tag:blogger.com,1999:blog-80247687195695070452024-03-13T11:06:29.067+01:00l'abbazia di theleme"La regola era racchiusa in un solo articolo: fa ciò che vuoi" (Gargantua, LVII)z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.comBlogger176125tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-73936740110570753112024-03-03T16:31:00.004+01:002024-03-03T17:18:21.783+01:00La donna in bianco<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Fatico a immaginare destino più beffardo per uno scrittore – e per uno scrittore di talento, ingegnoso fabbricante di intrecci e splendido affabulatore – che quello di venir anzitutto conosciuto non già come autore, bensì come personaggio, almeno in parte, d’invenzione: eppure è proprio così che mi sono imbattuto per la prima volta, una decina d’anni fa, nel fino ad allora a me del tutto ignoto Wilkie Collins, leggendone le gesta romanzate da Dan Simmons in <a href="https://www.ibs.it/drood-libro-dan-simmons/e/9788861921573" target="_blank">Drood</a>, che è un libro meravigliosamente inquietante per il modo in cui rielabora in chiave moderna l’anima nera della letteratura vittoriana, con il solo difetto di rivelare l’enigma intorno a cui ruota, appunto, uno dei capolavori di Collins, <i>La pietra di luna</i>, e di rovinarne almeno in parte la lettura, se non ne sapevi nulla (come ho potuto poi sperimentare in prima persona quando ho voluto rimediare alla mia lacuna, sebbene poi il libro in questione, che è al tempo stesso uno dei prototipi del romanzo poliziesco e però già anche una sua garbata parodia, non si riduca solo a quell’enigma e valga la pena d’essere letto comunque).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Condensato in Bignami, Collins è uno che sarebbe potuto diventare Dickens se non avesse avuto la sfortuna di nascere quando già c’era un Dickens, quello originale, del quale peraltro era amico, sulle cui riviste pubblicava le sue opere e nel cui maestoso cono d’ombra in un certo qual modo è finito per restare a lungo imprigionato (anche se ora lo si sta riscoprendo, ritraducendo e, complice anche il bicentenario della nascita, ripubblicando in forze). Ma Collins è anche stato fra i primi a fiutare l’interesse crescente del pubblico per la cronaca nera e a intuire il potenziale narrativo di un racconto affidato a più voci, ciascuna delle quali fornita del suo peculiare timbro e soprattutto portatrice solo di un particolare punto di vista sull’intera storia, proprio come accade con le deposizioni giurate dei testimoni sottoposti agli interrogatori e ai controinterrogatori durante la fase dibattimentale di un processo. Non saprei decantarne meglio le doti se non attestando la sua capacità di prendere ingredienti che in altre mani avrebbe potuto produrre tranquillamente un indigesto polpettone ottocentesco e mescolarli così abilmente da rendere invece il prodotto finale tanto gradevole al gusto da farmelo divorare in una manciata di giorni appena, avvinto dall’ingarbugliarsi del mistero e più ancora dalla curiosità di capire quale sarebbe stato il trucco con cui sarebbe stato disfatto, perché si capisce benissimo che un trucco deve pur esserci da qualche parte, ma quando cresci e ti fai sgamato è proprio nell’assenza di magia che riconosci infine l’autentica magia della scrittura.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">É facile immaginare che a coinvolgere il lettore originale fosse anzitutto la simpatia per il tormentato amore tra la bella e virtuosa eroina Laura e il suo generoso innamorato con tanta arte ma senza parte William – e ancor più l’ansia crescente per il lento dispiegarsi della diabolica macchinazione ordita ai loro danni che, in mancanza di uno Sherlock Holmes capace di smascherarla con due rapide occhiate ai dettagli giusti, pare a un certo punto stritolarli senza rimedio in una morsa di intollerabile infelicità. Ma per quanto il feuilleton risulti spesso, di fatto, una variante appena meno pericolosa degli oppiacei con cui ci si ottunde la mente dinanzi alle miserie della realtà (cosa che il fumatore compulsivo Collins sapeva bene), le sue regole – se lo si vuole fare e le si sa usare – possono anche essere impiegate per sollecitare un inaspettato sussulto di riflessione in chi abbocca all’esca dell’intrattenimento. Apparso a puntate su <i>All the Year Round</i> tra il novembre 1859 e l’agosto 1860 (subito dopo il <i>Romanzo di due città</i> e subito prima di <i>Grandi speranze</i>), <i>La donna in bianco</i> è infatti un potente atto di denuncia contro l’insostenibile condizione di subordinazione femminile che anticipa di appena qualche anno il famoso pamphlet di John Stuart Mill e Harriet Taylor <i>Sulla servitù delle donne</i>. Esasperata dai maneggi di sir Percival, un giovane aristocratico sommerso dai debiti che spera di dare una svolta alla sua disperata situazione finanziaria per via matrimoniale, in virtù di una legge iniqua secondo cui, in caso di morte, i beni della moglie devono passare per intero al marito (ma non il contrario), lady Marian, sorellastra della protagonista, meno bella di lei, tuttavia decisamente superiore per estro, intelligenza e lucidità come Cirano lo è rispetto a Cristiano, a un certo punto sbotta: «se solo potessi godere dei privilegi di un uomo (…). Ma poiché sono solo una donna, condannata a sfoggiare pazienza, decoro e sottane per tutta la vita, devo rispettare l’opinione comune e cercare di assumere modi femminili e delicati». In Inghilterra, del resto, «gli obblighi coniugali di una donna le concedono di avere un’opinione personale dei principi morali del marito? No! La sua missione è amare e onorare il consorte, obbedendogli senza riserve». E alle sciagurate che volessero mettersi di traverso, la civilizzatissima società inglese, scandalizzata nel suo buon gusto dai tetri conventi mediterranei descritti nei romanzi gotici come luogo di reclusione per le figlie cadette, spalanca poi con sin troppa disinvoltura le porte dei moderni manicomi che ne hanno preso il posto, sostenendo con l’autorità della scienza ciò che la religione non sembrava più in grado di giustificare da sola.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">«John l’inglese aborrisce i crimini di Cheng il cinese. É il più veloce gentiluomo del mondo quando si tratta di smascherare le colpe dei suoi vicini, e il più lento quando le colpe sono sue. Ma lui con la <i>sua</i> condotta è davvero migliore di coloro che condanna per la <i>loro</i> condotta?»: a gettare il sasso nello stagno del quieto perbenismo british – curiosamente, ma forse non troppo – è il personaggio più amorale del libro e a mio avviso anche quello più suggestivo. Come nei racconti di <a href="https://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/E.%20T.%20A.%20Hoffmann" target="_blank">Hoffmann</a>, anche qui il diavolo arriva dall’Italia e coniuga tratti paurosamente luciferini con l’ironico savoir-faire di chi la sa lunga sulle cose del mondo, se ne infischia di quelle che considera pure convenzioni sociali e non si vergogna di dichiararlo («dico quello che le altre persone pensano soltanto, e quando il resto del mondo cospira per accettare la maschera al posto del vero volto, la mia mano avventata strappa la cartapesta e mostra la nuda verità»). Collins gli dà un nome programmatico, battezzandolo conte Fosco, ma a parte questo non ha nulla a che spartire con la malaticcia antieroina immaginata da Tarchetti: «immensamente grasso» eppure sorprendentemente leggero e silenzioso nei movimenti, intelligentissimo, lezioso, manipolatore, seducente a canagliesco al tempo stesso, questo impasto di Napoleone e di Pulcinella sembra trattare tutti coloro che gli stanno attorno (a partire dalla moglie, zia della protagonista) come i topolini e i canarini che alleva amorevolmente e che si fidano a tal punto di lui da scivolargli fra le dita tozze da cui potrebbero in qualsiasi momento essere schiacciati. É solo quando prende davvero in mano lui la situazione per dirigere le manovre dello spregevole ma limitato sir Percival che si comincia davvero a temere che le cose possano volgere al peggio, perché è chiaro che uno come lui potrebbe davvero inventarsi di tutto, solo per il gusto di vincere la sua personale partita a scacchi, giacché – come spiega amabilmente alla vittima predestinata dei suoi raggiri – «il crimine di uno sciocco viene sempre scoperto, quello di un uomo intelligente <i>mai</i>. (…) Se la polizia vince, di solito se ne conoscono tutti i particolari, ma se perde non se ne viene a sapere nulla. E su queste fondamenta vacillanti voi costruite la vostra rassicurante massima morale che il crimine viene sempre a galla! Sì, è vero dei crimini che conoscete. Ma tutti gli altri?».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Serve proprio un personaggio così apertamente fuori dagli schemi, verso il quale si finisce per provare una morbosa ammirazione (analoga a quella che lui stesso comincia a provare per Marian, a cui parla «con il senno e la serietà che riserverebbe a un uomo»), per mostrare i cortocircuiti e le assurdità di un sistema sociale in cui i virtuosi che seguono le regole finiscono il più delle volte per perdere. Faccia fede questo apologo: «chi credete che starà meglio tra due povere sartine in miseria: quella onesta che resiste alla tentazioni o quella che cede e diventa una ladra? Sapete tutti che il furto farà la fortuna di quest’ultima, portandola all’attenzione dell’intera Inghilterra benevola e caritatevole, e così lei si salverà trasgredendo il comandamento, mentre sarebbe morta di fame se l’avesse osservato». E così, anche se alla fine qui le cose più o meno andranno per il verso giusto, è ben la poca consolazione che se ne trae, perché quel che più resta impresso è il fortissimo sospetto che nella maggior parte dei casi accada tutto il contrario.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Ps Mia moglie si è divertita moltissimo quando ha visto, leggendo il libro dopo di me, che, cedendo a un sussulto di vanità, avevo sottolineato questo passo: «persino la calvizie in un uomo è gradevole perché sottolinea l’intelligenza del viso».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 5 gennaio 2022)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPWfEQEpimPPtKRd-a_Q_rE4qcCg82te7X5Cr0OBtLRtEF5_u2VSE30rkzVWTYP_XZ8jkKS3r00RvKTXehvFPu_srQ6iGf4I-qewPtRj3p6gICtKLF6xarlwfAoN7Az-LJafK-JRfrsSqkLrwYLLNfhYLV0zzNa25NMt-9qys_ldYJdZtRb9z3BwU2Jc8/s657/collins.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="657" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjPWfEQEpimPPtKRd-a_Q_rE4qcCg82te7X5Cr0OBtLRtEF5_u2VSE30rkzVWTYP_XZ8jkKS3r00RvKTXehvFPu_srQ6iGf4I-qewPtRj3p6gICtKLF6xarlwfAoN7Az-LJafK-JRfrsSqkLrwYLLNfhYLV0zzNa25NMt-9qys_ldYJdZtRb9z3BwU2Jc8/s320/collins.jpg" width="207" /></a></div><br />Wilkie Collins</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>La donna in bianco</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Mondadori 2018)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di A. Mantovani</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">626 pp. | 14 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>The Woman in White</i>, 1859-1860)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-13758678004204651772024-01-22T22:39:00.008+01:002024-01-23T17:12:16.866+01:00Come ordinare una biblioteca<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">A quanti ci osservano con la stessa divertita curiosità che dedicherebbero a qualche buffa bestiolina, quando scoprono che siamo in grado di riconoscere al primo sguardo se c’è un volume fuori posto nella nostra libreria, soprattutto se tale discutibile talento s’accompagna ad eccentricità socialmente più rilevanti, come (per dirne solo una, realmente accaduta) il presentarsi in un ufficio pubblico con la maglietta girata al contrario, dovremmo avere una buona volta il coraggio di rispondere con le stesse parole con cui aprì questo suo aureo libretto – fra gli ultimissimi dati alle stampe in vita, quasi un testamento spirituale – uno che sapeva perfettamente quel che diceva poiché affetto dalla nostra stessa malattia: «come ordinare la propria biblioteca è un tema altamente metafisico» (stia dunque alla larga chi s’aspettasse banali consigli di biblioteconomia domestica). Questo non aumenterebbe probabilmente la nostra credibilità fra gli uomini di mondo, ma sarebbe una dichiarazione indubbiamente più sincera delle maldestre scuse spesso abbozzate per mascherare l’imbarazzo. Perchè sì, che ci crediate o no, quando disponiamo i nostri libri l’uno accanto all’altro, stiamo davvero provando a mettere in ordine l’universo. Concettualmente diversa da un semplice magazzino o da un deposito di merci, l’autentica biblioteca assomiglia piuttosto a quello che il mappamondo rappresenta per il globo terrestre, un principio di organizzazione – e proprio per questo dovrebbe sempre essere a scaffale aperto, poiché, anche solo aggirandosi tra queste foreste di simboli e scorrendo le coste dei singoli tomi si possono finire per scoprire le corrispondenze segrete che tengono insieme tutto ciò che c’è.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Lo aveva capito benissimo Aby Warburg, teorico della regola aurea del «<i>buon vicino</i> (…), secondo cui nella biblioteca perfetta, quando si cerca un certo libro, si finisce per prendere quello che gli sta accanto e che si rivelerà essere ancora più utile di quello che cercavamo». Calasso ricorda di aver sperimentato personalmente la giustezza di questa regola quando ebbe modo di frequentare la biblioteca di Warburg a Londra per lavorare alla sua tesi sui geroglifici di Sir Thomas Browne; per parte mia, non posso trattenere un fremito di pura riconoscenza verso la vita per avermi dato l’occasione di sperimentare una gioia analoga, al tempo del dottorato, quando bazzicai anch’io le stesse stanze cercando una chiave per entrare nella testa dei miei medici rinascimentali. Quella biblioteca - e mettiamoci pure quella del Wellcome College, lì vicino - sono state per me vere e proprie baie delle Sirene in cui avrei potuto naufragare dolcemente per l’eternità (e non per nulla, nei miei sogni, il paradiso appare spesso come un’immensa biblioteca). Warburg, peraltro «non si stancava mai di spostare libri e poi spostarli di nuovo. Ogni passo avanti nel suo sistema di pensiero, ogni nuova idea sulla interrelazione dei fatti lo induceva a raggruppare in altro modo i libri che vi erano coinvolti. Sobrie parole che invitano a rassegnarsi una volta per tutte: l’ordinamento di una biblioteca non troverà mai – anzi <i>non dovrebbe</i> trovare mai – una soluzione. Semplicemente perché una biblioteca è un organismo in perenne movimento. É terreno vulcanico, dove sempre qualcosa sta succedendo, anche se non percepibile dall’esterno».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Si annida qui una verità che non si può capire se si intende la lettura in termini di puro consumo e che permette a mio avviso di pronosticare ancora lunga vita ai libri cartacei – a differenza, per esempio, di quanto accade coi supporti materiali audiovisivi, che cambiano di continuo – e questo non solo perché con il papiro e l’ebook puoi fare molte cose (come leggere questo libro), ma non puoi farne moltissime altre («sfogliare un libro, leggere il risvolto, far cadere l’occhio su una pagina a caso, tenere il libro in mano e considerarlo come un oggetto, attraente o urtante»). Sebbene, infatti, non siano in origine pezzi unici come le opere d’arte, in quanto riproducibili in fase di stampa, una loro effettiva unicità i libri poi la guadagnano davvero, col tempo, entrando a far parte di quel personalissimo vissuto di cui la biblioteca personale registra, per così dire, le stratificazioni e i movimenti, proprio come se fosse un’estensione di te, che cresce con te, popolandosi via via di ciò che ti ha segnato o che reputavi importante e lasciando fuori ciò che non ritenevi invece meritevole di attenzione o che hai pensato non ti interessasse più (per questo «una biblioteca dovrebbe fondarsi su larghe esclusioni»: riflesso della vita, essa è sempre una selezione, così come quella è fatta di scelte). E poiché siamo creature distese nel tempo, una vera biblioteca non si limita a inquadrare l’esistente, ma esprime anche una promessa, un messaggio in bottiglia lanciato a se stessi da epoche diverse. «Essenziale è comprare molti libri che non si leggono <i>subito</i>. Poi, a distanza di un anno, o di due anni, o di cinque, dieci, venti, trenta, quaranta, potrà venire il momento in cui si penserà di aver bisogno esattamente di quel libro – e magari lo si troverà in uno scaffale poco frequentato della propria biblioteca. (…) L’importante è che ora si possa leggere <i>subito</i>. Senza ulteriori ricerche, senza provare a trovarlo in biblioteca. Operazioni laboriose, che conculcano l’estro del momento. Strana sensazione, quando si apre quel libro. Da una parte il sospetto di aver anticipato, senza saperlo, la propria vita (…). Dall’altra un senso di frustrazione, come se non fossimo capaci di riconoscere ciò che ci riguarda se non con un grande ritardo. (…) Oggi l’informatica ha ridotto enormemente i tempi dell’attesa e della ricerca di un libro. (…) Ma questo nulla toglie all’incanto di trovarsi fra le mani – immediatamente – un libro di cui non si sapeva di aver bisogno sino a un momento prima. Il gesto decisivo rimane quello di aver acquisito qualcosa, un giorno, pensando che il suo uso era soltanto ipotetico».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Se invece quel libro lo si è già aperto, bisognerebbe sempre potervi ritrovare segni dei propri precedenti passaggi. «Molto raro è il caso di libri che abbia letto e siano rimasti tali e quali, senza alcun segno a matita. Non aggiungere a un libro tracce della lettura è una prova di indifferenza. (…) E a partire dalle annotazioni su un libro svanito dalla memoria si può anche ritrovare quel certo passo che risulterà indispensabile “vent’anni dopo”». É di questi ghirigori e marginalia che il pensiero si nutre avidamente, costruendo continue connessioni ipertestuali con l’ausilio di strumenti apparentemente desueti come un lapis (così cominciò, più o meno, anche Montaigne, costeggiando lateralmente gli storici, e ne vennero fuori gli <i>Essais</i>). In fondo, «l’intrecciarsi delle letture nello stesso cervello è una versione impalpabile di quelle reti neuronali che fanno disperare gli scienziati»: «ogni lettore vero segue un filo (che siano cento fili o un filo solo è indifferente). Ogni volta che apre un libro riprende in mano quel filo e lo complica, imbroglia, scioglie, annoda, allunga». Per questo non è affatto la stessa cosa leggere un libro prima o poi e per questo soppesare quale libro cominciare, quale sia il libro da leggere proprio in questo momento, è sempre un’istanza cruciale. Se, dunque, è certamente una biblioteca quella che si estende nello spazio, lungo le pareti e i corridoi, non lo sarà di meno quella che si dispiega secondo l’ordine del tempo, nella quale la successione delle letture costituisce l’equivalente dell’affiancamento di un libro all’altro sui ripiani. É questo, dopotutto, il motivo per cui mi ostino a seguire con disciplina la regola che mi sono dato, anche se sconto ormai un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, perché quelle che qui raccolgo non sono in realtà recensioni ma le coordinate della mappamente della mia vita.