lunedì 26 agosto 2019

Il nome della rosa

Non so se vi sia piaciuta e non posso neanche darne un giudizio complessivo, dato che mi sono arenato alla quarta o quinta puntata, ma la serie tv con John Turturro trasmessa questa primavera su Rai 1 almeno un merito per me ce l’ha avuto: mi ha fatto venire voglia di rileggermi il libro. Dovrebbe essere stata la terza volta, se non mi sono perso qualche passaggio. Tutte e tre, va detto, sempre nella stessa edizione, primo volume a prezzo di lancio della collana – manco a dirsi - “La Grande Biblioteca” Fabbri Editori, a cui sono affezionatissimo perché prodotto tipicamente degno di un topo da edicole qual ero (soprattutto un tempo) e anche perché uno dei primi libri contemporanei che mi sono comprato con le quattro lire racimolate tra onomastici e compleanni. Il colophon indica gennaio ‘94: all’epoca facevo le medie, non sapevo davvero niente del mondo e abboccavo abbastanza facilmente ai superlativi sempre generosamente concessi ai venerati maestri. Il nome della rosa era un titolo di cui avevo sentito parlare con reverenza e nella mia testa mi ero fatto l’idea che fosse un monumento della letteratura universale al pari – che so? - della Divina Commedia, per cui si può comprendere il viscerarle orgoglio di averne finalmente una copia tutta per me. 

Cosa volete che capissi della prefazione, in cui si dottoreggiava (con ironia, ma che ne sapevo?) di Mabillon, Gilson, Vallet e dell’ineffabile Milo Temesvar? Come potevo sapere che Jorge da Burgos era la controfigura di Jorge Luis Borges? Come potevo immaginarmi che ci fossero più livelli di lettura? Però che cosa curiosa che un libro che mi aspettavo serissimo si aprisse invece con la mappa dell’abbazia, esattamente come accadeva nei librogame di cui andavo pazzo, ma che – come diceva il nome – erano fatti, appunto, per puro divertimento. E che spasso la pianta della biblioteca, con quella specie di crucipuzzle che consentiva di individuare l’ordinamento dei volumi sugli scaffali. E che tipo bizzarro quel frate che sembrava in tutto e per tutto Sherlock Holmes in uno dei suoi mirabolanti travestimenti (il nome non mi diceva nulla, ma l’ammiccamento alla provenienza potevo coglierlo perché al 221-B di Baker Street ero già di casa). E poi l’inusuale ambientazione storica, tutto quel parlare di libri, il titolo indecifrabile, l’ingegnoso meccanismo che sta alla base dei delitti e che, a differenza di tanti altri romanzi gialli letti prima e dopo, non mi ha mai fatto dimenticare chi è, qui, l’assassino: insomma, mi resi subito conto che si trattava di un libro diverso dagli altri, di un libro bello proprio perché “strano”, esattamente come il codice miscellaneo che sta al centro dell’intera vicenda, anche se allora non avrei saputo dire esattamente il perché. 

