Il tempo di avvento in procinto di chiudersi si era aperto, qualche settimana fa, con quella straordinaria visione di Isaia che costituisce uno dei vertici dell’intera poesia biblica: «alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e (…) ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘venite, saliamo al monte del Signore’. (…) Egli sarà giudice fra le genti. (…) Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo». Non si direbbe, ma almeno in parte, questo annuncio si è già compiuto. I giorni non sono ancora finiti, le guerre dilagano, eppure «all’angolo della via, nella mia città o in qualsiasi metropoli (…) sfila l’intero pianeta». Così scriveva il teologo Jacques Audinet nelle primissime righe di questo saggio datato 1999, pubblicato cioè prima di Seattle, delle Torri Gemelle e di tutto quello che ne è seguito, e che proprio per questo può essere letto anch’esso, retrospettivamente, come una moderna profezia, non meno audace di quella isaiana, attraverso la quale guardare con occhi diversi l’epoca nella quale ci siamo per davvero resi conto di vivere forse solo oggi: il tempo del meticciato, appunto.
Poiché sento già il tintinnar di sciabole dei sovranisti, li rincuoro. Nessuno qui ha intenzione di offrire una sponda religiosa al globalismo finanziario, né di esaltare l’astratta omologazione imposta dai mercati. Tutt’altro. Poiché ogni uomo è radicato in una cultura, la differenza è a sua volta costitutivamente radicata nell’esperienza umana, che matura sempre in un ambiente definito e mai in spazi neutri: l’alba di Nairobi, per dire, non è quella di New York, e viceversa. Il problema è che la civiltà occidentale, che ha improntato con i suoi valori il mondo moderno, non ha saputo pensare questa differenza se non in termini di disuaguaglianza, trasponendo così sul piano culturale il modello della reductio ad unum ereditato da una certa forma di teologia e l’impianto gerarchico che le era connesso. Ma se «l’umanità è costituita da un arcobaleno di situazioni e di tradizioni, altrettanto vario di quello dei colori», sì che non si può parlare, se non in astratto, di un “uomo naturale”, allora «riconoscere l’altro nella sua cultura, dunque diverso, significa nello stesso tempo riconoscerlo come umano». É perché vedo l’altro dissimile che posso riconoscerlo come mio simile: è questo paradosso del riconoscimento ciò che può aiutarci ad uscire dalle secche di un dibattito asfittico, dominato dalla logica del “prima” questo o “prima” quello (davvero, come si può conciliare l’idea, di per sé nobile, di un’Europa “dei popoli” con la convinzione di un “primato” che una nazione dovrebbe avere sulle altre?).
Audinet, però, non si accontenta di sposare una semplice prospettiva “multiculturalista”, secondo cui le diverse popolazioni possono coesistere, sì, senza scannarsi, ma solo perché ciascuna protetta nel recinto della propria riserva. La storia non funziona così. Noi tendiamo, infatti, a fissare le culture come se fossero nate per partenogenesi o come se fossero sempre state identiche a se stesse. La verità, invece, è che siamo tutti meticci, perché da sempre gli uomini si incontrano, si uccidono e si mescolano fra loro, mescolando anche i loro usi, le loro abitudini e le loro idee: ciò è particolarmente evidente nei più recenti fenomeni di colonizzazione, come in Messico e in America Latina, ma la dinamica è la medesima sin dai tempi dei primi contatti tra Sapiens e Neanderthal. L’Europa che oggi vuole erigere nuove frontiere è sempre stata terra meticcia e l’epoca più meticcia di tutte è proprio quel Medioevo venerato dagli amanti della tradizione come modello insuperato di ordine e staticità: è meticcio il franco Clodoveo che si fa battezzare, così come prima di lui il civis romanus Paolo che rielabora in greco una teologia imparata in ebraico. Ciò che chiamiamo “meticcio” non è altro che il culturale nella sua fase incipiente e ancora indefinita, come la mutazione che dà avvio a un processo di speciazione, attraverso cui la differenza non è eliminata, ma si modifica e, semmai, si moltiplica – basti vedere cos’è successo al latino, disseminatosi nelle diverse lingue romanze (del resto ogni lingua, sommo feticcio dei tradizionalisti, resta viva solo finché cambia). E sebbene sia inizialmente osteggiato, in quanto diverso, il nuovo è precisamente ciò che rende dinamica la vita dei popoli, impedendo che essa si trasformi in una mera riproduzione dell’esistente. Quando, invece, per contrastare l’omologazione globale, mi rifugio nell’omologazione locale, resto prigioniero della medesima logica che dichiaro di avversare. Le culture nazionali non potrebbero neppure esistere senza questi continui scarti e rimescolamenti.