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(finito il 30 dicembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-Lci697aiBSohWSiTRJldI9bjkbPujFzs1zCagrBS-8r_tHXNhPKxUyTnsd3OuxFC7dCOvDv6CLkiq2qA6zy8j4I32SCk0jr4YlsXycjhlwn6fYZPQ97YdqNwWrd_RZAJHfSFZKzJaTMXYyuaSwZpxAgTox3licnUJuSvnI8q-HpBDrsbMGsFRZQKwrg/s714/calasso.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="714" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg-Lci697aiBSohWSiTRJldI9bjkbPujFzs1zCagrBS-8r_tHXNhPKxUyTnsd3OuxFC7dCOvDv6CLkiq2qA6zy8j4I32SCk0jr4YlsXycjhlwn6fYZPQ97YdqNwWrd_RZAJHfSFZKzJaTMXYyuaSwZpxAgTox3licnUJuSvnI8q-HpBDrsbMGsFRZQKwrg/s320/calasso.jpg" width="190" /></a></div><br />Roberto Calasso</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;"><i>Come ordinare una biblioteca</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;">(Adelphi 2020)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">127 pp. | 14 €</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-4497630559834650872024-01-14T19:22:00.003+01:002024-01-14T19:22:39.220+01:00Il giro del mondo in sei milioni di anni<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Anche se su scala geologica siamo poveri parvenus, rispetto per esempio ai coccodrilli, nel corso dei millenni abbiamo comunque macinato sufficiente terreno da non essere poi più stati in grado di riconoscerci come parenti, quando alfine ci siamo reincontrati. Già Agostino escludeva l’abitabilità e quindi l’esistenza stessa degli antipodi sulla base del fatto che gli pareva impossibile che dei figli di Adamo si fossero potuti avventurare nell’Oceano grande e terribile in tempi tanto remoti, per poi dimenticarselo, quando neppure all’apogeo dell’Impero Romano v’erano a disposizione i mezzi tecnici per farlo. E invece, del tutto controintuitivamente, le cose pare siano andate proprio così. É pur vero che, fino a 8 mila anni fa, in tempi di glaciazioni e di arretramento delle acque, oltre che in assenza di dogane e confini minati, la Terra era più facilmente percorribile di quanto non lo sia ora. Ciò non toglie, tuttavia, che, per esempio, tra Sunda e Sahul, ovvero tra la piattaforma continentale che sorregge l’attuale Indonesia occidentale e quella su cui poggiano Australia, Papua e Tasmania (per intenderci, ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della linea di Wallace), restasse comunque «un bel po’ di mare: almeno 90 km. Per un potenziale viaggiatore questo avrebbe voluto dire mettersi in acqua senza riuscire a vedere, se non a viaggio già iniziato, la propria destinazione. Sulla base delle informazioni archeologiche di cui disponiamo sappiamo anche che, con tutta probabilità, le imbarcazioni utilizzate da questi migranti non avevano vele ed erano simili alle attuali canoe. Questa carenza di mezzi adatti alla navigazione in alto mare rende ancora più stupefacente la conquista dell’Oceania da parte della nostra specie in tempi così remoti». Insomma: Colombo, scansati pure.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Si dirà che parliamo comunque già di <i>Sapiens</i> e quei loro grandi cervelli, che sono poi sostanzialmente i nostri, a qualcosa dovevano pur servire. Ma questa storia di dispersione globale comincia in realtà assai prima, praticamente da che <i>Homo</i> è <i>Homo</i> – ossia da molto più tempo, anche se non proprio da sei milioni di anni, perché quella è solo la data approssimativa di quando è cominciata la divaricazione tra i nostri più antichi progenitori e quelli degli odierni scimpanzè a partire dall’ultimo antenato comune, ed è assodato che il bipedismo obbligato non fu una conquista immediata, tant’è che la piccola Lucy, la più celebre australopiteca, pare proprio sia morta cadendo da un ramo su cui continuava pur sempre a cercare rifugio la notte. Tanto basta, comunque, per riconoscere all’uomo la qualità di specie mobile per eccellenza. Come suggerisce l’antropologo Marco Aime, qui citato, «oggi si fa un gran parlare di radici e dei diritti che deriverebbero dall’averle in un posto e non nell’altro, ma basta abbassare gli occhi (…) per rendersi conto che in fondo alle gambe non abbiamo radici, ma piedi: piedi che servono per andare in giro e di cui ci serviamo dall’alba dei tempi per il colossale viaggio in cui l’umanità è impegnata fin da quando ha mosso i primi, timidi passi sul suolo, con arti ancora poco adatti a camminare, con un cervello piccolo e poca forza muscolare, ma spinta a procedere da due caratteristiche umane già allora pienamente sviluppate (…): irrequietezza e curiosità».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Con un occhio rivolto, dunque, a Jules Verne ed uno alle <i>Cosmicomiche</i> di Italo Calvino, questo libro si propone pertanto di raccontare, alla luce dei risultati più recenti della ricerca scientifica, le principali tappe di un cammino che ci ha portato a occupare (qualcuno direbbe anche: a infestare) persino le regioni più remote e inospitali del pianeta, al ritmo apparentemente lento, ma inesorabile, di circa 3 km all’anno, pagato con i cronici mal di schiena imputabili al progressivo raddrizzamento di una colonna vertebrale che non era stata brevettata per la postura eretta (poiché la natura ricicla tutto e, non potendo inventare dal nulla, come McGyver, accrocca con ciò che ha a disposizione). Con la sottolineatura che, dovunque ci siamo spinti, a ondate successive, abbiamo finito bene o male sempre per rimescolarci. I risultati acquisiti dalla genetica «confermano qualcosa che avevamo intuito da tempo: siamo tutti bastardi. Abbiamo bisogno di nomi per definire le tantissime forme dei viventi, ma limiti fra una specie e l’altra sono meno definiti e più permeabili di quanto queste etichette possano far pensare. (…) Nella biologia contemporanea, (…) l’appartenere a specie diverse non significa che non ci possa essere stato qualche scambio, e che gli individui ibridi non possano, a loro volta, aver lasciato dei discendenti». A maggior ragione questo processo sarà poi valido per i <i>Sapiens</i> soltanto, cosicché, quando dal comune retroterra biologico cominceranno a delinearsi le popolazioni storiche, nessuna di queste risulterà nettamente isolabile rispetto a un’altra. «Neolitici, Egizi, Greci: tutti questi popoli antichi avevano le loro caratteristiche, che oggi riusciamo in parte a decifrare nei loro genomi. Ma nessuno di questi genomi era puro, perché, e lo si vede bene, tutti contengono componenti eterogenee, di origini eterogenee. L’umanità, fin da prima di <i>Homo sapiens</i>, è sempre stata in movimento, e i risultati delle migrazioni e degli scambi si vedono nel nostro DNA, in cui coesistono, oggi come ieri e l’altro ieri, i contributi di antenati di tante origini diverse». Se siamo ciò che siamo, dunque, non è malgrado gli incroci, ma proprio in virtù di essi. Per quanti masticano già un po’ questi argomenti, tali considerazioni suoneranno ovvietà, eppure potremo dire di aver compiuto davvero il grande passo solo quando, divulgatili al punto di averli finalmente resi senso comune, riusciremo a far capire anche ai più cocciuti che proprio quei romani di cui si fregiano di imitare il saluto sono stati in realtà fra i primi a rivendicare la condizione di migranti e di meticci - in quanto eredi del troiano Enea e della latina Lavinia - come motivo d’orgoglio e non di vergogna.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Ps: a uno di questi rimescolamenti neolitici è dedicato un recente podcast in cinque puntate pubblicato dal Post. S’intitola <a href="https://www.ilpost.it/episodes/podcasts/l-invasione/" target="_blank">“L’invasione”</a> e parla, per sommi capi, dell’espansione degli Indoeuropei: per quel poco che sono fin qui riuscito ad ascoltare, mi pare che meriti un surplus d’attenzione.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 30 dicembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXyVFDaD3UuXAElkGMQKb1-X1ZqAd47C7KuOiS4ush3dbSBbsMbs-eVDbsns8_SmrVyzInWhSV-v148UHY_AwUsPuOIB3RNjTmOIzCo9unnv_72mLaJBHf4zOgYfkOxupaH5Ixr4uWZR-xRd2OgocLraO_QAPewLVReUEaeEOO2rCzjas6RCS4mGl2qkw/s706/barbujani.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="706" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiXyVFDaD3UuXAElkGMQKb1-X1ZqAd47C7KuOiS4ush3dbSBbsMbs-eVDbsns8_SmrVyzInWhSV-v148UHY_AwUsPuOIB3RNjTmOIzCo9unnv_72mLaJBHf4zOgYfkOxupaH5Ixr4uWZR-xRd2OgocLraO_QAPewLVReUEaeEOO2rCzjas6RCS4mGl2qkw/s320/barbujani.jpg" width="192" /></a></div><br />Guido Barbujani - Andrea Brunelli</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Il giro del mondo in sei milioni di anni</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Il Mulino 2018)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">198 pp. | 15 €</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-68647121540874058042024-01-03T11:06:00.011+01:002024-01-03T12:20:54.346+01:00Bartleby lo scrivano e altri racconti americani<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;">Ma dopo che hai scritto una cosa come <i>Moby Dick</i>, che altro potresti volere ancora dalla vita? Uomo bennato a cui è stato concesso il privilegio di arpionare davvero la tua personale balena bianca, goditi il tuo sabato, lascia che ora ci provino gli altri, se ci riescono, a fare altrettanto, e ritirati per sempre a fumare con calma la pipa accanto al grandioso camino della tua casa di campagna, proprio come vorrebbe il protagonista dell’ultimo, delizioso, racconto contenuto in questa raccolta (intitolato appunto <i>Io e il mio camino</i>). E invece no, il buon Herman l’idillio non se lo può gustare. La sua controfigura narrativa, descritta con meravigliosa autoironia come una persona così visceralmente all’antica da possedere persino «la curiosa abitudine di gironzolare con le mani… dietro alla schiena», è costantemente assediata da «una moglie intraprendente (…) progettatrice per natura», che sconvolge continuamente con i suoi piani e il suo amore per le novità l’inerzia di un marito impietosamente bollato come “vecchio” (e in effetti, glielo riconosce, «vecchio io stesso, sono sensibile alla vecchiaia delle cose: amo, perciò, soprattutto il vecchio Montaigne, il formaggio stagionato e il vino vecchio; ed evito i giovani, i panini caldi, i libri nuovi, le patate novelle, e sono affezionato alla mia antiquata poltrona dai piedi ad artiglio e al mio vecchio vicino dal piede deforme, il diacono White, e all’ancor più prossima mia annosa vicina, la vecchia vite nodosa, che, nelle sere d’estate, dà di gomito al davanzale della finestra per farmi cordiale compagnia, mentre io, dall’interno, spingo all’infuori il mio, per incontrare il suo; e, soprattutto, di gran lunga al di sopra di tutto, sono molto affezionato al mio vecchio camino dall’alta cappa»).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;">Forse, quando mia moglie, tempo addietro, mi regalò un’altra edizione di questo racconto qualcosa voleva scherzosamente farmelo capire (e a ragione, giacché – pigro come sono – senza di lei avrei conosciuto un’infinitesima parte di mondo), ma nel caso di Melville si trattava solo di una proiezione letteraria. Non era infatti la remissiva consorte a tormentarlo, ma un ben più incalzante demone, quello che lo induceva a continuare comunque a scrivere, perché scrivere probabilmente gli serviva per vivere, ma forse ancor di più perché scrivere è una malattia, che si fa tanto più acuta quanto meno vieni capito – e in quella moglie così perennemente affaccendata e attiva mi verrebbe allora da scorgere anche un simbolo dei suoi stessi connazionali, così pieni di spirito pratico e così inebriati di quello che appariva loro come un destino manifesto da non sapere assolutamente che farsene di quell’eccentrico scrittore di balene che col suo lento salmodiare satireggiava la loro retorica efficientista e le sedicenti meraviglie del progresso tecnico.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;">Col suo talento innato per l’allegoria, a coloro che non erano stati convinti dal capitano Achab, Melville portò dunque in dono lo scrivano Bartleby, altro personaggio memorabile, che di Achab può essere considerato per certi aspetti l’opposto, sebbene ne condivida in sostanza la medesima fine. Assunto come copista nell’ufficio di un avvocato di Wall Street, quest’uomo mite, silenzioso e quieto sarebbe stato l’impiegato perfetto se a un certo punto non avesse del tutto inaspettatamente cominciato a rifiutare gli incarichi assegnatigli, opponendo alle direttive del capufficio il suo pacato, ma irremovibile, “preferirei di no”. Le cause di questa sua ribellione restano e resteranno per sempre misteriose: la sua, per dire, non appare affatto una scelta etica come potrebbe essere quella di chi antepone la voce della coscienza all’ordine ingiusto – ma proprio in questo sta la sua grandezza simbolica, quell’elemento conturbante che ci disarma e ci procura una sottile angoscia. Noi che, per garantire un servizio adeguato, facciamo le ore piccole, ben oltre gli orari e le remunerazioni stabiliti dal contratto, potremmo essere tentati di liquidare la sua inspiegabile protesta come una semplice variante della comoda negligenza che contraddistingue il solito collega svogliato alle cui inadempienze tocca di volta in volta porre rimedio coi salti mortali. Tuttavia, rifiutando di partecipare al grande gioco che tutti quotidianamente giochiamo, svenandoci senza sapere neanche il perché, Bartleby ci suggerisce con candore che in realtà tutto questo affaticarsi non porta da nessuna parte, se non ad aumentare ulteriormente la stretta della gabbia di ferro che ci incatena, con le frustrazioni e le ingiustizie che ne conseguono (come mostrano anche altri racconti qui presenti, spesso giocati proprio sulle ambivalenze di una società profondamente contraddittoria, in cui il paradiso degli uni è l’inferno degli altri). Forse, come avrebbe ribadito, con tutt’altro stile, anche <a href="https://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Luciano%20Bianciardi" target="_blank">Bianciardi</a>, in un mondo in cui tutti si agitano nevroticamente, bisognerebbe avere il coraggio di restare fermi, muti «come l’ultima colonna di un tempio in rovina», terribilmente soli come «un pezzo di relitto in mezzo all’Atlantico», pur sapendo che il nostro destino sarebbe comunque quello di venire triturati e infine sputati dal sistema. Melville l’ha profetizzato ma poi, per fortuna, ha continuato a scrivere, scrivere e scrivere.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(finito il 22 novembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhuAJON9umX2fgGjDqouQPxS-FPEre4PVvK4P7bN7Ja_o7vRXwti-foQcxQeL74mwrMExCs43n6ncH8lkT221VBOheH1rtDEnddvULemieHCkElTxU-V94nkrCjsQx5m_9lRC4zS6mVsw4F0MyRFfmhsAWK4pYdWmSjlIz1TEGb353MI-Z0XbfsTE4pQd4/s1158/melville.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1158" data-original-width="765" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhuAJON9umX2fgGjDqouQPxS-FPEre4PVvK4P7bN7Ja_o7vRXwti-foQcxQeL74mwrMExCs43n6ncH8lkT221VBOheH1rtDEnddvULemieHCkElTxU-V94nkrCjsQx5m_9lRC4zS6mVsw4F0MyRFfmhsAWK4pYdWmSjlIz1TEGb353MI-Z0XbfsTE4pQd4/s320/melville.jpg" width="211" /></a></div><br />Herman Melville</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><i>Bartleby lo scrivano</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><i><span style="font-family: Open Sans; font-size: medium;">e altri racconti americani</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: medium;">(Mondolibri 2013)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Trad. di M. Bagicalupo</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">226 pp. | 5,90 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><i><span style="font-size: medium;"><br /></span></i></span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-10939145561588002462023-12-23T18:53:00.009+01:002023-12-23T19:21:19.298+01:00Credere<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Quando, soprattutto tra i miei studenti, qualcuno prima o poi tira fuori la domanda se credo o no in Dio – l’ultima volta proprio ieri, al bar, dopo la fine delle lezioni –, provo sempre un sottile imbarazzo, non tanto perché fatichi a esplicitare un’appartenenza (lo dico, infatti, quasi subito che sono un chierichetto emerito e che porto ancora addosso i residui di tutto l’incenso scaricato a suo tempo nei turiboli), quanto per i sottintesi impliciti all’uso di quel verbo – credere – che rendono impossibile dare una risposta secca, in termini di sì o no. Cosa mi sta chiedendo davvero chi mi sta ponendo la domanda? E come potrebbe interpretare una mia risposta affermativa o negativa? Siamo sicuri che se io dicessi di “credere”, lui, udendo quella parola, intenderebbe la stessa cosa che intendo io? Per esempio, nella società ultrapolarizzata in cui viviamo, una tale affermazione non rischierebbe di essere intesa né più né meno che come l’espressione di una tifoseria, un tenere per Jahvé o per Allah come si tiene per la Juve o per l’Inter? É davvero questo quello che intenderei dire? E poi, anche tra chi dice di credere, siamo sicuri che ci sia davvero accordo su cosa credere con chi dovrebbe condividere la stessa fede? Per restare nel mio ovile, in cosa crede davvero quel particolare credente che dice di credere nel Dio cristiano in versione cattolica e che, almeno ogni domenica, fa come me la sua professione di fede tra l’omelia e la preghiera universale? Pensiamo realmente le stesse cose quando sovrapponiamo le nostre voci l’una all’altra? Di più, orientiamo realmente le nostre vite nella stessa direzione, pur celebrando un rito di comunione?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">A chi si sentisse toccato da tale intrico di questioni mi sento di suggerire questo ponderoso volume di cui venni a conoscenza suppergiù una quindicina d’anni fa, quando mi capitò di partecipare ad un seminario che ne usava alcune parti come filo conduttore – e che, dopo molto tempo, mi sono poi deciso a leggere per intero. Il teologo gesuita che lo scrisse si era infatti riproposto di provare a ripercorrere, all’alba del nuovo millennio, l’asse portante del Credo e di rielaborarlo in linguaggio corrente, allo scopo di illustrare il senso di espressioni coniate a suo tempo per fare sintesi, ma che senza adeguato retroterra rischiano appunto di restare puro <i>flatus vocis</i>. «Questo libro – spiegava appunto nelle prime righe – è un <i>invito</i>. (…) Mentre tanti libri propongono dei contenuti, io vorrei presentare un itinerario. (…) Io quindi non mi faccio l’obbligo di affrontare tutti gli argomenti della fede cristiana. (...) L’importante non è dire tutto, bensì esprimere ciò di cui si parla, secondo un ordine e un movimento che siano significativi per il lettore. Questo libro che parlerà del cristianesimo, intende quindi rivolgersi alla persona umana in quanto persona. L’esperienza umana di tutti e di ciascuno sarà in certo qual modo il suo punto di partenza. Un vangelo che non si rivolgesse all’esperienza umana più profonda non interesserebbe nessuno. Una risposta che non corrisponde ad una domanda non è una risposta: è un parlare vano. (…) Vorrei dare la testimonianza personale della mia fede dicendo: ecco ciò che mi rende felice, ecco ciò che mi fa vivere. (…) La testimonianza che io cerco di dare è dunque quella di un’esperienza che si rivolge ad altre esperienze. Io ho vissuto questa cosa: corrisponde forse a qualche cosa per te?». Detto altrimenti: al di là del formulario imparato a memoria, abbiamo realmente ancora qualcosa da dire?