Sperando di capirlo, tentai una prima rilettura più o meno a ridosso del corso di filosofia medievale, tenuto peraltro da un docente che, per aspetto e per affinità tematica, ricordava a tutti gli studenti – e, devo dire, soprattutto alle studentesse – il Guglielmo da Baskerville impersonato da Sean Connery. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni e il maggior bagaglio di conoscenze che in teoria a quel punto avrei dovuto possedere, di quella ripresa non ho pressoché ricordi. Questa nuova immersione, invece che effetto mi ha fatto? La prima impressione resta quella di un marchingegno perfetto che sfrutta le regole del genere poliziesco – al modo di Fruttero & Lucentini e ancor più di Sciascia – come strumento interpretativo per orientarsi nella torbida vita civile italiana. É stato già ampiamente scritto come dietro agli inquisitori e al guazzabuglio di eretici di cui il libro abbonda si possono scorgere figure e tendenze politiche tipiche degli anni di piombo, con le loro convergenze parallele e i compromessi più o meno storici, i cattivi maestri e i faccendieri, i grandi vecchi e i sempliciotti che restano col cerino in mano, i golpisti e i compagni che sbagliano. «É molto difficile per un nordico farsi idee chiare sulle vicende religiose e politiche d’Italia» (figuriamoci in questi giorni!): tanto vale, allora, provare a farlo parlando di fraticelli e dolciniani. Naturalmente è un gioco, con tutte le forzature del caso (per cui trovo stucchevoli le obiezioni di chi punta il dito contro le eventuali sbavature storiche). Ed è sicuramente anche un’operazione editorialmente furbetta. Ma che male c’è, se è consapevole, se c’è scritto da tutte le parti che è un libro sui libri fatto di libri? In quegli stessi anni Battiato rispose, a chi si era un po’ sfracassato le palle di tutto quello Stockhausen, “insomma, volete un disco di canzonette?” - e tirò fuori dal cilindro L’era del cinghiale bianco e La voce del padrone. Chapeau. Ci si può divertire anche senza essere sguaiati. 

Il riso è appunto uno dei fili conduttori di un racconto ben architettato che invita a diffidare dei grandi racconti ben architettati e soprattutto degli affabulatori che li diffondono,. «Temi, Adso, i profeti e coloro disposti a morire per la verità, ché di solito fan morire moltissimi con loro, spesso prima di loro, talvolta al posto loro». In tempi di rigurgitanti neofanatismi, resta ancora aperta la sfida tra Jorge e Guglielmo, tra chi pensa, cioè, che la verità gli appartenga in modo definitivo, possa solo essere custodita e vada difesa contro tutto e contro tutti, costi quel che costi – e chi a una verità aspira, ma la considera inafferrabile e sfuggente all’intelletto umano, multiforme come i linguaggi possibili in cui può essere espressa e non può accettare perciò che diventi criterio assoluto di giudizio sulla base del quale versare il sangue di altri uomini. Finisce sempre male, quando il fuoco e il ferro rovente di Bernardo Gui si oppone al fuoco e al ferro rovente di Dolcino. Meglio una più pacata lotta di opposte arguzie senza troppe pretese di salvezza. «Forse il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci dalla passione insana per la verità». L’ironia contro il terrore, dunque – e questo a Eco non è mai stato perdonato dai torvi apocalittici nostrani, che vi hanno sempre visto puzza di relativismo. Effettivamente Guglielmo «rideva solo quando diceva cose serie, e si manteneva serissimo quando presumibilmente celiava». Lo si presenta come semplice understatement british, ma è un tratto tipicamente socratico, anche se il lessico sembra più quello di Rorty. 

Eco, però, si spinge forse ancora più in là. Per gran parte del romanzo, si può avere la sensazione che, pur in mancanza di un solido fondamento, sia possibile quantomeno ricostruire una parvenza di verità, una piccola trama di certezze limitate ma attendibili fra gli eventi contingenti del mondo, insomma che una flebile luce razionale possa comunque illuminare i nostri passi, che l’intellettuale possa aiutarci a scoprire dei segni là dove noi percepiamo solo impressioni isolate. Se non sperasse di trovarle un colpevole, del resto, l’investigatore non accetterebbe neanche l’incarico che gli viene affidato. «In un momento in cui – dice Guglielmo – come filosofo, dubito che il mondo abbia un ordine, mi consola scoprire, se non un ordine, almeno una serie di connessioni in piccole porzioni degli affari del mondo». Ma il corso delle cose è così caotico, il mondo così bizzarro, che puoi sforzare finché vuoi tutta la tua intelligenza nel cercare tracce di un disegno complessivo, ma quel disegno si sfalda di continuo davanti ai tuoi occhi, perché un disegno in realtà non c’è, se non quello che, surrettiziamente, qualcuno cerca di imporre perché, a sua volta, lo ha letto in un libro. «Non v’era verità (…) e io l’ho scoperta per sbaglio»: ecco la morale, in forma di paradosso. Se volete, più filosoficamente: «perché vi sia specchio del mondo occorre che il mondo abbia una forma» - e su questo restano molti dubbi. E così alla fine la ricerca non approda a nulla, anzi produce indirettamente la distruzione di ciò che stava cercando, degli innocenti finiscono comunque sul rogo, papi e imperatori continueranno a muovere le loro pedine come se niente fosse, e anche per questa volta i sigilli restano ben chiusi. E noi nomina nuda tenemus: «ma allora posso sempre e solo parlare di qualcosa che mi parla di qualcosa d’altro e via di seguito, ma il qualcosa finale, quello vero, non c’è mai?». 

