovani a cui i bancari ridono in faccia quando, col loro primo stipendio, chiedono un prestito per comprarsi un macchina. Dall’altra si barricano i figli dei residenti (spesso semplicemente immigrati di più antica data), mosci, assuefatti, ma carichi di diffidenza verso gli ultimi arrivati: «nei loro occhi, sfuggenti, nessun lampo di rivolta. Amari dalla nascita. Avrebbero nutrito odio solo per i più poveri. E per chi avrebbe tolto loro il pane. Arabi, neri, ebrei, gialli. Mai per i ricchi. Si capiva già come sarebbero diventati. Poca cosa. Nel migliore dei casi, autisti di taxi, come il padre. E la ragazza, shampista. O commessa al Prisunic. Dei francesi medi. Cittadini della paura». Al di sopra di tutti prosperano senza vergogna quanti traggono vantaggio da questa guerra tra poveracci che non si stancano di fomentare. «Ero frastornato. L’odio, la violenza. I malavitosi, gli sbirri, i politici. E la miseria come sfondo. La disoccupazione, il razzismo. Eravamo tutti come insetti intrappolati nella ragnatela. Ci si dimenava, ma il ragno avrebbe finito per divorarci». Se la Le Pen arriverà davvero al governo fra meno di un mese, leggendo questo libro si può capire da dove è partita, trent’anni fa.
(finito il 2 marzo 2022)
Ho parlato di
Casino totale
(Edizioni e/o, 2021)
trad. di B. Ferri
230 pp. | 12,90 €
(ed. or.: Total Khéops, 1995)