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">In fondo, il progressivo svuotamento di chiese progettate per racchiudere un popolo che, in quelle proporzioni, vi si raduna giusto per la messa di Natale o per certi funerali, in ossequio a tradizioni e riti sociali condivisi, è forse dovuto, più che alla durezza del messaggio che vi si proclama, alla sua sostanziale indecifrabilità, che ne facilita la riconversione in un più abbordabile paganesimo, spesso proprio ad opera di chi più sbraita di essere cristiano e per cui il credere fa immediatamente rima con l’obbedire e il combattere. Mettere alla portata di tutti, con estrema chiarezza di linguaggio, i risultati di una teologia aggiornata, non convertirà probabilmente nessuno, però può aiutare chi crede a chiarire a se stesso il nucleo vitale della propria fede ed anche mostrare al non credente che, dopotutto, il cristianesimo ha un volto e delle risorse – come sono anche state chiamate – non proprio deprecabili. Ciò potrebbe garantire a tutti quegli uomini di buona volontà a cui l’angelo annuncia la pace di percorre comunque dei tratti di strada assieme, interpellandosi a vicenda, nel rispetto delle reciproche differenze, ma consapevoli che si sta cercando di andare, con mezzi diversi, nella stessa direzione. Anche perché lo spaventoso analfabetismo religioso che paradossalmente appesta il nostro paese di campanili fa solo il gioco degli sbandieratori di rosari che non sapranno quello che fanno ma si fa sempre più fatica a perdonare.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 19 novembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_84JogIHzCxvl5Dna7IJHWj33M0y7qSVr-yUoiFrau0anjxFbp1KEQ8VAYGUXWfUPcCD1ewraBnfcYFRIEBAgjSDQfvubzmi6eDB7WYNoqlf48ZCP31ZSmvVrOiazkp989BdRCXwjDobYZEe6wiwlFJNz2J0VpaTem3zO_1Grgqo-DkTCEkMikWw2h7c/s499/sesboue.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="499" data-original-width="351" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_84JogIHzCxvl5Dna7IJHWj33M0y7qSVr-yUoiFrau0anjxFbp1KEQ8VAYGUXWfUPcCD1ewraBnfcYFRIEBAgjSDQfvubzmi6eDB7WYNoqlf48ZCP31ZSmvVrOiazkp989BdRCXwjDobYZEe6wiwlFJNz2J0VpaTem3zO_1Grgqo-DkTCEkMikWw2h7c/s320/sesboue.jpg" width="225" /></a></div>Bernard Sesboüé</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><i><span style="font-size: large;">Credere. </span><span style="font-size: medium;">Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Queriniana 2000)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di P. Crespi</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">536 pp. | 42 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>Croire. Invitation à la foi catholique pour les femmes et les hommes du XXIe siècle</i>, Paris 1999)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-56132080658751166742023-11-23T23:34:00.011+01:002023-11-26T22:34:12.352+01:00La Primula rossa<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Se questo libro fosse stato scritto oggi da un irriverente autore postmoderno che si fosse celato dietro allo pseudonimo di una baronessa ungherese per poter liberamente pasticciare con i tipici clichés dell’eroe senza macchia e senza paura al fine di mostrarne tutta la loro ambiguità, qualcuno evocherebbe senz’altro il colpo di genio. Ma qui, a differenza che nel racconto di Borges, non siamo alle prese con un novello Pierre Menard e con il suo tentativo di riscrivere, parola per parola, il <i>Don Chisciotte</i> tre secoli dopo: qui è già davvero tutto messo nero su bianco, sin dall’inizio, con una trasparenza così candida da non poter non suscitare un po’ di imbarazzo nel sia pur moderato nerd che mi porto dentro e che si è emozionato tante di quelle volte per le avventure dei suoi miti in calzamaglia.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Prototipo novecentesco di tutti i successivi campioni mascherati (questo suo esordio data appunto 1905), la Primula Rossa è infatti il leader di una rete segreta di nobiluomini inglesi (nobiluomini nell’animo come nel patrimonio, va da sé), i quali fingono solo di essere dandy preoccupati esclusivamente di come occupare il tempo fino alla prossima ora del thé, mentre in realtà organizzano degli spericolati blitz nella Parigi giacobina per sottrarre i poveri aristocratici alla lama della ghigliottina e scortarli verso le bianche scogliere di Dover, dove potranno finalmente tornare a respirare l’aria pulita della civiltà anziché il puzzo della feccia sanculotta (sarebbero tecnicamente anche loro taxisti del mare, ma poiché trasportano dei ricchi signori anziché dei poveri cristi non lo si dice e anziché gli strali dei benpensanti si guadagnano i sospiri delle loro figlie adolescenti). Nessuna concessione nemmeno all’ombra di una sfumatura, figuriamoci alle radici sociali o politiche dei problemi. Alla principessina Orczy, scampata anch’essa da piccola a una rivolta contadina, pare del tutto inconcepibile che qualcuno possa voler rovesciare il mondo incantato della sua infanzia asburgica. Per lei i buoni sono sempre aquile impavide che frangono le correnti a mille piedi d’altezza e i cattivi squallidi ratti sprofondati nella melma del loro bieco risentimento, «belve assetate di sangue, belve sotto spoglie umane, che aspettavano la preda per dilaniarla senza pietà come un branco di lupi affamati, solo per soddisfare il proprio odio».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Partendo da simili premesse, ripetute quasi come un mantra, oggi si potrebbe arrivare a immaginare ronde di Macho-men pronte a fare da scudo ai molestatori accusati di violenza da gruppuscoli di frigide femministe isteriche per aver dato una pacca sul sedere a una bella ragazza senza il suo consenso o giustizieri israeliani che si avventurano nei cunicoli di Gaza uccidendo chiunque passi loro a tiro perché, se non è un terrorista, sarà comunque complice di un terrorista, fosse pure un neonato: non è purtroppo così difficile da immaginarselo, una sorta di super-Capezzone che spara raggi letali addosso ai servi che si permettono di non prostrarsi in adorazione dei padroni. Ora, che personaggi come Tony Stark e Bruce Wayne se ne vadano in giro a picchiare teppisti da quattro soldi per sfogare i loro conflitti interiori irrisolti, ammantandoli così di un’aura fascinosa e romantica da bei tenebrosi, mentre le rispettive aziende multimilionarie contribuiscono a scavare solchi sempre più profondi di autentica ingiustizia vendendo armi agli sceicchi o speculando sulle materie prime, lo si è in fondo sempre saputo, ma abbiamo fatto finta di non vederlo, perché col tempo si è cercato di edulcorarlo e perché comunque ogni tanto si ha pure il bisogno di accantonare tutte le complicazioni del mondo, alleggerirsi la coscienza del peso di non sapersi districare tra le ragioni e i torti e abbandonarsi con semplicità di cuore a una versione lineare degli eventi, chiarissima, in cui il bianco sta da una parte, il nero dall’altra e tutto si risolve a cazzotti – se no, sai che pesantezza (del resto, non sterminavo anch’io, senza troppi rimorsi, la feccia ribelle, quando mi si sollevava contro a <i>Europa Universalis</i>?). Alla fin fine, anche l’avventura della Primula Rossa è così meravigliosamente ingenua, prevedibile e priva di spessore da risultare perfino divertente - e va dunque gustata per quello che è, una potente macchina narrativa che, se a distanza di un secolo, perde ogni tanto di brio, non è per colpa sua, ma perché, proprio per la sua efficacia, è stata saccheggiata da migliaia di sceneggiature successive che hanno contribuito a forgiare il nostro immaginario collettivo. Tuttavia, diretta com’è, un po’ di veleno in corpo te lo lascia, nel momento in cui ti sbatte in faccia che le presunte grandi responsabilità sono solo un modo per ingentilire (e legittimare) il fatto che ci debbano essere dei grandi poteri, suscitandoti il terribile sospetto che sotto la maschera dell’Uomo Ragno non ci sia mai stato tuo fratello Peter Parker, ma Elon Musk.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 12 novembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgenBL9UTw0qcPWmVyy8sx5jEgiP1-Xao8wPd9zLr4P2guu5u7nV1YwnBtCrfIVMmBHnISo5GEpj_t9xmbg-axZYTl2xLS1OIBr1ejs63wWgQzhv1nS1gx9zqfbVgnoCkr7onzVp0fQhimLEP6vseRdEHJswFxTwFBn8_48d-DiqSSZH-eSGHKy0oYzYOE/s825/orczy.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="825" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgenBL9UTw0qcPWmVyy8sx5jEgiP1-Xao8wPd9zLr4P2guu5u7nV1YwnBtCrfIVMmBHnISo5GEpj_t9xmbg-axZYTl2xLS1OIBr1ejs63wWgQzhv1nS1gx9zqfbVgnoCkr7onzVp0fQhimLEP6vseRdEHJswFxTwFBn8_48d-DiqSSZH-eSGHKy0oYzYOE/s320/orczy.jpg" width="208" /></a></div><br />Emma Orczy</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>La Primula rossa</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Feltrinelli 2020)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">trad. di G. Carlotti</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">304 p. | 11 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>The Scarlet Pimpernel</i>, 1905)</span></div><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: large;"><br /><br /> <br /><br /><br /> <br /></span><br />z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-61808900757404813892023-10-23T23:41:00.002+02:002023-10-23T23:41:16.279+02:00Il pericolo di un'unica storia<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Sia detto per inciso che, per quanto abbia le pagine di carta, una rilegatura a norma e la sua riconoscibile copertina, a rigore <i>ceci n’est pas un livre</i>, trattandosi della trascrizione di una <a href="https://www.ted.com/talks/chimamanda_ngozi_adichie_the_danger_of_a_single_story/transcript?subtitle=it" target="_blank">Ted Conference</a> che l’autrice ha tenuto nel 2009 e che chiunque può tranquillamente ascoltarsi online, gratis, persino coi sottotitoli in italiano – e poiché c’è una bella differenza tra lo scrivere immaginando di rivolgersi a un pubblico uditorio oppure a un singolo lettore solitario, consiglierei al curioso di andarsela a ricercare in rete (dura poco meno di venti minuti), in modo da usufruirne nella modalità per cui era stata originariamente pensata. Però, dal momento che io invece di qui sono passato, di questo parlo.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Se ci sono arrivato è per diretta continuità con l’ultimo libro recensito. Gli scrittori sono estremamente sensibili al potere delle storie, avendone fatto il loro mestiere. Chi altri potrebbe infatti apprezzarne di più la forza assolutamente magica che consente loro di contornare un ideale e trascinarlo poi dal piano dell’etereo a quello concretissimo dell’esistenza quotidiana, trasmutandone all’occorrenza la forma e le proprietà? “Gran dominatore” è la parola – diceva già Gorgia – “che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere”. E così, se <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/2023/10/la-pietra-della-follia.html" target="_blank">Labatut</a> spiegava che la nostra fame di storie ci spinge a inventarcene anche di totalmente folli, per ovviare alla nostra crescente incapacità di capire il mondo, Ngozi Adichie, che ha una manciata di anni più di lui e più di me, sottolinea le controindicazioni che si verificano quando di tutte le storie possibili si fa un unico fascio (e non lo dico a caso). Non poteva che essere una storia, la sua storia personale, ad averglielo reso evidente. «Ho iniziato a scrivere – racconta – e tutti i miei personaggi erano bianchi, anche se vivevo in Nigeria, perché così facevano i personaggi dei libri inglesi che leggevo». Neanche le era passato per la mente che i libri potessero contenere altro: «dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi». E si capisce, persino leggere Lolita a Teheran perderebbe tutta la sua carica eversiva se a Teheran non si potesse leggere altro che Lolita. Il paradosso è che, quando poi si è trasferita negli Stati Uniti a studiare, la sua coinquilina americana è rimasta sconcertata dal fatto che parlasse un inglese fluente, sapesse usare un fornello e ascoltasse Mariah Carey anziché musica tribale. «La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa» e con quella storia la sua nuova amica Chimamanda, nonostante quel nome così esotico, sembrava non c’entrare nulla. Persino uno dei suoi professori americani aveva liquidato il suo romanzo osservando che “non era abbastanza africano”, perché i suoi personaggi guidavano automobili e non morivano di fame (che poi anche l’idea di una “storia dell’Africa” è abbastanza discutibile: «prima di andare negli USA non mi consideravo africana, consapevolmente. Ma in America ogni volta che si parlava di Africa ci si rivolgeva a me, anche se non sapevo nulla di posti come la Namibia. Ora mi considero africana anche se mi irrita quando ci si riferisce all’Africa come a unico Paese». Chissà cosa penserebbe di quel leghista di genio che all’Africa vorrebbe addirittura vendere Lampedusa...).</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Il meccanismo è abbastanza semplice: «mostrate un popolo come una cosa sola svariate volte e quel popolo diventa quella cosa», per esempio un concentrato di terroristi assetati di sangue o un’orda di minacciosi predatori di donne e lavoro. «Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona». L’alternativa proposta non è però quella di rovesciare quella storia, come si fa con le statue dei personaggi scomodi, sostituendola con una storia opposta, altrettanto definitiva e altrettanto sospetta, ma accettare la possibilità di una pluralità di storie, persino sulle stesse vicende, perché la realtà è per sua natura complessa e controversa e non c’è punto di vista che possa presumere di riassorbirla completamente. Non mi pare, del resto, che si renda un buon servizio alle giuste cause se le si infioretta troppo, perché sarebbe un po’ come ammettere che, prive di trucco o di artifici, perderebbero quella credibilità che dovrebbe derivare dalla loro autenticità, con tutto il suo carico di contraddizioni. Il che non vuol dire garantire semplicemente la proliferazione delle voci, se no finiremmo per ricadere invariabilmente nel dramma di questi giorni, in cui, prigionieri ciascuno di un’unica storia - la propria -, continuiamo in realtà a monologare e a dividere il mondo in fazioni inconciliabili, dichiarando preventivamente di stare con questi o con quelli, senza capire che una storia non può in realtà mai stare senza l’altra e – soprattutto – che una storia non è davvero una storia se manca un ascoltatore che la raccolga e sia disposto a farsi mettere in discussione da essa. Perchè mai dovrei infatti confrontarmi con qualcuno, se sono convinto di sapere già tutto quello che quel qualcuno avrà da dirmi? «L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia»: addomesticano, semplificano, riducono. Le storie hanno però questo di bello: se è vero che, quando si consolidano, possono diventare un macigno sotto il cui peso restare, non solo metaforicamente, schiacciati, al tempo stesso sono anche sufficientemente duttili per riaprire sempre e di nuovo gli orizzonti quando non sappiamo più dove sbattere la testa. Quante volte è accaduto che proprio l’inizio di una nuova storia ci abbia tirato fuori dall’abisso? Persino la rivelazione biblica, per chi ci crede, è assai più storia, con i suoi alti e bassi, anziché norma assoluta. E dunque non stanchiamoci mai di raccontare, ascoltare e divulgare quante più storie possibile: che ce ne rendiamo del tutto conto o no, sarà anche quella una forma di resistenza.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 10 novembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPnRYoUnqLTUyJqhzG7Qlda2E9fznSY1JeWhSuu20V8m7ShlNDUXnF8TsphDex1QNylG603uCq_6QgKGUngIBW6plbbGxN1akimKJc66Vqmv27vAJO_plK_9ArKdNDx0bbgNDa7GN52Yb5GfieWkiBTz0f-vZe1OlF8DhIndgluqzTg5qKamURtWWBx00/s919/ngozi.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="919" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhPnRYoUnqLTUyJqhzG7Qlda2E9fznSY1JeWhSuu20V8m7ShlNDUXnF8TsphDex1QNylG603uCq_6QgKGUngIBW6plbbGxN1akimKJc66Vqmv27vAJO_plK_9ArKdNDx0bbgNDa7GN52Yb5GfieWkiBTz0f-vZe1OlF8DhIndgluqzTg5qKamURtWWBx00/s320/ngozi.jpg" width="187" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div>Chimamanda Ngozi Adichie</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Il pericolo di un'unica storia</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Einaudi 2020)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di A. Sirotti</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">48 pp. | 7 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>The Danger of a Single Story</i>, TED Conference, 2009)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-47369166486399533752023-10-02T21:48:00.010+02:002024-01-22T22:49:10.620+01:00La pietra della follia<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;">Sinceramente, poteva forse uno come me, che da ragazzetto osava intitolare al grande Chtulhu persino le sue squadre di fantacalcio, restare insensibile al richiamo di un libretto in cui due totem quali Lovecraft e <a href="https://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Philip%20K.%20Dick" target="_blank">Philip Dick</a> vengono celebrati per la loro capacità di rendere conto, meglio di chiunque altro, del cronico disorientamento cui il nostro tempo sembra averci condannato? “Gli uomini di più ampio intelletto sanno che non c’è netta distinzione tra il reale e l’irreale”, scriveva l’uno nel racconto che solitamente apre il canone, e quante volte me la sarò ripetuta quella frase, mandandola a memoria, per giustificare un certo qual desiderio romantico, e in fondo innocuo, di evasione dalla prosaicità dell’esistente, prima di prendere coscienza, non senza sgomento, che pian piano siamo sprofondati per davvero in «un incubo collettivo e paranoico in cui non abbiamo più accesso al reale», proprio come in un romanzo dell’altro, e constatare che è tutt’altro che rassicurante viverci dentro. Mi tocca a malincuore contraddire Battiato: in quest’epoca di pazzi abbiamo più che mai bisogno degli idioti dell’orrore. Per la verità, sono ormai decenni che la cultura di destra ha arruolato Lovecraft tra le sue fila, sostenendo a grandi linee, e con qualche motivo filologico, che i mostri innominabili di cui popola le sue pagine non sarebbero altro che una proiezione fantastica della minaccia portata agli antichi ordini della buona vecchia Nuova Inghilterra dalla moderna società meticcia, eppure quanto maggiormente somigliano quelle creature orrende agli odierni profeti della non-ragione, ai seminatori d’odio, ai demagoghi di quarta tacca che solleticano le parti più oscure del nostro inconscio e gongolano di soddisfazione credendo di essere tanto più geniali quanto più rimestano con sordido piacere nella merda a caccia di becero consenso... Cari amici che condividete i miei stessi gusti letterari, ma non sembra anche a voi che il sovrapporsi delle solite vocette petulanti nei talk-show produca un suono terribilmente simile al gorgogliare ottuso dei flauti della corte di Azathoth? E non vi sembra di scorgere lo zampino sinistro di Nyarlathothep ogni qual volta il terrore tracima in violenza compiaciuta e disumana?