Il meticciato appare dunque «capace di mettere in discussione la coincidenza delle varie identità»: questo perché in ogni vita c’è sempre un’eccedenza che non può «fluire nello stampo collettivo proposto», che sia mondiale, regionale o persino familiare. Non è necessario essere filosofi per capirlo: ogni nuovo parto ce lo rivela. Venire al mondo, per fortuna, non significa infatti ripetere l’identico, prolungare cioè una serie di prodotti indistinguibili l’uno dall’altro, bensì portare alla luce un inedito modo di essere umano. Nascere dice una somiglianza e al tempo stesso una diversità, indica un’origine e istituisce una distanza, che via via si trasmette anche alle ulteriori fasi di sviluppo della vita: «l’essere umano è mescolanza, incontro di elementi diversi continuamente mescolati, del corpo e dei geni, del cuore e dello spirito, delle società e delle civilizzazioni». Ne consegue che, lungi dall’essere l’eccezione “bastarda”, «il meticciato rappresenta una delle dimensioni fondamentali, in quanto fondante, dell’avventura umana». Siamo tutti mutazioni in mutamento, che si arricchiscono attraverso incontri e percorsi imprevedibili, in una continua ridefinizione di noi stessi – e lo siamo sempre e comunque, anche nella più chiusa delle comunità endogamiche. «É impossibile determinare ciò che porta una nascita umana. La sola cosa che si può dire è che la novità, prima o poi, metterà in discussione ciò che si riteneva definito». Colui che chiamiamo “meticcio” è semplicemente colui che, portando sulla sua pelle segni evidenti di questa condizione, deve affrontare in modo più evidente ciò che negli altri resta talvolta mascherato, ma non è meno presente - e cioè la frattura di un’identità ferita e da ricostruire attraverso un processo di personalizzazione che è anche, al contempo, di socializzazione e di inculturazione.
Pensare di poter bloccare questo flusso è illusorio, perché significherebbe bloccare la vita stessa. É la sua accelerazione, oggi, che ci spaventa – e sotto sotto l’idea di non poterlo più controllare dall’alto di una posizione di potere. Ciò che fa di quest’epoca il tempo del meticciato non è, dunque, il meticciato in sé, che c’è sempre stato, ma il fatto che ci poniamo la domanda se si possa evitare che questo fenomeno si svolga nel segno di una violenza inflitta o subita. Questo è ciò che è accaduto finora, per lo più. Tuttavia, le nascite meticce possono anche evocare «l’esperienza di una violenza trasformata» e racchiudono la promessa di una vita che di fatto va oltre il limite apparentemente insormontabile dell’incomunicabilità: meticciato può significare allora sentirsi impegnati in un’avventura comune in cui «le differenze non scompaiono. Si trasformano. Generano nuove differenze». Quello che per Audinet sembrava uno scenario non scontato, ma a portata di mano, alla fine degli anni ‘90, per noi può apparire oggi più difficile da immaginare – e tuttavia resta un obiettivo imprescindibile: «tra il politico e il culturale si avvia ormai un dialogo il cui esito non è determinato in partenza dalla violenza del potere. Nel tempo lungo del meticciato le frontiere, anche le più rigide sul suolo, si rivelano punti di contatto, punti di passaggio, cioè luoghi di mescolanza. Non significano più tanto le separazioni tra gli umani quanto il loro luogo d’incontro», come avviene nel pentolone in cui bolle lo stufato e i sapori interagiscono e si scambiano, e come avviene a un Dio che sceglie di contaminarsi con l'umano per scardinare la nozione stessa di contaminazione come sacrilegio. Quando capiremo tutto questo comprenderemo meglio cosa significa che nelle vene del Messia atteso da Israele scorra anche sangue pagano di Moab.
(finito il 10 luglio 2019)
Ho parlato di
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Jacques Audinet
Il tempo del meticciato
(Queriniana, 2001)
(Giornale di Teologia 281)
trad. di F. Savoldi
224 pp. | 14 €
(ed. or.: Le temps du métissage, 1999)