A suo modo, il libro (uscito nel 1980) preconizza il riflusso. Di fronte alla possibilità di andare ad Avignone ad esporre le sue tesi, Guglielmo risponde “no, grazie”. Il tempo della militanza si è chiuso: oggi parliamo – appunto – di libri e tutt’al più facciamo semiotica. Accade però che nel frattempo qualcosa cambia: giullari e saltimbanchi prendono il potere e ci convincono che, se tutto è finzione, si possono governare i paesi con le barzellette. Se dovesse prevalere l’arte dell’irrisione, paventava Jorge, «essa chiamerebbe a raccolta le forze oscure della materia corporale, quelle che si affermano nel peto e nel rutto, e il rutto e il peto si arrogherebbero il diritto che è solo dello spirito, di spirare dove vuole!”». É questo il rovello filosofico del post-postmodernismo, per cui anche Eco, da vecchio, è tornato un po’ moralista. Il mondo vero sarà pure una favola, ma come possiamo evitare che diventi un racconto dell’orrore?

(finito il 22 marzo 2019)

Ho parlato di


Umberto Eco
Il nome della rosa
(Fabbri Editori, 1994)

516 pp.

(ed. or. 1980)

giovedì 8 agosto 2019

La montagna incantata

Narra la Bibbia che, giunto per la prima volta presso il monte di Dio, di fronte al roveto che ardeva senza consumarsi, a Mosé fu intimato di togliersi i sandali, perché quello era un luogo santo. É più o meno con la stessa palpitazione in cuore che provo a balbettare le mie sensazioni dopo essermi accostato a quest’altra montagna, interamente fatta di parole, imponente e bellissima come un massiccio alpino, scalando la quale alle volte ti manca perfino l’aria per quanto si vola alto, in zone rarefatte del pensiero, quasi a contatto con le sfere celesti. «Il cielo splendeva intensamente azzurro sopra i nuovi getti a lancia in cima agli abeti, mentre la località nel fondovalle brillava di luce vivida al calore, e lo scampanio delle mucche, libere in giro e intente a brucare dai pendii l’erba breve e scaldata dal sole, empiva l’aria d’un placido incanto». Ma in questo paesaggio incontaminato si innalza un edificio di infezione e di morte, un lussuoso sanatorio per malattie polmonari che accoglie degenti di varia provenienza. Non è che la prima, appariscente, opposizione su cui si regge l’intero romanzo, interamente ambientato a Davos, prima che questo villaggio svizzero diventasse meta di economisti e finanzieri. La seconda opposizione, altrettanto netta, è quella tra questo mondo d’alta quota, posto seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo (Silvaplana non è distante), e il mondo «di laggiù», quella prosaica e indaffarata regione a una dimensione da una delle cui capitali, la brulicante Amburgo, giunge bel bello, in un giorno d’estate del 1907, il giovane Hans Castorp, «né un genio né uno sciocco», rampollo di buona famiglia e ingegnere navale fresco di laurea, in procinto di entrare come praticante nella celebre ditta Tunder & Wilms: insomma, «un uomo del traffico mondiale e della tecnica», un perfetto prodotto dell’Ottocento trionfante, il cui destino, proprio per questo, può assumere per Mann «un certo significato superpersonale». In realtà, Castorp affronta questo lungo viaggio non per sé, ma per visitare il cugino Joachim, la cui sospirata carriera militare è stata momentaneamente interrotta dalla salute cagionevole. Quel che ancora non sa, quando approda al sanatorio, è che l’ascesa che ha compiuto è appena l’inizio del suo percorso iniziatico di risalita dalla caverna. Convinto come tutti di essere sano, scopre infatti per caso di covare anch’egli una malattia, che lo costringerà, dapprima controvoglia, poi con sempre maggior convinzione, a restare confinato lassù per sette anni, un po’ come accadrà ad Heinrich Harrer in Tibet. E probabilmente ci sarebbe rimasto per sempre, perché, anche quando gli diagnosticano la guarigione del corpo, Castorp appare ormai del tutto indifferente alle sirene del secolo, se non fosse per quel colpo di tuono esploso a Sarajevo che «spacca la montagna magica e mette bruscamente alla porta il dormiglione», improvvisamente deciso ad arruolarsi. Sul campo di battaglia lo guardiamo «ancora una volta nel viso schietto, prima di perderlo di vista» per sempre. Non sappiamo che fine farà, anche se non nutriamo molte speranze sulla sua sopravvivenza. Ad ogni modo, la vita è aperta. 