</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;">Questo nostro mondo faticosamente scampato a un’apocalisse nucleare attende la ben più violenta onda d’urto di una crisi isterica che lo travolgerà definitivamente e siamo in tanti – ma a quanto pare non così tanti – a sospettare «che questa piccola fortezza, questa cittadella della ragione e dell’ordine che abbiamo costruito, sia completamente accerchiata, e che le sue mura, per quanto alte, possano essere facilmente sfondate, non solo dall’esterno ma anche dall’interno». Abbandonarsi alla sindrome da stato d’assedio è però già una forma di resa, mentre è proprio nell’ora del massimo pericolo che occorre mantenere la mente lucida. Questo saggio offre appunto delle intuizioni che potrebbero aiutarci a non farci prendere dal panico per quello che è un contraccolpo inatteso della modernità. Da almeno un paio di secoli, infatti, abbiamo affidato le chiavi del regno alla scienza, con la convinzione che in questo modo tutto sarebbe diventato finalmente più chiaro. Qualcosa, però, non ha funzionato. Da un lato, la complessità crescente delle interconnessioni globali e l’emergere di novità imprevedibili in quanto espressione di sistemi caotici e non lineari di cause sta determinando «un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione» di quel che ci circonda; dall’altro, e soprattutto, più spingiamo in avanti il nostro sapere e più scopriamo, contro ogni evidenza, che «la fiaccola della ragione non è più sufficiente a illuminare l’intricato labirinto che sta prendendo forma (...) intorno a noi». Anzi, «a mano a mano che la scienza lentamente dipana i misteri dell’universo, la realtà che si presenta ai nostri occhi è, per paradosso, ancora più difficile da afferrare. Se ciò che sappiamo aumenta, per così dire, alla velocità della luce, ciò che non capiamo prolifera alla velocità del buio, ossia non è costante ma cresce in modo esponenziale, come l’energia oscura che sta lacerando il cosmo».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;">Mefistofele, i patti erano altri. Per carità, la scienza ha smaltito da tempo la sbornia positivista e ha riconquistato la dovuta cautela, in quanto sa benissimo che deve procedere per prove ed errori e fare i conti con un mondo decisamente molto più strano di quanto si poteva immaginare, ma non è questo quello che vorremmo sentirci dire. Dal medico, come dagli antichi sciamani, agogniamo infatti una parola di guarigione, non ipotesi o congetture – e non appena ci sfiora l’ombra della complessità subodoriamo subito la truffa, poiché ci mancano gli strumenti per comprenderla. D’altronde, vivere in un mondo indeterminato prodotto da fluttuazioni quantistiche che non ci avevano necessariamente previsto è assai stressante, soprattutto dopo millenni di grandi racconti sorretti da una trama definita come in un romanzone ottocentesco, con un inizio e una fine ben precisi. «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento». E allora i folli che stanno prendendo il sopravvento non vanno considerati dei semplici squilibrati, ma come degli amanti delusi che, non potendo accettare che la loro donna li abbia traditi, si ingegnano con metodo a dimostrare che la realtà non può essere come effettivamente appare: è questa, appunto, la scomposta coerenza dei grandi complottisti, per i quali tutto torna comunque e c’è sempre uno schema in grado di spiegare facilmente ciò che i poteri forti vorrebbero invece farci credere inspiegabile. «Dopotutto, i sinuosi sentieri dell’irrazionalità possiedono una loro invitante, quasi organica bellezza, un fascino tentatore che le linee rette della logica e le banali connessioni causa-effetto di certo non possiedono». La follia è insomma l’ultima metamorfosi della volontà di potenza, un delirio di controllo che vorrebbe piegare la realtà alle nostre fantasie, perché non accettiamo l’idea «che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista». Sono invece sempre più convinto che diffondere strenuamente questa consapevolezza sia essenziale per salvarci.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(finito l'8 novembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEin_D0PD4rfZ-4kTZpgTOa8Un0-E5scMNH0VbgHTJ0Dujv57lyaBqKJxm6XoNH2RqHLUh1JYoRZ3cDqi2aDGyFp9LiZXLnfJOLVPBbIS67V6Ff-tBdzptKZ6pQKJi3lAezemd-9X_DcXKrhvdXovl3kBayLhyphenhyphenoqcEeb55jfiMBnJQCddJgoh1A71VEjNQ0/s636/labatut.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="636" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEin_D0PD4rfZ-4kTZpgTOa8Un0-E5scMNH0VbgHTJ0Dujv57lyaBqKJxm6XoNH2RqHLUh1JYoRZ3cDqi2aDGyFp9LiZXLnfJOLVPBbIS67V6Ff-tBdzptKZ6pQKJi3lAezemd-9X_DcXKrhvdXovl3kBayLhyphenhyphenoqcEeb55jfiMBnJQCddJgoh1A71VEjNQ0/s320/labatut.jpg" width="213" /></a></div><br />Benjamin Labatut</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: large;"><i>La pietra della follia</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: medium;">(Adelphi 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232;"><span style="font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">trad. di L. Topi</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">77 pp. | 5 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>The Stone of Madness</i>, 2021)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-24202256994587068372023-09-09T19:35:00.008+02:002023-10-01T18:19:40.339+02:00I grandi cimiteri sotto la luna<div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Per continuare in un certo senso il discorso, evidentemente anche della guerra di Spagna si può dire che è ben lontana dall’aver esaurito tutto quello che aveva da dirci, se un libro come questo, anziché retrocedere a semplice documento storico, conserva inalterata, a distanza di tanti anni, la sua urticante abrasività originale. Al suo apparire fu apprezzato moltissimo da <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Simone%20Weil" target="_blank">Simone Weil</a>, che vi ritrovò una profonda corrispondenza con quanto lei stessa aveva avuto modo di toccare con mano nella sua breve e deludente esperienza di combattente, nonostante l’autore, un cattolico conservatore militante, fosse ideologicamente ai suoi antipodi (ma probabilmente fu proprio tale paradosso a colpirla). Basti pensare che, quando Franco fece la sua mossa, Bernanos, allora residente a Maiorca, salutò con favore il tentativo di rovesciare quella repubblica progressista e anticlericale che lui, monarchico cantore di curati di campagna, certo non amava. Del resto, in quello stesso giro di anni, non pochi suoi connazionali con analogo pedigree, sedotti dalle parate di Norimberga, avevano ormai imparato a strozzare in gola tutto il violentissimo revanscismo antitedesco assorbito in gioventù e stavano cominciando a gridare con sempre maggior convinzione “meglio nazisti che rossi, meglio Hitler che Blum”.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">«Non avevo dunque alcuna obiezione di principio da sollevare contro un colpo di stato falangista o carlista. Credevo e credo di conoscere la parte legittima, la parte esemplare delle rivoluzioni fascista, hitleriana o anche stalinista. Hitler, Stalin e Mussolini hanno perfettamente capito che solo la dittatura avrebbe stroncato l’avarizia delle classi borghesi». Con la borghesia benpensante Bernanos ha infatti un conto aperto: come molti altri detesta di cuore la modernità che essa ha prodotto, con la sua ottusa fiducia nel progresso, la sua imbecillità diffusa (rischia di valere per tutti quel che a un certo punto dice, in modo folgorante, del povero, ovvero che «oggi non è più analfabeta: è rimasto ignorante»), il dominio della mediocrità conformista, l’appiattimento su valori puramente terreni, il considerare come totem intoccabile una democrazia che, nonostante il nome, nei fatti è solo uno scontro tra gruppi ristretti di potere, dal momento che «una vera democrazia del popolo è inconcepibile», a maggior ragione da quando la massificazione novecentesca ha fatto regredire il popolo, da spontaneo depositario di una saggezza antica e piena di buon senso, a massa anonima e facilmente manovrabile di individui intercambiabili. Il fatto stesso che una tale società abbia periodicamente bisogno di una guerra mondiale per riassestarsi è un segno inequivocabile che si tratta di un regime insostenibile e del tutto sbagliato. Probabilmente, nei suoi sogni, Bernanos vagheggia un ordinamento in cui cavalieri, sacerdoti e contadini cooperino armonicamente, stando ciascuno al proprio posto, come le persone della Trinità divina – e se ci fosse da impugnare la spada per rendere concreta questa possibilità sarebbe il primo, così dice, a gettarsi nella mischia. Ma sebbene per un attimo ci abbia creduto anche lui, la piega che prendono gli eventi non appena le Baleari passano sotto il controllo franchista gli mostra tutta un’altra storia, assai più meschina. Per cui decide di prendere quell’altra spada che gli è congeniale – la penna – e affonda questa durissima requisitoria, indirizzandola a quegli uomini d’ordine la cui angoscia per il tempo presente annebbia a tal punto la mente da impedire loro di capire che quella in cui si sono così gioiosamente arruolati non è affatto la buona battaglia, è anzi tutt’altro che una buona battaglia. «Non avevo nulla da dire alla gente di sinistra. Era a quelli di destra che desideravo parlare», e per farlo riversa su di loro quel linguaggio apocalittico che a loro piace così tanto.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Ciò che lo scrittore francese vede in quel «carnaio» che è diventata la Spagna, e che minaccia di essere l’«immagine di quel che sarà domani il mondo», non è infatti una guerra di principi buoni contro principi cattivi, e men meno che la crociata contro il Male benedetta dalla conferenza episcopale spagnola. Intendiamoci, «non è l’uso della forza che mi sembra condannabile, ma la sua mistica; la religione della forza messa al servizio dello stato totalitario, della dittatura della Salute Pubblica, considerata non come un mezzo ma come un fine». Certo, da una parte ci sono i rossi, con cui Bernanos non vuole avere nulla a che spartire. Ma dall’altra? Siete sicuri, dice ai suoi, che sotto le insegne del fascismo dilagante ci siano davvero i valori che pensate di difendere? O non siamo in presenza di un furto in piena regola, fatto sotto il vostro stesso naso, delle «parole magiche: giustizia, onore, patria» - e, peggio ancora, dell’appropriazione indebita del cristianesimo stesso e dei suoi simboli - allo scopo di dare una parvenza di presentabilità a quel mostro totalitario che è solo l’ennesima diabolica metamorfosi del moderno materialismo ateo e pagano? «Se c’è uno spettacolo da far vomitare, è quello dei monarchici francesi che mendicano i servizi della democrazia nella sua forma più bassa, e tuttavia nuova». Ma poiché nei vecchi principi ormai ci credono in pochi, alcuni «disgraziati» hanno pensato appunto che per difendere i sani principi di una volta occorresse sovraeccitare i «nervi a pezzi» degli «uomini medi» con lo spauracchio della rivoluzione sociale, senza rendersi conto di quale «spaventoso, demoniaco potere» sarebbero andati a evocare, giacché «è un grosso inganno pensare che l’uomo medio sia suscettibile solo di passioni mediocri»: tutt’altro, «con il sedere in fiamme, correrà a rifugiarsi in una qualunque ideologia da cui un tempo sarebbe rifuggito con orrore». Così si è firmata una cambiale in bianco a Hitler e Mussolini, ma quello che viene presentato come il nuovo esercito di Cristo è solo un aggregato di impauriti piccoloborghesi a cui è stata data una divisa e un buon motivo per sgravarsi la coscienza di ogni crimine, in virtù di un sedicente fine superiore. In questo modo, però, nazionalisti e clericali «compromettono grandemente la causa che vogliono servire, perché coinvolgono, a favore di alleati i quali nient’altro hanno da perdere che se stessi, preziose tradizioni, e persino il principio basilare dell’ordine, non potendo aspettarsi da loro che una resistenza cieca e astiosa contro ogni cambiamento». Perciò «non venitemi a parlare di crociata (…) giacché è mille volte meglio crepare che vivere nel mondo che state per costruire». Per quanto orrenda possa essere la società moderna, un mondo di picchiatori e gerarchetti è infinitamente peggio. Che abbaglio confondere la croce uncinata con la croce di Cristo!</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Chi, all’interno della Chiesa, avalla tutto ciò come ultimo argine contro un mondo che non crede più in Dio non capisce che «se Dio si ritira dal mondo, vuol dire che si ritira innanzi tutto da noi cristiani». «Potete ridere, cari fratelli, non sono i comunisti né i sacrileghi che hanno messo in croce il Signore», ma quelli che rientrano nella «categoria dei devoti». Un cristiano non può non provare scandalo per i prelati che, mentre nelle strade di Maiorca scorre il sangue di chiunque sia solo sospettato di simpatia per il nemico, non sanno far altro che recriminare dal pulpito perché solo pochi fedeli hanno partecipato alla messa di Pasqua, per il doppiopesismo che tutela sempre «il diritto di proprietà, al punto che è possibile difendere a fucilate la propria casa, anche se uno ne ha parecchie, mentre con gli stessi mezzi non si può difendere il proprio salario, anche se non si possiede altro», per la disinvoltura con cui, se a ricchi e malvagi si dà giusto un buffetto con «le vostre inoffensive lettere pastorali di Quaresima», non ci si fa scrupoli di benedire le mitraglie con cui saranno fucilati i poveri quando si ribellano – poveri che, quand’anche malvagi, non sono certo da considerare responsabili della crisi economica che li divora. Quand’è così, «si capisce benissimo come la povera gente diventi comunista». Saranno proprio costoro, anche se oggi vengono buttati fuori dalla comunità, a giudicare un giorno i loro attuali carnefici. Insomma, il terrore di sparire dal mondo – che è poi un’attestazione di totale sfiducia in Dio – e il desiderio di tutelare la propria rendita di posizione spinge la Chiesa in un abbraccio mortale con chi ha tutto l’interesse a concederle l’appalto sull’aldilà, purché l’aldiqua resti saldamente nelle sue mani – e questo è inaccettabile per un’autentica coscienza cristiana.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Spesso l’affermazione che la giustizia non è di questo mondo ha giustificato un sostegno peloso ai regimi più brutali: se siamo in una valle di lacrime, si dice, non possiamo pensare di eliminare l’oppressione e l’ingiustizia sociale. Con la stessa mano di carte, Bernanos cambia gioco: proprio perché «la società umana è piena di contraddizioni che non saranno mai risolte», nessun conflitto può mai essere presentato come “totale”, definitivo o risolutorio, come uno scontro di civiltà, un armageddon, una lotta per la vita o la morte, anche perché, quando si accetta questa premessa, la conseguenza immediata è la pratica dello sterminio, resa ancora più capillare dalla meccanizzazione della guerra moderna. «Gli uomini hanno già troppi motivi per rompersi la testa» senza dovergliene regalare altri. Con tutto ciò, conclude Bernanos, «io credo alla guerra santa, io la credo inevitabilmente, credo inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini liberi. L’espressione “guerra santa” non mi pare giusta, però, che a metà: i veri santi fanno raramente la guerra, e in quanto agli altri – voglio dire quelli che si vantano di esserlo – Dio mi preservi dal giocare la mia ultima carta in loro compagnia. Io credo alla guerra degli uomini liberi, alla guerra degli uomini di buona volontà. (…) Intendo, per uomini liberi, gli individui che vorrebbero soltanto vivere e morire in pace, ma che rimproverano alla vostra mastodontica civiltà di bluffare sulla vita e sulla morte. (…) Potete anche non prendere sul serio questi avversari sparsi qua e là per il mndo, secondo la volontà del buon Dio; non hanno neppure l’aria, a prima vista, di radunarsi, perché non appartengono tutti alla stessa classe, agli stessi partiti, e non fanno tutti la comunione. Uomini di buona volontà! Perché non miti, pacifici? Ebbene, sì, mi dispiace per voi che siano proprio i miti, i pacifici, a cui non va a genio il vostro benedetto mondo». Ne avremmo dannatamente bisogno di bigotti così, per i quali il mondo moderno sarà pure un mondo al contrario, ma che quando vedono qual è veramente la compagnia in cui sono finiti, e anziché trovarvi, come magari credono, Isacco di Ninive, Dante o Hegel, diradata la polvere, riconoscono gente come Feltri, Briatore o quella scriteriata con la maglia di Auschwitzland, abbiano la dignità di dire «ebbene, morire per morire, non credo certo che moriremo nelle vostre file».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">(finito il 23 ottobre 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">Ho parlato di</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjfqvYeYWAkldYAd1uBKix9Wk3uZkdpFiTMhkzJMMhWkke7ZpykF0ZC-jGjuDPGnQnoBkaHrMl_yqivZwnvRMvaLgVbhgeRYDllZ1VGBhPwAiVKdrQrOZdSkltbjK22xkKwE1-8tbwnMYr_MEkXlCGu9-B99NyCKi20U7uqko1UGZewPLwU3e2oXYWG2sI/s715/bernanos.