Per quanto sia assolutissimamente convinto che se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo, intromettermi nei pensieri del diciannovenne che ero e, con la testa che ho oggi, suggerirgli quale direzione dare alla sua vita, per settanta volte sette risceglierei comunque ancora e sempre di iscrivermi a filosofia, non escludo che, qualora invece si producesse un fremito d’esitazione, un momentaneo tentennamento, potrei per un attimo indurre nel me stesso medesimo di allora il sospetto che dopotutto gli sarebbe congeniale anche diventare un astrobiologo, e in questo modo salvaguardare il discutibile vizio di scegliere in ogni realtà parallela mestieri di non immediata comprensione. A differenza dell’esobiologia - che riflette solo sull’abitabilità di altri pianeti e potrebbe perciò curiosamente rivelarsi una disciplina senza oggetto - e della xenobiologia - che invece gli alieni prova a inventarseli per conto proprio, ipotizzando sistemi vitali basati su molecole e basi diverse da quelle a noi note - l’astrobiologia si pone l’obiettivo più generale di studiare l’origine della vita in quanto proprietà capace di manifestarsi all’interno del cosmo, provando a capire se le caratteristiche che l’hanno resa possibile sulla Terra siano rare o diffuse e, prima ancora, cercando di individuare che cosa si debba davvero intendere quando parliamo di “vita” (problema apparentemente banale, ma per cui vale un po’ quello che Agostino diceva del tempo: so cos’è se non me lo chiedi, ma appena mi chiedi di spiegartelo non ci capisco più niente).
Come vedete, dunque, alla filosofia si finisce sempre in qualche modo per tornare – e non potrebbe essere diversamente -, ma la cosa intrigante è che qui le sue domande vengono shackerate in modo originale con un altro e variegato repertorio di temi verso cui provo più o meno da sempre un irresistibile attrazione, e in misura crescente man mano che maturo – che sia l’esplorazione pura e semplice dello spazio o la sperimentazione delle specie sulla Terra nei lunghissimi milioni di anni che precedono la nostra storia, i misteri delle convergenze evolutive o il processo di sviluppo di stelle e sistemi planetari – ovvero tutti modi a prima vista tangenziali e curiosi per riflettere in modo più approfondito, ribaltando continuamente le prospettive, su chi diavolo siamo, dal momento che è proprio nei luoghi più marginali che le belle teorie si perdono per strada, costrette a misurarsi con le aporie di una realtà sempre più strana di quanto possiamo immaginarci.
Per farsene meglio un’idea, ecco un breve e assolutamente non esaustivo elenco di questioni che una brevissima introduzione come questa si propone di mettere ordinatamente in fila. Posto che noi conosciamo un unico modello di vita – il nostro – quali delle sue proprietà possono essere considerate accidentali e quali invece sono realmente necessarie per parlare di “vita”? Andando a caccia di specie aliene, siamo sicuri di non commettere un errore metodologico, facendo di noi la norma, quando potremmo essere, se non l’eccezione, una semplice variante? Anche se il carbonio pare l’unico elemento in grado di garantire un genoma di complessità comparabile alla vita terrestre, una qualche forma di vita potrebbe comunque emergere a partire da altre basi chimiche? (c’è chi ha ipotizzato il silicio, che però non è solubile e non subisce reazioni di scambio e modifica: la vita, invece, è un’interazione elastica poco adatta alle eccessive rigidità) E ancora: le condizioni che hanno permesso il prodursi di vita sulla Terra sono state il frutto di un’imponderabile contingenza galattica oppure il risultato di fenomeni ripetibili e frequenti? E se anche il prodursi della vita in quanto tale non fosse poi una rarità, quante sono invece le possibilità che essa abbia il tempo di rendersi consapevole e intelligente, senza finire prematuramente travolta da una qualche indicibile catastrofe cosmica?
Trovo quanto mai affascinante il continuo rimpallarsi di analisi sperimentale e fantasia speculativa quale emerge dalle pagine di questo breviario che ci conduce continuamente dall’infinitamente piccolo (gli acidi nucleici e il modo con cui intorno a loro si è andata simbioticamente strutturando la prima cellula) all’infinitamente grande (le immense supernove che, esplodendo, sparpagliano metalli in tutto l’universo: per inciso, è proprio dal fatto che sulla Terra troviamo filoni di ferro e di oro che possiamo inferire come il Sole sia una stella di seconda generazione). Chissà, forse mentre siamo qui a discutere, colonie di microbi analoghi a quelli terrestri si stanno ripetutamente riproducendo nell’oceano ghiacciato di Encelado, la più grande luna di Saturno, geologicamente attiva, i cui chilometrici pennacchi di gas sono stati studiati dalla sonda Cassini una quindicina di anni fa, oppure qualcosa di decisamente più strano e per noi ancora indecifrabile potrebbe popolare i laghi di idrocarburi presenti su un’altra luna di Saturno, Titano, dove il metano potrebbe aver svolto la funzione che da noi è stata svolta dall’acqua. Ragionando su tutto questo, non si prova forse una gioia impagabile, quando si prende atto che l’unione di rigore e divertimento alimenta visioni assai più emozionanti delle più fantasmagoriche teorie che si potranno mai elaborare sui rettiliani e tutti i loro compari?
(finito il 3 febbraio 2022)
Ho parlato di
Astrobiology. A very short introduction
(Oxford University Press 2014)
160 pp. | 12,99 $