La trama, di per sé, è tutta qui. Però Mann utilizza il microcosmo di Davos per allestire un fenomenale spaccato del “mondo di ieri” travolto dalla bufera bellica e il modo in cui coniuga una minuziosa attenzione al dettaglio con una potente visione d’insieme dimostra una padronanza tecnica del mezzo quale raramente, confesso, ho mai visto – e, almeno sotto questo profilo, forse si tratta davvero del libro migliore fra quelli che ho letto: qui ogni singola parola è attentamente selezionata per descrivere con precisione puntuale il minimo particolare e al tempo stesso si carica di una profondità simbolica che sprigiona una molteplicità di significati e livelli di lettura di cui avrò colto sì e no qualche frammento. Mann stesso sostiene che il libro andrebbe letto due volte, se non ci si é troppo annoiati la prima – e se questo vale in generale per tutti i classici, devo dire che il suggerimento qui è particolarmente pertinente. Siamo letteralmente alle prese con un romanzo-mondo, sia pure giocato interamente ai margini del mondo, in quel particolarissimo limbo che è il luogo di cura, o meglio ancora con un’enciclopedia tribale della modernità, zeppa di riferimenti che spaziano dalla biologia dei protoplasmi alla nuova tecnologia dei raggi x e del cinematografo, o ancora con un’apocalisse ermetica senza lieto fine, in cui la Gerusalemme terrena e quella celeste continuano a non incontrarsi. 