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="715" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjfqvYeYWAkldYAd1uBKix9Wk3uZkdpFiTMhkzJMMhWkke7ZpykF0ZC-jGjuDPGnQnoBkaHrMl_yqivZwnvRMvaLgVbhgeRYDllZ1VGBhPwAiVKdrQrOZdSkltbjK22xkKwE1-8tbwnMYr_MEkXlCGu9-B99NyCKi20U7uqko1UGZewPLwU3e2oXYWG2sI/s320/bernanos.jpg" width="240" /></a></div><br />Georges Bernanos</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><i>I grandi cimiteri sotto la luna</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: medium;">(SE 2017)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">trad. di G. Spagnoletti</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">234 pp. | 25 €</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">(ed. or.: <i>Les grands cimetières sous la lune</i>, 1938)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><br />z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-75752904586640259602023-08-25T12:20:00.005+02:002023-08-25T19:01:56.533+02:00L'esile filo della memoria<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Provo un po’ di vergogna nel confessare che non avevo mai letto nulla di Lidia Rolfi e molta di più per aver pensato che quella vergogna dovesse ricadere su di me in quanto monregalese, anziché – come dovrebbe essere – in quanto italiano, se non in quanto essere vivente e pensante, giacché qui non si tratta evidentemente di esaltare una concittadina, per quanto meritevole di massima stima, bensì di riconoscere che un libro come questo, che riesce a tenere insieme l’immediatezza della testimonianza diretta di una ventenne, senza nulla concedere al patetico, e la lucidità della riflessione matura di una settantenne - una lucidità oltretutto calorosa, appassionata, tutt’altro che fredda, e proprio per questo fieramente antiretorica - meriterebbe senza dubbio di trovare assai più spazio nella nostra sbiadita memoria collettiva, per quel che racconta, ovvio, ma anche per le questioni, ancora attualissime, che pone e che lo rendono sorprendentemente moderno. Non so mai bene quanto siano efficaci le letture imposte dalla scuola (io che da studente le ho spesso rifiutate, quanto più le percepivo come “canoniche”), ma se quelle che propongono alle mie classi non dovessero superare la diffidenza degli allievi, i colleghi di italiano si consolino sapendo di trovare in me un discepolo docile, ancorché ritardatario. É proprio in questo modo, infatti, che ho colmato la presente lacuna.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Da come si apre il libro, uno potrebbe aspettarsi di trovarsi immerso in un clima d’euforia. In fondo la data posta in calce è quella del 26 aprile del ‘45, la guerra a un passo dalla fine, i lager finalmente aperti, il diritto di essere vivi non più insidiato dall’arbitrio di un qualunque sottoufficiale delle SS che gioca a fare Dio: a pensarci con raziocinio non ha nessun senso, ma la tentazione di immaginarsi questo momento come una grande festa collettiva, una sorta di gloriosa marcia dei redenti, è quanto mai forte. Basta però voltar pagina perché ogni ipotesi di melassa sparisca nello stesso fagotto in cui viene avvolto il corpo senza vita di una donna violentata e strangolata – e proprio non importa nulla che la vittima sia una donna tedesca, dunque una “cattiva”, e i suoi aguzzini dei soldati russi, ossia, in quel momento, dei “buoni”. Non lo è per noi, ma neppure per la giovanissima maestra, poi staffetta partigiana, poi internata che racconta costernata l’evento e che qualche motivo in più di noi per esigere una rivalsa ce l’avrebbe pure avuto. «La vendetta dei vincitori aveva ricominciato a reclamare le sue vittime e come sempre a pagare non erano le responsabili, le Aufscherinnen del Lager, ma quelle donne costrette a subire per vendetta lo stesso trattamento che altre donne, in Russia, avevano subito dai tedeschi invasori. La vendetta! Sì, qualche volta, nei momenti peggiori, potevo anche averla desiderata o almeno pensata, ma non così, non in quel modo, non a guerra finita. Quella notte stentai a prendere sonno. Quella notte mi è tornata tante volte, troppe volte, alla memoria, una goccia nel mare della vergogna della guerra, una goccia che non sono ancora riuscita a far evaporare, che non vuole evaporare, che emerge sempre quando vedo i mucchi di corpi senza vita dei Lager o quelli delle tante altre guerre che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il mondo».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Con questa amara constatazione comincia il complicatissimo ritorno di Lidia a quella sua vita “di prima” che non potrà mai essere una vita “come prima”, perché lei, nel frattempo, è cambiata tantissimo, mentre il piccolo mondo antico da cui era stata strappata con la forza durante una retata nazifascista no, e ora di una donna intelligente, grintosa ed emancipata come lei non sa proprio che farsene. Neanche un conflitto mondiale ha scardinato il principio per cui «le donne per bene stanno a casa, allevano i figli, servono gli uomini, oppure insegnano, ricamano, cucinano. Poi ci sono le altre e io avrei potuto essere una di quelle». Per la sua particolarissima storia di donna deportata – e deportata non per ragioni razziali, ma perché impegnata in prima persona nella lotta di Liberazione – non c’è spazio neanche nel racconto condiviso che comincia a costruirsi sin dalle prime tappe dell’odissea dei reduci, figuriamoci a casa, dove deve sopportare i rimproveri dei familiari e le maldicenze di quei vicini che la sanno sempre più lunga di tutti. Che tocchi fare i conti con quelli che vivono sicuri nelle loro tiepide case e pretendono di emettere sentenze sull’universo mondo dall’alto della loro sedia a dondolo, passi pure: Lidia ha le spalle larghe. Fa molto più male il disprezzo dei professori universitari che non sopportano il privilegio accordato ai partigiani di iscriversi con un anno di retroattività ai loro corsi e le regalano voti minimi con domande di una banalità umiliante («due mesi non bastano per preparare seriamente il mio esame»: così parlò il titolare di Storia della filosofia), e ancor più l’allusione di quel capo partigiano secondo cui «le partigiane si fanno uccidere, non si fanno prendere prigioniere» (sottintendendo, come tanti altri, un’infamante connivenza col nemico). Più di ogni altra cosa, tuttavia, brucia soprattutto l’esclusione dal diritto di voto il giorno del 2 giugno, quando, sì, le donne sono per la prima volta ammesse ai seggi, ma solo quelle che hanno compiuto la maggiore età (ventun anni, allora) da almeno sei mesi – non lei, dunque, che ventuno li aveva fatti ad aprile ‘46. «Avevo avuto il diritto di combattere in nome della libertà e della democrazia, ma ero immatura per esprimere il mio voto. Fascisti, collaboratori, borsisti neri, arteriosclerotici, analfabeti, anormali, votarono tutti, portarono i malati in barella e i ciechi con l’accompagnatore, votarono anche i moribondi e io li guardai salire in quello che avrebbe dovuto essere il mio seggio, invidiosa di quel diritto che a me una legge che sembrava ingiusta aveva sottratto». Non è l’unica incongruenza: quando, superato il concorso, potrà scegliere la sua destinazione definitiva, scoprirà che «le poche sedi in città erano tutte classi maschili, riservate ai maestri maschi. (…) Le quarte e le quinte maschili delle città, tutte sedi comode, accessibili con i mezzi pubblici, erano riservate ai maschi». Per lei e quelle come lei, pluriclassi vacanti in montagna o in alta Langa.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">A malincuore Lidia prende atto che la Resistenza ha prodotto figli e figliastri. Non era questa la giustizia «di cui si discuteva in montagna», quando, da fanatica adoratrice di Mussolini, era andata incontro a una rapidissima educazione politica, mettendosi in gioco in prima persona. La caduta del Duce ha solo portato a galla la pervasività di quella legge non scritta - assai più radicata del fascismo istituzionale, e in un certo senso garante del suo successo - che torna a stringersi intorno a Lidia come un cappio arcaico e patriarcale, soprattutto nel comparto scolastico, dove lei lavora, controllata e schedata da solerti funzionari insofferenti verso chiunque sgarri dalle buone vecchie tradizioni, anche se nei loro uffici ora è appeso il ritratto del Presidente della Repubblica anziché quello del Re. Tant’è che il dubbio le viene: «mi convincevo sempre di più che la liberazione era stata una gran buffonata, che i fascisti erano ancora tutti al loro posto e che forse avevano avuto ragione quelli rimasti alla finestra in attesa degli eventi». Non chiediamoci allora da dove saltino fuori i Vannacci: semplicemente, non si sono mai mossi di lì.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 10 ottobre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUws0UBr25OzBCEn4JQO-BZrkV4ZDi30FYGbakthoZmXQrPdm2EaKTEIoj-LA95FWfaAqr8aLpTCzTWVvfUZ7MHoq9dYkGzVH-Ux7R1c-X263en_eZD--vC1z0Sg8XtDLvCYcMqxliMXnQ3rymaftKTMJYd9MFZFPMvY8KAOmzkT6wd4MmC2Wg4wCAwPQ/s689/rolfi.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="689" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjUws0UBr25OzBCEn4JQO-BZrkV4ZDi30FYGbakthoZmXQrPdm2EaKTEIoj-LA95FWfaAqr8aLpTCzTWVvfUZ7MHoq9dYkGzVH-Ux7R1c-X263en_eZD--vC1z0Sg8XtDLvCYcMqxliMXnQ3rymaftKTMJYd9MFZFPMvY8KAOmzkT6wd4MmC2Wg4wCAwPQ/s320/rolfi.jpg" width="197" /></a></div><br />Lidia Beccaria Rolfi</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>L'esile filo della memoria</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Einaudi 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">230 pp. | 12 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: 1996)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-23914887081577896222023-08-04T10:57:00.008+02:002023-08-04T11:01:05.600+02:00Sette brevi lezioni sullo stoicismo <div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Per carità, se Rovelli lo ha fatto con la fisica quantistica, cosa ci sarà mai di così complesso da non potere essere ridotto nello standard ormai codificato delle sette, mi raccomando brevi, lezioni? Io, che non sono nessuno, lo stoicismo a scuola lo comprimo ancora di più – non è quello il problema. M’infastidisce però la sciatteria dell’editore, che a un redivivo Cartesio chiederebbe di integrare il manoscritto delle sue <i>Meditazioni</i> in modo da poterle intitolare anch’esse, appunto, <i>Sette brevi lezioni di filosofia prima</i>, per dare al pubblico l’impressione di un sapere a presa rapida e di facile consumo. Qui, però, le cose stanno un po’ diversamente. Degli stoici – e in particolare degli stoici di cui parla Sellars, che non sono tanto i fondatori, quanto soprattutto gli epigoni – si è in un certo senso costretti a parlare in breve, per il semplice motivo che qualsiasi parafrasi rischierebbe di apparire goffa come la spiegazione di una barzelletta.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">La teoria, in effetti, è piuttosto semplice. Spogliata di tutti i suoi presupposti fisici e metafisici, Sellars la riassume più o meno così, con parole che non a caso sono parzialmente riprese dalla peculiare grafica di copertina di questa collana: «e se qualcuno ci dicesse che molte delle sofferenze della nostra vita dipendono semplicemente dal modo in cui pensiamo le cose?». Pare l’uovo di Colombo. Se ci convincessimo davvero che il più delle volte non possiamo fare nulla per cambiare davvero quello che accade, ma siamo invece sempre in condizione di cambiare il nostro modo di vederlo, la felicità non sarebbe finalmente a portata di mano? In fondo dipende solo da noi scegliere se considerare un evento, che di per sé è solo un evento, un puro fatto – poniamo, la perdita del lavoro – «<i>come se</i> fosse un colpo terribile oppure <i>come se</i> fosse una sfida positiva». Analogamente, dipende solo da noi decidere come reagire a un atto di ostilità da parte di qualcuno. Se non reagiamo d’impulso, tirati per la catena dell’emotività, e ci mettiamo lì, con molta calma, prendendoci il tempo per riflettere, possiamo ad esempio capire che, se qualcuno che ci muove una critica dice il vero, «allora ha messo in luce una mancanza che possiamo ora affrontare. In questo caso, ci ha fatto un favore. Se ciò che dice è falso, allora è in errore e l’unico a essere danneggiato è lui. In entrambi i casi, noi non subiamo alcun danno dalle sue osservazioni critiche. L’unico modo in cui le sue osservazioni potrebbero causarci un danno reale e serio è se noi ci lasciassimo trascinare in uno stato di ira». Una volta che ci poniamo in questa prospettiva e non leghiamo più la nostra felicità a qualcosa che è al di là del nostro potere, «abbiamo il controllo su tutto ciò che conta veramente per il nostro benessere», saremo davvero liberi e nulla potrà più farci del male.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Ma per arrivare a una simile consapevolezza, se si ritiene promettente battere questa pista, non basta a volte una vita intera, altro che sette lezioni. Ci vuole esercizio costante, dedizione, metodo. «Se si smette di prestare attenzione ai propri giudizi anche solo per un attimo, si corre il rischio di ricadere in cattive abitudini. (…) Dobbiamo avere i nostri principi filosofici fondamentali sempre a portata di mano, così da non ricadere in giudizi errati. Questa è filosofia come pratica quotidiana e modo di vivere», qualcosa che assomiglia al discernimento religioso e che per le nostre abitudini moderne associamo più facilmente alla psicoterapia (ma d’altronde gli stoici stessi non esitavano a paragonare il filosofo a una sorta di personal trainer dell’anima, che predispone allenamenti adeguati per rinvigorire la mente anziché i muscoli). Anche Petrarca sosteneva qualcosa di simile, quando – in polemica con la stile filosofico dei cattedratici del suo tempo – incidentalmente fondò l’umanesimo moderno: a che ci serve saper distinguere analiticamente una per una le virtù, se non ci fornite gli strumenti per praticarle? Per raggiungere tale obiettivo non c’è altra via che la frequentazione costante e paziente dei maestri, così come all’uomo di fede non basta sapere che Dio c’è, ma occorre ruminare liturgicamente il vangelo per riuscire un giorno a vedere la perla nel campo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Per provare a dare un’idea di cosa significhi tutto questo (visto che lo studio della filosofia al liceo è anche un modo per saggiare stili di pensiero differenti), quando arrivo a trattare questa parte, di solito leggo in classe tre bellissimi brani di Epitteto, Seneca e Marco Aurelio e poi, a partire da quel che essi hanno scritto, propongo ai miei studenti questi tre compiti: provate a distinguere tra le cose che avete il potere immediato di cambiare e quelle su cui non avete questo potere (mitigo un po’ il rischio implicito di quietismo invitando a un più equilibrato realismo: difficile modificare all’istante il carattere di una persona che mi irrita, posso però fare in modo che mi irriti un po’ meno); fate ogni sera la “lista” del tempo speso, per verificare come l’avete impiegato; fate l’elenco delle persone a cui siete grate perché vi hanno insegnato qualcosa. Non ho mai verificato davvero quanti studenti abbiano provato a seguire la consegna, anche se temo pochi, perché poi alla fine è sempre più facile limitarsi a memorizzare qualche dato e provare a ripeterlo, pensando che quello sia studiare. Sellars, che a differenza di me è uno che fa le cose in grande, organizza invece da tempo le <i>Stoic week</i>, una sorta di grande raduno virtuale in cui “invita a vivere come uno stoico per una settimana”. Lui assicura che «dal 2012 più di 20000 persone hanno preso parte a un esperimento globale online per vedere se vivere come uno stoico per una settimana possa incrementare il senso di benessere. Il risultato sembra dire di sì». Ecco perché sette lezioni posson bastare: questo libro avrà raggiunto il suo scopo se ti viene voglia di andare subito a compilare il modulo per l’iscrizione.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 5 ottobre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGEOlVoKELGR_MLfV1-huS6n8UZDtpgbHADifqu7Rjt2kF9tITv6dlIgwdkpGxVNmI-u437_m_Tz8gL_eFSrTonVM8Z2ToeevRdc0Ci35Yk_3mF1sK3Sm7t-h3FXpoSB0KYrbjJfkAxaLwCLktvhCW1ANRacse1kJ5Gr68nnnxMmBSkD2xOCSjn3CSGKc/s920/sellars.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="920" data-original-width="536" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhGEOlVoKELGR_MLfV1-huS6n8UZDtpgbHADifqu7Rjt2kF9tITv6dlIgwdkpGxVNmI-u437_m_Tz8gL_eFSrTonVM8Z2ToeevRdc0Ci35Yk_3mF1sK3Sm7t-h3FXpoSB0KYrbjJfkAxaLwCLktvhCW1ANRacse1kJ5Gr68nnnxMmBSkD2xOCSjn3CSGKc/s320/sellars.jpg" width="186" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div>John Sellars</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Sette brevi lezioni sullo stoicismo</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Einaudi 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di A. Taglia</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">112 pp. | 12 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>Lesson in Stoicism</i>, 2019)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-82900740671998865522023-07-17T10:56:00.000+02:002023-07-17T10:59:18.079+02:00Dune<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Da ragazzino, desideroso com’ero di conoscere tutto il conoscibile e tuttavia consapevole di non sapere in realtà nulla del mondo (<i>ancora</i> nulla, mi piaceva credere, nella mia beata ingenuità), stimolato da un gioco venuto fuori quasi per caso facendo interagire fra loro i diversi pupazzetti che mi giravano per casa, per un certo periodo pensai che forse potesse valere la pena di forgiarmene uno tutto mio, di mondo, con la sua geografia, la sua storia e la sua mitologia, di cui fossi detentore unico e coscienza assoluta senza dover attraversare l’estenuante fatica del concetto. Vi centrifugai ciò che avevo saccheggiato dalle mie disperse letture, buttandoci dentro pure tutte le mie incipienti manie per le mappe, gli alberi genealogici, le lingue fittizie, e in generale per quelle ampie sezioni introduttive di giochi di ruolo a cui non avevo mai giocato e che chissà come mi erano comunque finite per le mani (non mi stancherò mai di sottolineare di avere avuto un’infanzia predigitale, quando le cose non erano così facilmente accessibili come oggi, specie in provincia, e certi incontri avevano davvero del miracoloso). Quel poco che ebbi il coraggio di sottrarre al piano della pura fantasia lo annotai su carta e purtroppo o per fortuna è pressoché del tutto andato perduto, salvo – ma queste vennero poi molto tempo dopo – le pagine iniziali di un possibile romanzo che in quel mondo avrei avuto intenzione di ambientare. Per un sussulto di lucidità o per mera pigrizia, però, non ci ho creduto abbastanza. Frank Herbert è invece uno di quelli che (come Asimov, come George Lucas, come Tolkien, come Eiichiro Oda) ci ha creduto fino in fondo e ne ha tirato fuori questo libro pazzesco che è <i>Dune</i>, con tutto il ciclo che ne consegue (per ragioni affettive gli preferisco pur sempre quello di <i>Hyperion</i>, che però senza <i>Dune</i> sarebbe stato inimmaginabile).</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Qui si entra pianissimo, a poco a poco, proprio come se il corpo dovesse prendere davvero confidenza con un’altra gravità o il respiro con un’altra atmosfera. Tecnicamente, credo sia la parte più difficile da scrivere, perché si tratta di spiegare una alla volta le regole d’ingaggio disponendo le pedine sul tavolo, non solo senza disorientarti troppo, ma facendoti già un po’ provare l’ebbrezza del gioco. Per me – che sono capace di apprezzare la cornice più del dipinto (anche se qui la distinzione è opaca, in quanto la cornice, in un certo senso, è essa stessa il dipinto) - fu un’esperienza folgorante, immersiva, affrontata tutta d’un fiato, tanti anni fa, prima di abbandonare inopinatamente la lettura di colpo - mi piacerebbe pensare perché abbacinato dalla grandezza della visione (qualcosa di simile mi è davvero capitato, con Melville, con Dostoevskij, con Proust), ma più probabilmente per qualche fortuita coincidenza della vita (andando a rivedere le date, credo ci fosse di mezzo l’esame di ammissione al TFA, che assorbì per mesi quasi tutte le mie energie mentali). La curiosità per il film di Villeneuve mi ha spinto a riprendere il filo e a seguirne lo sviluppo sino alla fine. Ed è stato in quest’occasione che ho scoperto che, superata la parte iniziale, poi il libro accelera, eccome se accelera. Certo non è brevissimo – sono circa 700 pagine nella mia edizione – ma a soppesarlo tutto, a lettura finita, non sembra veramente possibile che ci stiano davvero tutte quelle cose, lì dentro (tant’è che il film stesso, in due ore e mezza, riesce a riprenderne solo la metà, a occhio e croce).</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Naturalmente, come si conviene all’epica, che vive di archetipi, non tutti gli ingredienti sono originali. Abbiamo anche qui, come altrove, progetti segreti pianificati su scala cosmica e millenaria, frutto dell’interazione tra religione e genetica. Anche qui, come altrove, c’è un eletto e forse pure un’eletta che devono svelarsi al mondo, e la cui natura elettiva (almeno per lui) coincide con la precognizione di un possibile futuro in cui sembrerebbe responsabile di massacri di cui non vorrebbe macchiarsi – e dunque anche qui, come altrove, si assiste alla lotta tra un destino apparentemente segnato e gli scarti della libera individualità. Anche qui, come altrove, abbiamo un sistema politico feudalizzato, con casate in lotta per il potere, un imperatore truffaldino e gilde di commercianti che giocano una partita tutta loro. La stessa onomastica sembra voler veicolare subliminalmente qualche suggerimento: il protagonista e il suo clan sono infatti Atreides, esattamente come Agamennone e Menelao e tutta la loro stirpe di omerici parenti serpenti protagonisti di saghe e tragedie. Ma, esattamente come quando si beve un cocktail, ciò che si valuta è la capacità di far risaltare in modo nuovo gusti già noti, quel che suscita la mia infinita ammirazione è la padronanza, anche di dettaglio, con cui Herbert riesce a tenere tutto insieme in un universo coerente e intrigante, senza mai perdere ritmo narrativo.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Di specificamente suo ci aggiunge l’attenzione alla peculiare ecologia del pianeta Arrakis (alter ego di Dune), una sorta di gigantesco e inospitale deserto, dove i liquidi sono così preziosi che un atto come uno sputo è considerato un gesto di estrema cortesia, di cui non importerebbe nulla a nessuno, come avviene per analoghi scatoloni di sabbia della nostra Terra, se il suo sottosuolo non fosse l’unico luogo dello spazio in cui si trova il melange, una spezia capace di suscitare fortissime esperienze allucinogene e al tempo stesso necessaria per la navigazione spaziale, equivalente in un certo senso al petrolio per la moderna economia industriale (il libro esce pur sempre alla metà degli anni ‘60, e questo spiega in parte lo strano connubio tra psichedelia e terzomondismo). Tutto ciò rende il pianeta appetibile e conteso, ma solo in quanto oggetto di sistematico sfruttamento, come se questa fosse l’unica modalità d’interazione con l’ambiente praticabile dall’uomo. Su Arrakis vive però anche una popolazione autoctona, i Fremen, considerati da tutti gli altri popoli dell’Impero poco più che dei barbari. E invece è proprio all’interno di questa comunità periferica e schiacciata dalla storia galattica che nasce un’idea nuova. «Dobbiamo fare su Arrakis quello che non è mai stato tentato per un intero pianeta (…). Dobbiamo usare l’uomo come una forza ecologica costruttiva, inserire in questo mondo una vita terrestre, adattata: una pianta qui, là un animale, un uomo. Per trasformare il ciclo dell’acqua e creare un nuovo paesaggio». L’intero ecosistema di Arrakis può essere trasformato in meglio, con ricadute positive per tutti, se si abbandona la logica del profitto di chi arriva da fuori e si accolgono le intuizioni di chi vi ha sviluppato la propria originale cultura maturando con esso un’inedita forma di convivenza. <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Andrea%20Wulf" target="_blank">Alexander von Humboldt</a> avrebbe apprezzato molto tutto questo.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Al di là della sua capacità di generare intelligente godimento attraverso l’intreccio e il contesto, credo proprio siano questi temi a mantenere <i>Dune</i> in splendida forma, a distanza di sessant’anni. Più che il gusto di questo vecchio nerd, ne sia testimone l’entusiasmo di quel mio studente, appena maggiorenne (e, mi permetto di dire, proprio uno della “mia” cricca: ora fa storia), che i romanzi della serie se li è divorati tutti, uno dopo l’altro, con una tale voracità da spingere la lettura, tutte le mattine, fino all’inizio delle lezioni, e riprenderla, poi, quasi sempre, ad ogni suono di campanella. Niente da dire, caro Frank, hai proprio fatto centro.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 1 ottobre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhHYal6JVp33Qql4OLS4kUQAVUxE_SePAsSiq4Js3pjYcQjhr277xBde9JxkEWupZsTGVlti8cRvZgkmMVNCpn4rsPrLcTdjgzOSJ2kk5Eq7U_sSEs4irRlu2Tk5w1Ptdo83Jt_dfEWLs-TusV4_kY64qEFcdHBeslQ3ZO6VQm6annLbB66rMWrVQSDyiU/s552/herbert.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="552" data-original-width="355" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhHYal6JVp33Qql4OLS4kUQAVUxE_SePAsSiq4Js3pjYcQjhr277xBde9JxkEWupZsTGVlti8cRvZgkmMVNCpn4rsPrLcTdjgzOSJ2kk5Eq7U_sSEs4irRlu2Tk5w1Ptdo83Jt_dfEWLs-TusV4_kY64qEFcdHBeslQ3ZO6VQm6annLbB66rMWrVQSDyiU/s320/herbert.jpg" width="206" /></a></div><br />Frank P. Herbert</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Dune</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Fanucci 2012)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di G. Cossato e S. Sandrelli</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">700 pp. | 4,90 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>Dune, </i>1965)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-50427361602131024112023-07-10T12:44:00.003+02:002023-07-10T12:48:49.883+02:00Dante<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">L’ho già detto, lo sappiamo tutti, che non è per niente la stessa cosa leggere Barbero o ascoltarlo, ma il fatto che le sue performances dal vivo siano letteralmente fuori scala non deve indurci a pensare che i suoi libri vadano considerati come meri cumuli di carta straccia. Una volta entrato in questo ordine di idee, superato lo scoglio della <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/2023/04/la-battaglia-storia-di-waterloo.html" target="_blank">prima volta</a>, la seconda è venuta quasi da sé, anche perché la mia fissa sugli anniversari ha travolto facilmente ogni snobismo di fronte all’evidente marchettone per il settecentenario dantesco del 2021.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Della vita di Dante, per la verità, sappiamo bene o male tutto quello che si può sapere, comprese quali sono le cose – tantissime – che non sappiamo affatto e che difficilmente potremo mai sapere, perciò da un nuovo libro su Dante non ti aspetti tanto che metta per l’ennesima volta in fila gli eventi, ma che ti offra un’inedita chiave di lettura per interpretarli, a maggior ragione se il testo in questione, per quanto scritto da un noto divulgatore, ha l’ambizione di non essere meramente divulgativo, e se costui è uno storico a tutto tondo, e non uno storico della letteratura o un critico letterario, perché è probabile che il suo occhio possa aiutarci a vedere meglio qualcosa che altri magari non hanno adeguatamente sottolineato (e viceversa, ovviamente: perciò qualcuno potrebbe non trovare qui quello che s’aspetta). Non per nulla il libro non comincia il giorno della nascita di Dante, ma l’11 giugno 1289, quando di anni Dante ne aveva già ventiquattro e, schierato nella prima fila dell’esercito fiorentino, attendeva tremando l’inizio dello scontro contro gli odiati aretini nella piana di Campaldino. Scrive infatti Barbero che «per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua condizione sociale» - non direi per un rigurgito di materialismo storico, ma perché per Dante si tratta davvero di «una questione importantissima, da cui dipendevano la sua collocazione nella società fiorentina e i rapporti con i suoi migliori amici» - e per comprendere la posizione sociale di un uomo del Medioevo (e non solo) occorre spesso partire proprio dalla posizione da lui occupata in battaglia.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">E qui, però, cominciano le complicazioni. Perché, se «fuori d’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili», in una città come Firenze «chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento, e diventare un cavaliere a pieno titolo», imitando stili e vezzi di chi cavaliere lo era davvero da generazioni (e assumendosene anche gli oneri, come Dante scopre appunto sulla sua pelle quando viene arruolato). E dunque lui da che parte sta? É un nobile o non lo è? E se non lo è, che cos’è? Una parte consistente del libro prova appunto a rispondere a questa domanda – ed è qui, soprattutto, che viene fuori l’imprinting del medievista e la sua consuetudine a scartabellare atti duecenteschi di compravendita, rogiti, testamenti e fideiussioni. Ora, pur riconoscendo che «la considerazione più importante suggerita da queste carte è ancor sempre che non ne capiamo davvero niente: perché la cosa più importante, e cioè i motivi per cui questi soldi passavano di mano in mano, non è mai espressa», quel che se ne può concludere è che la famiglia di Dante – che aveva un cognome (gli “Alighieri”, ovviamente) e «avere un cognome significava appartenere a (...) una famiglia conosciuta e influente» - si collocava senz’altro nello strato superiore della società fiorentina del tempo, senza però essere davvero tra quelle più in vista, tanto che, pur essendo tradizionalmente guelfa, non fu messa al bando dopo la vittoria ghibellina a Montaperti, motivo per cui Dante stesso poté tranquillamente nascere a Firenze nel 1265. Gli Alighieri erano sostanzialmente «uomini d’affari, con le mani in pasta in tutte le occasioni in cui c’era da guadagnare qualcosa», e in virtù di questi affari avevano col tempo acquisito un patrimonio tale da permettere infine al loro ultimo rampollo di «vivere di rendita, perseguendo occupazioni aristocratiche» - ma non erano cavalieri. E questa condizione ambigua (“mezzana”, si sarebbe detto allora) segnò dall’inizio alla fine la vita e la riflessione di Dante, che non per nulla espresse «idee contraddittorie circa la nobiltà (…): diverse a seconda del momento, tanto da far pensare a un’evoluzione delle sue idee in proposito, e ancora di più a seconda che stesse affrontando la questione in termini teorici, oppure parlando molto concretamente di sé e della propria famiglia».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Se da un lato, infatti, egli cerca di retrodatare lo status raggiunto da sé e dai suoi inventandosi tramite il richiamo a Cacciaguida una genealogia nobilitante che non lo facesse apparire come un parvenu, dall’altra, però, polemizza apertamente con l’idea della nobiltà di sangue e, per una parte almeno della sua vita, si propone anche di elaborare un’immagine diversa di nobiltà, legata a valori spirituali e intellettuali. É proprio grazie alla letteratura, del resto, che lui stesso riesce a stringere rapporti duraturi con aristocratici “veri”, come i Donati o i Cavalcanti («Dante, se fosse stato solamente il figlio di Alighiero, l’avrebbero magari fatto sedere fra gli invitati più oscuri, ma siccome scambiava sonetti con loro, dava del tu ai figli dei cavalieri»), dai quali, però, lo separerà la politica, quando egli si schiererà apertamente con quella componente moderata della parte popolana sufficientemente ricca per essere inorridita «dalla dittatura della gente dappoco» e perciò «ben poco disposta a seguire il popolo minuto nella sua indiscriminata ostilità contro i grandi», ma altrettanto terrorizzata dalle violenze incontrollate dei magnati e pronta a scacciarli in caso di eccessi. Da questa scelta cominceranno tutte le sue sventure personali, ma forse sarebbe meglio dire la sua grande fortuna, perché sarà solo dopo l’esilio, e proprio grazie ad esso, che Dante potrà costruirsi quell’immagine di profeta universale che, com’è noto, non potrebbe mai funzionare nella tua patria, dove tutti sanno benissimo “chi fuor li maggior tui” (e al malizioso orecchio fiorentino dire “il figlio dell’Alighieri” sarà suonato più o meno come dire “il figlio del carpentiere”).</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Questa attenzione al retrobottega non ridimensiona affatto la grandezza di Dante, così come non lo fanno le oscillazioni, i pentimenti, i cambi di marcia, i cortocircuiti, le autoindulgenze a cui si abbandona soprattutto quando dovrà affrontare la difficilissima condizione di ramingo. Sono semmai proprio queste piccinerie, i pregiudizi, certe meschinità che contraddistinguono l’uomo del suo tempo a rendere ancora più affascinante il suo sforzo eroico d’etternarsi.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 14 settembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBzmAPB8ZrKFPkC9eVrTv5MONl3gQCcR1JR92jzj2ey4i04Ja8mm9c1ZQbBXNXM-GyhLsBCi_Sw3T5lj8xa1coS0RUpaFwV8NqdWTd1FaizSsYAwzuFWqhyT-1OaFlgqhddZnIPhWz-92os-TQWVwvGRRpyRBe-HuW_DkpmeNkOAL1EdFH6cglt4p-Bto/s904/barbero%202.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="904" data-original-width="600" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBzmAPB8ZrKFPkC9eVrTv5MONl3gQCcR1JR92jzj2ey4i04Ja8mm9c1ZQbBXNXM-GyhLsBCi_Sw3T5lj8xa1coS0RUpaFwV8NqdWTd1FaizSsYAwzuFWqhyT-1OaFlgqhddZnIPhWz-92os-TQWVwvGRRpyRBe-HuW_DkpmeNkOAL1EdFH6cglt4p-Bto/s320/barbero%202.jpg" width="212" /></a></div><br />Alessandro Barbero</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Dante</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Gedi 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">362 pp. | 13,90 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: Laterza, 2020)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-23722458508676210772023-06-17T17:36:00.004+02:002023-10-01T18:24:06.059+02:00Il treno per Istanbul<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Questo romanzo è un ben congegnato (forse fin troppo ben congegnato) meccanismo ad orologeria che adatta, in un certo senso, le tre classiche unità aristoteliche di tempo spazio e luogo all’epoca dinamica dell’elettricità: un treno lanciato in corsa da una città ben definita (Ostenda) e diretto verso un’altra città altrettanto ben definita (Istanbul, ovviamente) diventa infatti come un palco in movimento, su cui, atto dopo atto - ovvero stazione dopo stazione -, e scena per scena - ovvero vagone per vagone -, nell’arco di un paio di giorni appena, si inseguono, si incontrano, si avvicinano anche tantissimo e poi però per lo più si allontanano irreparabilmente, le vite di una serie di personaggi rappresentativi (forse fin troppo rappresentativi) di quell’Europa sull’orlo di una crisi di nervi di inizio anni ‘30, quando appunto il libro fu scritto. Profonde innovazioni stavano allora trasformando l’industria culturale. «I film (...) avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo disuguale dell’uomo, e l’incanto di una ciminiera che svetta verso le nuvole, per poi scomparire dietro altre ciminiere. Bisognava comunicare con la prosa questo senso del movimento». E così in effetti accade in queste pagine. Benché alcune delle scene chiave della storia si svolgano in esterna, abbiamo comunque anche lì inseguimenti in automobile, fughe, continui cambi di ambientazione, per non farci mai dimenticare la malinconica verità che un viaggio in treno ci svela sulla vita: «rocce, case e nudi pascoli indietreggiavano a più di cento chilometri all’ora, e c’erano ancora tante cose da dirsi». Qualunque cosa accada, per quanti incidenti di percorso possano rallentare la marcia, il mondo in realtà non si ferma mai ad aspettarci.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Mi pare sia questo l’indizio più evidente che Greene concepì metodicamente questo libro con lo scopo preciso di farlo diventare un film, un prodotto, cioè, il cui tempo di fruizione è deciso dal regista, non dallo spettatore, che vi si deve adeguare. Non è privo di ironia che egli affidi le sopraccitate considerazioni sul cinema a un fatuo scrittore, il cui intento vorrebbe semplicemente essere quello di «restituire salute e buon umore alla letteratura moderna. Troppe introspezioni, troppa malinconia. In fin dei conti il mondo è un bel posto, pieno di avventure» (ricordate quella battuta del <i>Caimano</i>? “É sempre il momento di fare una commedia…” - e qui siamo nientemeno che alla vigilia della presa del potere di Hitler). Eppure anche Greene ci vende la sua opera come un “divertimento”, sebbene l’originale entertainment credo esprima meglio il proposito di creare qualcosa che avvinca, sì, nei contenuti non meno che nelle forme, senza che debba essere per forza divertente. La morale della favola sarà anche a suo modo comica, ma di una comicità disperante («il mondo era un caos: i poveri morivano di fame e i ricchi non per questo erano più felici») e così l’epigrafe di Santayana, secondo cui «in natura tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo fato, e comico nella sua esistenza». Tale è effettivamente il mood del romanzo. A cui, curiosamente, capitò qualcosa di simile al tracciato di questa parabola. Vendette subito bene, permettendo a Greene di farci parecchi soldi, ma quando poi un film lo divento davverò – abbastanza in fretta, nel 1934, col titolo <i>Orient Express</i> – quest’ultimo si rivelò una dimenticabile meteora, immediatamente soppiantato, nell’immaginario collettivo, dal giallo di Agatha Christie ambientato sullo stesso treno e pubblicato nello stesso anno.