Quest’ultima tensione è ben rappresentata dallo scontro ideale che per gran parte del libro oppone i due personaggi intestatisi il compito di educare il giovane Castorp, attraverso una battaglia dialettica che per finezza argomentativa e lucidità di pensiero non è inferiore alle logomachie allestite da Platone. Da un lato il framassone Settembrini, espressione del pensiero umanista, illuminista e positivista: laico, progressista, esuberante sostenitore del razionalismo occidentale contro il misticismo asiatico e profeta della parola come promotrice di civiltà. Dall’altro il gesuita Naphta, pensatore luciferino e intransigente, convinto assertore della superiorità assoluta dell’ordine divino su quello umano, così rigorosamente ascetico da auspicare gelidamente la catastrofe mondiale perché si affermi in ultimo, come deve essere, la gloria di Dio. Tutto semplice, allora: il rosso e il nero l’un contro l’altro armati? Niente affatto, e non solo perché la disputa resta, anch’essa, perennemente aperta – Settembrini messo spesso alle strette da Naphta nel suo ingenuo ottimismo, Naphta terribilmente affascinante in un esercizio critico che però, a forza di sottigliezze, finisce per sbriciolare il senso stesso di ogni cosa – ma soprattutto perché, con un incedere che sembra la messa in sublime copia di ciò che in Hegel spesso è così farraginoso, queste due posizioni scivolano sorprendentemente di continuo l’una nell’altra, al punto che spesso non si capisce più chi è il santo e chi il libero pensatore, chi il conservatore e chi il giacobino, chi è per la religione e chi è contro di essa, chi per Dio e chi per il diavolo. «Ahimé, i principi e gli aspetti si stavano continuamente tra i piedi, di contraddizioni interne non c’era penuria (…). Era la grande confusione, quell’incrociarsi, quell’intrecciarsi di tutto», su cui Mann stende la sua raffinata ironia, ma che al tempo stesso gli permette di enucleare quel problema che mi turba e mi appassiona ogni giorno di più e che definirei l’osmosi continua tra le polarità opposte della modernità – quel rovesciamento del razionale in irrazionale e dell’irrazionale in razionale che consentì continue interazioni tra elementi apparentemente inconciliabili già molto prima del patto Molotov-Ribbentropp. «Spingevano tutto all’estremo, quei due, come è forse necessario quando si viene ai ferri corti, e litigavano accaniti per un’alternativa suprema, mentre a lui sembrava che nel mezzo, tra le esagerazioni contestate, tra il retorico umanesimo e la barbarie analfabeta, ci doveva pur essere quello che si potrebbe chiamare l’umano». É dunque questo il senso fondamentale della prima contraddizione della Scienza della logica

Entrambi gli estremismi, del resto, sembrano avere il fiato corto, e non solo per questioni di salute. Il cantore delle magnifiche sorti e progressive se ne sta confinato fra i monti a pontificare mentre la tanto decandata civiltà occidentale si getta nel baratro delle trincee; il denigratore del mondo spinge a tal punto in avanti il proprio radicalismo da non poter approdare ad altro esito che all’autodistruzione, lui con tutto il suo Valhalla. E allora dico, gettando lì i miei due poveri penny, che questo romanzo in cui svolge una funzione essenziale la riflessione sul tempo, continuamente dilatato e contratto (e non potrebbe essere diversamente, negli anni di Einstein e di Proust), mi appare anche come un’enorme rappresentazione dell’adolescenza, quell’epoca tipicamente senza mezze misure, in cui un singolo anno mi sembra che ne sia durati dieci, se confrontato coi decenni successivi, quasi volati senza accorgermene – quel periodo di innamoramenti selvaggi e incomprensibili (come quello che Castorp prova per madame Chauchat), di epifanie avvenute spesso proprio in montagna e durante le quali mi sembrava di aver capito tutti i misteri del cosmo, tanto da consegnare allo scritto riflessioni che allora mi apparivano profonde e oggi di un candore imbarazzante. Poi, a un certo punto, improvvisamente, la vita chiama e chissà se sei davvero pronto. Forse la fatica di farsi uomini, per non restare adolescenti a vita, consiste appunto nell’orientarsi fra le antitesi, imparando, poco per volta, che gli opposti, per quanto suggestivi per il loro apparente nitore, sono in realtà impraticabili e pericolosi, perché la vita è, sempre, a un tempo amore e morte, sì e no (come diceva Camus), e riunisce ciò che la mente separa. «Morte o vita; malattia, salute; spirito e natura. Sono forse contraddizioni? Domando: sono forse problemi? No, non sono problemi (…). La sconsideratezza della morte è nella vita, senza di essa la vita non sarebbe vita, e nel mezzo sta l’homo Dei – nel mezzo tra leggerezza e ragione – come nel mezzo tra mistica comunità e vana individualità è il suo stato. (…) L’uomo è signore delle antitesi». Il che comporta, però, un’assunzione di responsabilità personale da cui troppo facilmente abdichiamo con la scusa di non voler compiere inciuci.

(finito il 27 febbraio 2019)

Ho parlato di


Thomas Mann
La montagna incantata
(Corbaccio, 2012)

trad. di E. Pocar

704 pp. | 19,90 €

(ed. or. Der Zauberberg, Berlin 1924)