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">L’idea era dunque nell’aria, come è giusto che sia per i prodotti, appunto, di intrattenimento (verso i quali – sia chiaro – non provo nessuna avversione, e che anzi tanto più mi affascinano quanto più questa loro capacità di fiutare lo spirito del tempo li rende poi utilissimi come involontarie fonti storiche). E sebbene nei due libri il viaggio proceda in direzione contraria (da ovest a est in Greene, da est a ovest nella Christie), in entrambi un momento cruciale della vicenda è legato a una sosta imprevista da qualche parte nei Balcani, una sorta di cuore di tenebra europeo su cui il treno scorre come un ponte sospeso tra i due lembi estremi della civiltà che congiunge (lo spirito di <a href="https://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Joseph%20Conrad" target="_blank">Conrad</a> aleggia abbondantemente su queste acque). Per intenderci, sono regioni in cui, senza che sia possibile avvistare case per chilometri e chilometri d’intorno, non si sa come, non appena i viaggiatori sono costretti a fermarsi, dal nulla sbucano contadini locali che provano a vendere loro qualsiasi cosa, un po’ come ci era capitato di sperimentare in viaggio di nozze sugli immensi altopiani andini del Perù. Qui una volta era tutto impero asburgico, ora invece il territorio è solcato da confini che ancora contano, eccome se contano, per quanto il treno possa apparire a prima vista come un mobile non-luogo capace di perforarli ad uno ad uno col suo incedere, lo stesso incedere di quella modernità che, inventando anche l’aeroplano e la finanza, ai confini sembra essere sempre più indifferente. Se ne accorgerà tragicamente uno dei protagonisti del racconto, il dottor Czinner, leader comunista jugoslavo in esilio, roso dai sensi di colpa e deciso per questo a rientrare in patria, a costo della vita, per trasformare il processo cui agogna in una tribuna mediatica e offrire messianicamente il proprio martirio come scintilla per scatenare la rivoluzione, ma che sarà giudicato invece da un’oscura corte marziale improvvisata dalle guardie di frontiera di Subotica. «Muoio per indicarvi la strada», afferma. «Ma, mentre parlava, la parte più lucida della sua mente gli diceva quanto fossero poche le possibilità che la sua morte avesse una qualunque efficacia».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Anche questo sacrificio verrà inghiottito nelle fauci della storia, senza lasciar traccia. Come se il viaggio fosse un singhiozzo, una sospensione nel respiro, superato il quale si riprende regolarmente la propria vita di prima, capita in effetti, quando si arriva infine a un meta, che non si sia poi neanche tanto sicuri che siano veramente accadute le esperienze vissute durante il tragitto. In questi grotteschi novendiali per la morte del faraone credo che in tanti ce lo stiamo chiedendo, se tutto ciò che ricordiamo di questi ultimi trent’anni sia avvenuto davvero. Purtroppo, almeno per noi, le macerie non mentono.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 5 settembre 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-GBnsHretJojvxIXI-7CO_OhYuPi8OvZfEE_3eCy-DHP3DG1ovSxlIc2dtgMr4Ac3hPNhGtmMK61TrtKShGac6zs_mTxQbBEvxg49tdgtMowQv7l-WaW7GWWtIgd94zv9NQKUjaUYHT8CatTTvURbr13LcxNmEqqxOFE6XAjGq4NJqiH_V6ZFHu1p/s313/greene.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="313" data-original-width="224" height="313" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi-GBnsHretJojvxIXI-7CO_OhYuPi8OvZfEE_3eCy-DHP3DG1ovSxlIc2dtgMr4Ac3hPNhGtmMK61TrtKShGac6zs_mTxQbBEvxg49tdgtMowQv7l-WaW7GWWtIgd94zv9NQKUjaUYHT8CatTTvURbr13LcxNmEqqxOFE6XAjGq4NJqiH_V6ZFHu1p/s1600/greene.jpg" width="224" /></a></div><br />Graham Greene</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Il treno per Istanbul</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Sellerio 2020)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di A. Carrera</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">352 pp. | 14 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>Stamboul Train, </i>1932)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-81271609342676377052023-06-01T12:18:00.002+02:002023-06-01T19:41:58.145+02:00Da animali a dei<div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Poco importa che non sia più in grado di recuperare la fonte esatta a cui pensavo, dato che analoghi articoli in cui si glorifica questo libro come uno dei testi imprescindibili del primo quinto di XXI secolo se ne possono trovare a decine. Ed effettivamente è vero che, ben prima di cominciarlo, l’avevo già sentito citare dalle persone più diverse e nei contesti più disparati da indurmi a pensare, quando poi mi sono deciso a leggerlo, di essere ormai l’unico sprovveduto a non averlo ancora fatto. Il successo editoriale è però un fenomeno ambiguo, assai più utile per misurare gli umori del pubblico anziché il valore di ciò che è stato scritto. L’esposizione alla ribalta attira inoltre le polemiche e polarizza le posizioni, giacché, più infervorati sono gli applausi, più feroci si levano anche le critiche (come quelle di chi liquida Harari come uno spregiudicato <a href="https://www.currentaffairs.org/2022/07/the-dangerous-populist-science-of-yuval-noah-harari" target="_blank">populista della scienza</a> in risposta a chi ne ha fatto quasi un guru spirituale). Ora che, in base alle regole che io stesso mi son dato, è arrivato – con consueto ritardo - il momento di dire la mia, ammetto che non ho ancora capito bene da che parte stare.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Partirei di qui. Circola in rete una recente, bellissima, <a href="https://www.youtube.com/watch?v=kyUGhPtbRRg" target="_blank">lezione</a> di Telmo Pievani incentrata sul perché mai proprio noi siamo rimasti l’unica specie umana sulla Terra. Fra le tesi che vi vengono argomentate c’è anche quella secondo cui non sarebbero state l’invenzione dell’atomica o la Rivoluzione industriale, come di solito si dice, a determinare l’inizio del cosiddetto “antropocene” (ovvero l’epoca geologica segnata irreversibilmente dall’azione umana) bensì un evento decisamente più remoto quale l’ondata migratoria che spinse i nostri antenati Sapiens per la seconda o terza volta fuori dall’Africa, all’incirca tra i 60 e i 40 mila anni fa, perché in effetti è proprio da allora che abbiamo cominciato a plasmare il mondo a nostra immagine e somiglianza, come ben si accorsero anzitutto le altre specie umane allora esistenti (i Neanderthal, i Denisova e i Floresiensis, almeno), che per prime dovettero fare i conti con la nostra improvvisa invadenza, dopo che per qualche decina di migliaia di anni eravamo riusciti a costruire con loro una qualche forma di pacifica convivenza (come testimoniano le frequenti ibridazioni attestate dal DNA conservato nei reperti fossili). Harari esprime mi sembra un concetto analogo quando scrive che, a partire dalla Rivoluzione cognitiva, per i Sapiens non si può più parlare di un «modo di vita naturale», in quanto la cultura ha soppiantato la biologia e ai tempi lentissimi della paleontologia è subentrato il tempo accelerato della storia, che ci ha fatto progressivamente aumentare sempre più il passo rispetto a quello dell’evoluzione genetica (creandoci pure qualche complicazione, dal momento che, anche se viviamo nei grattacieli, «il nostro DNA pensa ancora che siamo nella savana», perché non ha ancora avuto veramente il tempo di adattarsi a condizioni che, peraltro, mutano continuamente). Questo è appunto uno di quei libri che, come già a suo tempo quello di <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/search/label/Jared%20Diamond" target="_blank">Diamond</a>, ci invitano a ragionare secondo questa prospettiva, sempre piuttosto spiazzante, di lunghissimo periodo, e a considerare perciò tutto quello che è successo da allora in poi come parte di un unico processo scandito giusto da due, tre tappe veramente fondamentali, rispetto a cui tutto il resto è quasi irrilevante – e sebbene il suo autore, sorretto da indubbio talento divulgativo e da un’ostentata irriverenza, tenda effettivamente a dare l’impressione di vendere come se fossero sue trovate brillanti delle idee che magari non sono sempre farina del suo sacco, ciò non toglie che molte delle cose che scrive siano convincenti e condivisibili (e difatti me ne sono anche servito a scuola per parlare, ad esempio, di Bacone o di Rousseau).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Perno principale del suo ragionamento è che il motore di questo sviluppo (che non è necessariamente un progresso, se lo valutiamo in termini di felicità raggiunta, poiché «non è detto che nuove attitudini, comportamenti e capacità rendano necessariamente migliore la vita») non sarebbe tanto da riconoscere né in invenzioni materiali quali la ruota né in scoperte come la domesticazione del fuoco, bensì nell’acquisizione della straordinaria «capacità di creare una realtà immaginata traendola dalle parole». Una mutazione non ancora pienamente compresa ci ha consentito infatti di elaborare un linguaggio estremamente duttile, in grado non solo di comunicare l’esistente, ma «di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto. (…) In precedenza molti animali e molte specie umane erano in grado di dire: “Attenzione! Un leone!”. Grazie alla Rivoluzione cognitiva, l’Homo sapiens acquisì la capacità di dire: “Il leone è lo spirito guardiano della nostra tribù”. Tale capacità di parlare di fantasie inventate è il tratto più esclusivo del linguaggio sapiens», in quanto «ci ha consentito non solo di immaginare le cose, ma di farlo collettivamente. Possiamo intessere miti condivisi come quelli della storia biblica della creazione, quelli del Tempo del Sogno elaborati dagli aborigeni australiani e quelli nazionalisti degli stati moderni. Questi miti conferiscono ai Sapiens la capacità senza precedenti di cooperare tra grandi numeri di individui». Da decine di migliaia di anni, in sostanza, ci raccontiamo storie e crediamo alle storie che raccontiamo, al punto da essere disposti a morire per esse. Sono stati proprio questi grandi miti sociali sempre più estesi – il denaro, le religioni universali, la scienza moderna, il capitalismo –, attecchendo come dei meme nella nostra coscienza, ed anzi contribuendo decisamente a plasmarla, a creare le condizioni per l’approdo, dopo svariati ghirigori, a quella comprensione autenticamente globale e planetaria del mondo che trova oggi il suo pieno compimento e che ci permette di riscoprirci, appunto, come Sapiens.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Finzioni, dunque, ancorché potentemente performanti. Così, sarà pure morto Dio, ma tutta la nostra vita continua a basarsi sulla fede «in una perpetua crescita economica» che «va contro quasi tutto ciò che sappiamo dell’universo». Analogamente «i nostri sistemi liberali di politica e di giustizia» continuano a essere «fondati sulla convinzione che ogni individuo ha una natura interiore che è sacra, indivisibile e immutabile, che conferisce significato al mondo ed è la fonte di ogni principio etico e politico», quando «le scienze della vita hanno scardinato completamente questo credo. (…) Con sempre maggior forza, [gli scienziati] sostengono che il comportamento umano è determinato dagli ormoni, dai geni e dalle sinapsi, e non dal libero arbitrio – cioè dalle stesse forze che determinano il comportamento degli scimpanzé, dei lupi, delle formiche». Nonostante tutto quello che hanno potuto immaginare di sé attraverso i secoli, questi «animali insignificanti, il cui impatto sull’ambiente in cui vivevano non era superiore a quello di gorilla, lucciole e meduse», continuano cioè a non avere nulla di strutturalmente diverso da tutte le altre creature. Il tema è quantomai centrale e decisivo: ne va, per dirne una, del valore stesso di una cosetta come i diritti umani. Detto altrimenti, quel che chiamiamo umanesimo è oggi solo un’opera puramente nostalgica di retroguardia con cui cerchiamo di difendere privilegi ormai inaccettabili o il riconoscimento di un qualcosa di buono che, sia pure emerso in modo contingente, merita comunque di essere salvaguardato?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Harari sembra pensare che la nostra specie non abbia veramente nulla di così peculiare da garantirle l’eternità e che, come ci fu una soglia superata la quale sganciammo la nostra storia da quella degli altri uomini, così siamo probabilmente in prossimità di un’altra soglia che ci porterà oltre l’umano, a un livello che per noi oggi è letteralmente inimmaginabile, quando i processi mentali saranno trascritti in circuiti e la programmazione intelligente aggirerà gli estremi limiti biologici, consentendoci di mettere in scacco anche la morte. «Di rado la fantascienza descrive un simile futuro, perché una descrizione accurata di esso sarebbe per definizione incomprensibile. Fare un film sulla vita di un super-cyborg sarebbe come rappresentare Amleto per un pubblico di Neanderthal. I futuri signori del mondo saranno probabilmente assai diversi da noi, molto più di quanto lo siamo noi dai Neanderthal. Mentre sia noi sia i Neanderthal siamo per lo meno umani, i nostri eredi potrebbero essere simili a un dio». Non è chiarissimo se questo sia da intendersi come un monito, un auspicio o una semplice descrizione – ma la sensazione, leggendo soprattutto le pagine finali, è che per Harari questo scenario sia qualcosa di irreversibile a cui tanto vale prepararci per tempo (forse anche solo per il gusto, dal suo punto di vista, di poter affermare: ve l’avevo detto). La storia umana sarebbe dunque solo una lunga parasceve alla futura Pasqua cibernetica? Per uno che, a metà libro, scrive invece che «la storia non può essere spiegata per via determinista, e non può essere prevista perché è caotica» e che noi non la studiamo «per conoscere il futuro ma per ampliare i nostri orizzonti, per capire che la nostra situazione presente non deriva da una legge naturale e non è inevitabile, e che di conseguenza abbiamo di fronte a noi molte più possibilità di quante immaginiamo», mi sembrerebbe una ben curiosa conclusione. Forse alla fine chi racconta è rimasto abbagliato dal suo stesso racconto. Del resto, siamo o non siamo una specie credulona?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 19 agosto 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYI1p990d7yVOkFO6RGHBXT-EhSxlzPQ8dbT4CyyazqJqdSzEmrc4k_RTOobboSHB_apwuhtdyBiHroJ_d_8ii77Q1V9Cm72hqXeYZxN5eACyDp2zvDOHLnA3WKWJ5JuMvWaPPZ2IfreRr9SoptJJgW_SNw7uwvM45s8l-bCs-XcemvdK9CdoFnb2j/s1139/harari.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1139" data-original-width="765" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYI1p990d7yVOkFO6RGHBXT-EhSxlzPQ8dbT4CyyazqJqdSzEmrc4k_RTOobboSHB_apwuhtdyBiHroJ_d_8ii77Q1V9Cm72hqXeYZxN5eACyDp2zvDOHLnA3WKWJ5JuMvWaPPZ2IfreRr9SoptJJgW_SNw7uwvM45s8l-bCs-XcemvdK9CdoFnb2j/s320/harari.jpg" width="215" /></a></div><br />Yuval Noah Harari</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><i><span style="font-size: large;">Da animali a dei. </span><span style="font-size: medium;">Breve storia dell'umanità</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Bompiani 2014)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">trad. di G. Bernardi</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">533 pp. | 17 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>Kitsur toldot ha-enoshut</i>, 2011)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-14459040228542000462023-05-11T18:07:00.007+02:002023-05-12T15:52:35.595+02:00Dalla parte di Swann<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">In un libro di tanti anni fa, in modo non credo del tutto accidentale, il professor Maurizio Ferraris buttava lì la confessione che, tra i sedici e i ventidue anni, si era letto per ben sette volte tutta quanta la <i>Recherche</i>. Io che sono uno che si accontenta mi sono dato come obiettivo più modesto quello di leggerne per lo meno un volume all’anno, per sette anni, tra i quaranta e i quarantasei. “Quanto tempo perduto…”, mi si dirà. E invece no, perché se c’è un autore che davvero ti dà la sensazione che il tempo quantitativamente speso per leggerlo ti venga restituito decuplicato in profondità e spessore, quello è proprio Proust, con la sua capacità sopraffina di indugiare a lungo su un dettaglio apparentemente irrilevante per portarne alla luce sfumature che mai ti saresti neppure immaginato, se non ci fosse stato lui a svelartele, assicurandoti così che persino in un istante di distrazione, di quelli che passano di continuo senza che ci fai caso e vanno a formare come la preponderante massa oscura di cui è fatta la maggior parte della nostra esistenza, sono in realtà racchiusi infiniti mondi degni di esplorazione.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Vale, in un certo senso, quel che il narratore stesso osserva a un certo punto, a proposito delle sue letture estive nel giardino della casa di campagna: «quei pomeriggi contenevano più avvenimenti drammatici di quanti non ne contenga, spesso, un’intera vita», giacché la lettura «scatena dentro di noi nello spazio di un’ora tutte le possibili gioie e sventure che, nella vita, impiegheremmo anni interi a conoscere in minima parte». Solo che ci vuole molta pazienza, qui, perché è tutto così estremamente denso, e così poco interessante, del resto, lo sviluppo in sé della trama, che finisci per indugiare anche tu, con chi scrive, sulle raffigurazioni di una vetrata o sulle sfaccettature di un’emozione, al punto da trasformare la lettura in qualcosa di molto simile a quell’arte della <i>ruminatio</i> tipica della monastica <i>lectio divina</i> – o, se volete, all’immersione in un’immensa sinfonia, di cui si possono cogliere adeguatamente movimenti e motivi solo dopo un ascolto ripetuto e prolungato. Più che letta per arrivare alla fine, la <i>Recherche</i> andrebbe messa ogni tanto in sottofondo, come un disco. Così si può capire davvero la differenza che passa tra il mero consumo e l’esperienza che ti trasforma da dentro.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">E insomma, che volete che mi inventi di nuovo su Proust e sulla sua idea folle e apparentemente impossibile di riversare sulla pagina scritta tutte le fragranze della vita, con le sue incalcolabili e intrecciate sedimentazioni? Tra l’altro siamo appena all’inizio del viaggio e manca ancora il quadro d’insieme: circolano già un sacco di personaggi incredibili, di ciascuno dei quali viene colto almeno un aspetto che lo rende assolutamente memorabile (e tanto più quanto a prima vista esso appare ordinario, come, per esempio, la povera sguattera paragonata a un certo punto alla Carità di Giotto), eppure non saprei dire chi di questi resterà fino alla fine e chi no. Posso solo ipotizzare che fra i primi ci sia Swann, il ricco borghese ebreo così direttamente legato all’episodio che innesca il motore dei ricordi e la cui proprietà è una delle due “parti” verso cui potevano dirigersi le consuete passeggiate della famiglia del protagonista, opposta a quella degli aristocratici Guermantes, lontanissime fra loro, più che per la distanza chilometrica, per quella «che correva fra le due parti del mio cervello in cui le pensavo (…) l’una inconoscibile all’altra, nei vasi chiusi e non comunicanti dei differenti pomeriggi» (<i>La parte di Guermantes</i> è appunto il titolo del terzo volume, che leggerò, se Dio vuole, quest’estate). Quello Swann, dicevo, con cui il protagonista scoprirà di condividere «l’angoscia che si prova sentendo l’essere al quale si vuol bene in un luogo di piacere dove noi non siamo» - che mi pare, a naso, una delle chiavi di lettura del romanzo e una fonte zampillante di pena e di arte per il suo autore.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Di sicuro resteranno i luoghi in cui si sviluppano quelle passaggiate, e il villaggio che ne sta al centro, l’ipotetica Combray che, proprio come il campanile della sua chiesa sempre visibile da ogni parte della città e della campagna circostante, riaffiora continuamente nel ricordo del narratore, territorio geografico e allo stesso tempo, ma soprattutto, paesaggio dell’anima, giacché le pietre e i fiori che lo caratterizzano «hanno formato per me l’eterno volto del paese dove amerei vivere». Proprio per questo si va avanti adagio, gustando a piccoli sorsi: perché, come per un incantesimo prodotto dai lunghissimi periodi di Proust, non di rado la sua Combray trasfigurava nella mia Combray, con la mia “parte di Swann”, il cielo che avevo visto io, gli incontri che avevo fatto io, tutto quell’immenso sostrato, insomma, che costituisce la gran parte di quel che sono diventato e ripensando al quale ho cominciato anch’io a riconquistare almeno qualcuno di quegli anni solo apparentemente perduti che proprio oggi sono diventati in tutto quarantadue.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 13 agosto 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh8QBwk3dN8JlznZeFbHdEqdVjpNradUS5mB8enCW6kojCSuf5p74GDQO8uzZnsEVhVE5OvFDEu4jq5Ot5K60A4bK4AeYRC0Mb9dHu5bnRw_1IJa4q6t0ec-rrAlDYcSN4yzGVcWuLFcrJRHxdAjNlUCxO5GtkdQAlfbAMFMMtN3cPpvfLTJUYKmGpO/s1608/proust.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1608" data-original-width="1027" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh8QBwk3dN8JlznZeFbHdEqdVjpNradUS5mB8enCW6kojCSuf5p74GDQO8uzZnsEVhVE5OvFDEu4jq5Ot5K60A4bK4AeYRC0Mb9dHu5bnRw_1IJa4q6t0ec-rrAlDYcSN4yzGVcWuLFcrJRHxdAjNlUCxO5GtkdQAlfbAMFMMtN3cPpvfLTJUYKmGpO/s320/proust.jpg" width="204" /></a></div><br />Marcel Proust</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Dalla parte di Swann</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;">in M. Proust, <i>Alla ricerca del tempo perduto, </i>Mondadori, Milano 2018, pp. 3-285.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Trad. di G. Raboni</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">2058 pp. | 32 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>Du côté de chez Swann</i>, 1913)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-32538047506272863592023-04-17T09:22:00.010+02:002023-04-17T17:39:55.904+02:00La battaglia. Storia di Waterloo<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Alessandro Barbero è uno di quei pochissimi (come Piero Angela, Mattarella o il commissario Montalbano) per i quali sarei disposto a scomodare senza vergogna la famigerata etichetta di santo subito. Eppure l’assoluta intransigenza con cui abbandono qualunque cosa stia facendo, non appena il suo faccione sbuca sullo schermo, per raccogliere anche solo due o tre briciole di un suo qualunque intervento televisivo è andata per lungo tempo a braccetto con una non minore determinazione nel tenermi volutamente alla larga dai suoi libri, temendo l’inevitabile delusione di non potervi ritrovare la capacità affabulatoria di cui è assoluto maestro, essendo questa il risultato di mimica, gestualità e cadenze difficilmente replicabili in un testo scritto. C’è voluto il bicentenario di Waterloo, una nuova collana da edicola e un regalo di mia moglie in occasione dei miei quarant’anni per indurmi a compiere questo passo, nonché la curiosità di capire un po’ meglio come funziona davvero una battaglia napoleonica, avendone conosciuto qualcosa, fino ad allora, solo attraverso la penna sublime ma chissà quanto veritiera di <a href="http://labbaziaditheleme.blogspot.com/2021/01/guerra-e-pace.html" target="_blank">Tolstoj</a> e Stendhal.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Non si tratta evidentemente di una ricerca originale, né intende esserlo. Barbero - che proprio me lo vedo da piccolo, già coi suoi occhialetti, divertirsi un mondo a giocare coi soldatini distinguendo con cognizione di causa le rispettive divise militari come io avrei potuto riconoscere le diverse maglie delle squadre di calcio mentre le schieravo sul campo di Subbuteo – ha macinato per noi l’immensa bibliografia sul tema e ne ha ricavato la versione <i>expanded</i> (decisamente <i>expanded</i>) di una delle sue ormai celeberrime lezioni (dove la sua bravura si misura, appunto, nel riuscire a dare un’ulteriore giro di torchio a tutto questo pout-pourri di informazioni per condensarlo da par suo in appena un’ora, un’ora e mezza, di scintillante narrazione). Qui c’è pane abbondante per chi, come il sottoscritto, sebbene non abbia mai praticato in prima persona i war games, ha sempre trovato affascinanti mappe, miniature e in genere tutto ciò che contribuisce a trasfigurare la guerra da quell’indecente massacro che è in un puro gioco strategico, dal momento che tutto quel che accadde in quella giornata campale del 18 giugno 1815 (anzi, per la precisione, dalla sera prima alla notte dopo) è descritto al dettaglio, minuto per minuto, quasi come se si trattasse di una cronaca sportiva. L’accostamento non disturbi troppo, giacché lo si trova già nelle fonti. «Come molti gentiluomini inglesi, il duca [di Wellington] era un appassionato di pugilato, e gli veniva naturale descrivere una battaglia con il linguaggio di un incontro di boxe, come traspare da una lettera scritta a un amico qualche giorno dopo: “Mai visto un incontro fra due picchiatori così. Eravamo tutt’e due quello che i pugili chiamano dei ghiottoni” (un termine dello <i>slang</i> sportivo che designava chi non ha paura del corpo a corpo, e si lascia massacrare piuttosto che arrendersi)» (e sì, mi piace pensare che, in inglese, il termine in questione sia proprio <i>wolverine</i>).</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Il generale inglese allude qui ai prolungati assalti della cavalleria francese addosso ai quadrati della fanteria alleata, protrattisi incessantemente per tutto il pomeriggio, tra una scarica di artiglieria e l’altra – qualcosa come una ricorsiva ondata di marea che s’abbatte ininterrottamente sulla stessa scogliera, in un testa a testa in cui quel che più contava, alla lunga, era soprattutto mantenere i nervi saldi. Infatti, in battaglie nel corso delle quali, complessivamente parlando, «soltanto una pallottola ogni 459 colpiva il suo uomo» e le perdite erano perciò relativamente basse (oscenamente basse rispetto agli standard cui ci ha abituato la guerra novecentesca), ci si continuava a sparare, in mezzo al fumo, «finché la sensazione che il fuoco nemico fosse più efficace e che la soglia di pericolo stesse crescendo un po’ troppo non si faceva strada in uno dei due battaglioni, producendone lo sbandamento» - e a quel punto era quasi sempre la fine per chi cedeva, anche se, per paradosso, le sue forze fossero state numericamente superiori a quelle avversarie (perché non c’è santo che tenga, un reparto sbrecciato non lo potevi più ricompattare in nessun modo). Perciò, per tornare al nostro corpo a corpo, «se soltanto la cavalleria, osservando segni di sbandamento in un quadrato, magari composto da reclute, fosse riuscita a entrarci e metterlo in rotta, si sarebbe aperta una falla nella linea di Wellington; e se lo stesso successo si fosse ripetuto in diversi quadrati vicini, la falla sarebbe diventata impossibile da tamponare».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Non fu, insomma, una grandissima battaglia – non lo fu per il numero complessivo degli uomini impegnati (anche se - questo è vero - concentrati tutti in uno spazio minimo di pochissimi chilometri quadrati) e soprattutto per questo suo sviluppo abbastanza monotono. Ma a onor del vero, va detto che, stante la conformazione del terreno e il modo in cui si erano messe le cose, nemmeno un genio come Napoleone «avrebbe potuto tirarne fuori qualcosa di diverso». E sebbene i resoconti del giorno ci parlino di un Bonaparte «fin troppo apatico» e molti indizi lasciano trapelare che lui e i suoi generali non abbiano lavorato «con l’efficienza abituale in altri tempi», al punto di commettere alcuni madornali errori di valutazione, ciò che può suonare sorprendente alle orecchie di coloro per cui Waterloo suona come sinonimo di disfatta totale è che, in realtà, fino all’ultimo il suo esito rimase estremamente aperto. Anzi, intorno «alle due del pomeriggio, lungo lo <i>chemin d’Ohain</i> tra la Haye Sainte e la Papelotte, i francesi stavano vincendo la battaglia di Waterloo». Decisivo fu l’inatteso arrivo dei prussiani, che, costringendo i francesi a dirottare una parte consistente delle truppe sul loro fianco destro, ne smorzarono quello che avrebbe dovuto essere l’attacco decisivo lungo il fronte centrale, là dove gli inglesi erano ormai alle corde, dopo averle prese per quasi tutto il giorno. «I resoconti di tutti coloro che stavano nei quadrati fra le sei e le sette del pomeriggio sono così simili fra loro, da lasciare l’impressione che con una mezz’ora in più di bombardamento la linea di Wellington si sarebbe semplicemente sfasciata, senza che i francesi avessero neppure bisogno di attaccarla». Ma per dare quest’ultimo scossone sarebbero servite a quel punto forze fresche, quei vignaioli dell’ultima ora il cui compito era precisamente quello di starsene al coperto tutto il giorno per poi uscire ad assestare il colpo finale al momento opportuno. Truppe logorate da una giornata intera trascorsa in prima linea, infatti, «se ricevono l’ordine di andare avanti, marceranno, ma alla prima difficoltà tenderanno a fermarsi; (…) basterà poco, l’esplosione di una granata in mezzo alle file, qualche grido di panico proveniente da chissà dove, l’impressione che altri stiano battendo in ritirata, perché la riluttante avanzata d’un battaglione si fermi di botto, nonostante tutte le esortazioni degli ufficiali, e perché gli uomini comincino a sbandarse e a tornare indietro». Il problema è che, se al mattino Napoleone poteva contare su una riserva strategica di trentasette battaglioni in vista dello sfondamento risolutivo, nel tardo pomeriggio gliene restava solo più una dozzina, gli altri essendo stati appunto mandati a tenere a bada i tedeschi di von Blucher. Quel numero non si rivelò sufficiente e quindi finì come tutti sappiamo. Ma il fatto che l’esercito francese non abbia comunque perduto neanche un’aquila imperiale ci autorizza a pensare che, dopotutto, pur nella disfatta, la sua ritirata non fu del tutto priva di ordine: «in quella sera di giugno, i quadrati della Vecchia Guardia scrissero l’ultima pagina dell’epopea napoleonica, entrando direttamente nella leggenda».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Cos’altro c’è del Barbero che conosciamo in questo racconto? Direi l’attenzione per le vive impressioni registrate indelebilmente nella memoria di tutta quella varia umanità che si ritrovò lì, quel giorno, su fronti opposti, a giocarsi la propria vita. Ed anche alcuni dettagli, di quelli che ti piacerebbe sentire raccontare dalla sua viva voce, con quella stessa verve che consentiva a un altro santo subito come Gigi Proietti di rendere meravigliose anche le barzellette più sceme. Ne cito giusto un paio: la storia della carrozza di Napoleone, «con le ruote vermiglie e i vetri a prova di proiettile», acquistata poi da un imprenditore inglese ed «esibita al pubblico a Londra, dove pagando pochi scellini qualsiasi curioso poté provare l’emozione di sedercisi dentro» oppure l’accenno alla piccola Elizabeth Watkins, di appena cinque anni, che rimase tutto il giorno sul campo insieme alla madre, moglie di un soldato, aiutandola a strappare tela per farne delle bende e che era ancora viva, per raccontarlo, nel 1903. Senza trascurare un’intrigante ipotesi storiografica, avanzata proprio in chiusura di libro: nonostante l’innegabile «forza simbolica» che la battaglia di Waterloo ebbe per i contemporanei e che ancora si riversa su di noi, tanto da farci continuare a occuparcene con curiosità, non è insensato supporre che, se essa fosse andata diversamente, le cose sarebbero probabilmente cambiate giusto un po’ negli anni immediatamente successivi, ma «suppergiù dal 1850 la storia del mondo sarebbe stata identica a quella che conosciamo». Forse qui prende il sopravvento lo sguardo del medievista, con la sua tipica attenzione per la lunga durata. O forse la morale è che in fondo neanche Napoleone con tutte le sue armate avrebbe potuto arrestare l’avanzata del capitalismo in marcia, il vero vincitore della modernità.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 12 agosto 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXFGHGiWX4-2Z2IgeOQpvRBKDvbBZOr3gE__R5nlmmvyYaqYd_rfuRXzwlP1GiXz71HJgw4jAZNwsfVxDDKDPEJ6GMU2RBaS9efAK_SkbgEcZ6w5UkYYCI8_xPpwMrJntYFaJk6RtzidbI7bSivCUeGj6cgar4Z73lSyBdhh79SD_qy6Jap1jAaPSk/s1600/barbero.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="1600" data-original-width="1067" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjXFGHGiWX4-2Z2IgeOQpvRBKDvbBZOr3gE__R5nlmmvyYaqYd_rfuRXzwlP1GiXz71HJgw4jAZNwsfVxDDKDPEJ6GMU2RBaS9efAK_SkbgEcZ6w5UkYYCI8_xPpwMrJntYFaJk6RtzidbI7bSivCUeGj6cgar4Z73lSyBdhh79SD_qy6Jap1jAaPSk/s320/barbero.jpg" width="213" /></a></div><br />Alessandro Barbero</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>La battaglia.</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><i><span style="font-size: medium;">Storia di Waterloo</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Gedi 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">386 p. | 9,90 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: 2003)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-88357729302856109052023-03-26T12:42:00.006+02:002023-04-17T09:23:11.026+02:00Mussolini il rivoluzionario (1883-1920)<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Benché fossimo ancora immersi in pieno tripudio mariodraghista, subodorando che sarebbe potuta finire come poi è effettivamente andata a finire, e sapendo che, non appena si ritornano a evocare certi temi, salta immancabilmente fuori qualcuno che ti ingiunge di andarti a leggere De Felice, se vuoi davvero capirne qualcosa, anziché quei manuali veteromarxisti che ci hanno fatto studiare e che continuiamo a fare studiare a scuola, a un certo punto mi son detto che dopotutto forse De Felice valeva davvero la pena andarselo a leggere, se non altro per avere qualcosa da replicare a quelli che, evocandolo, sperano in realtà di troncare così il discorso, perché tanto chi vuoi che se la sia letta per davvero tutta la sua immensa biografia di Mussolini? E allora sotto col primo volume, affrontato con lo sguardo oserei dire candido di chi vorrebbe capire cosa ci sia mai lì dentro di così sconvolgente da poter suscitare folgoranti conversioni sulla via di Damasco - e dal quale sono uscito anzitutto con tantissime conoscenze in più, perché la messe è indubbiamente molta, ma ancor più con l’impressione che, almeno da queste prime seicento pagine, il moderno camerata non è che possa ricavare chissà quanto materiale per giustificare la sua venerazione per il Duce. Anzi. Però ora sono io che posso dire: questo lo scrive pure De Felice.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Il fatto che il tomo sia dedicato agli anni di apprendistato di Mussolini e la scelta metodologica di seguire passo passo gli spostamenti, geografici e ideologici, di quello che fu, a tutti gli effetti, un irregolare ci immettono praticamente nelle atmosfere di un romanzo senza che si dovesse attendere quello di Scurati. Al netto degli aneddoti più o meno curiosi (fra cui il mio preferito è forse quello del giovane maestro Mussolini che, assegnato alla scuola di Tolmezzo, non trova modo migliore per passare il tempo che travestirsi da fantasma e fare gli scherzi di notte nei cimiteri, perché di base è un romagnolo cazzone), ritornano tuttavia insistentemente osservazioni e commenti che, come pennellate ricorsive, consentono all’autore di delineare i tratti di un profilo umano e caratteriale ben definito. Studente assolutamente normale, che «non lasciava minimamente prevedere un grande avvenire», il giovane Benito è tuttavia precocemente animato da un desiderio di evasione «dal paese natio e dalla vita di tutti i giorni», che tornerà a manifestarsi più volte, quando le cose si sarebbero fatte incerte (ancora nel ‘19, dopo il disastro elettorale della lista fascista, avrebbe espresso il desiderio di buttare tutto a mare e «girare il mondo col mio violino: magnifico mestiere, il rapsodo errante!»; così come nei giorni concitati in cui D’Annunzio è a Fiume si informa su come potersi aggregare da giornalista al raid aereo Roma-Tokyo...). Il fatto è che «la sicurezza di sé, la convinzione di essere diverso dai suoi simili, lo rendevano incapace di rendersi conto delle difficoltà della vita e di vivere e di lavorare come uno qualunque, modestamente, e gli facevano rigettare la responsabilità dei suoi insuccessi e delle sue difficoltà sugli altri». Come accadrà anche per Hitler, la posa da superuomo è una bolla gonfia di puro risentimento: è proprio vero che, a volte, basta una persona che si monta la testa per far finire la festa. Perciò, se ai tempi della sua prima fuga in Svizzera (quella che gli riuscì meglio), Mussolini cominciò a farsi un nome negli ambienti socialisti, fu in sostanza perché, «psicologicamente incapace ad affrontare, come tante migliaia di altri emigranti, una modesta e dura attività di lavoro», sfruttò il fatto di avere un diploma per diventare un agitatore politico. Per lui la politica era in primo luogo «una maniera per sbarcare il lunario, per avere una certa autonomia e libertà – che un lavoro fisso gli avrebbe impedito di avere». Quali idee avesse in testa non lo sapeva bene neanche lui, ma un talento innato per fiutare l’aria che tira, quello non glielo si può negare: coniando sin da allora lo slogan “noi non abbiamo formule” - perché restare fermi su un dogma è la morte dello spirito, che deve invece perennemente muoversi, noncurante del principio di non contraddizione – trovò il modo di agghindare il proprio spaesamento con ornamenti filosofici allora à la page che gli consentiranno oltretutto di tenersi le mani libere per qualsiasi repentino cambio di rotta avessero richiesto le circostanze.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Mi si dirà che non si può giudicare l’uomo per le oscillazioni e le incertezze avute a vent’anni. Vero, ma la sensazione che resta, leggendo queste pagine, è che un vero e proprio programma di riferimento in realtà Mussolini non ce l’abbia mai avuto neanche a trenta o a quaranta, fuor che un vago nicianesimo concepito come estremo volontarismo e imposizione di se stesso (lo avrebbero già dovuto intuire i suoi compagni di partito, dato che il suo socialismo era tutto idealistico e la rivoluzione, per lui, «prima di tutto, un atto di fede»). Eppure è proprio in questa spregiudicatezza ideologica che sta la chiave del suo successo: se avesse avuto un pensiero più forte, o semplicemente un pensiero forte, probabilmente sarebbe stato travolto dagli eventi. «Mussolini percorse la sua strada passo a passo, giorno per giorno, senza sapere bene oggi cosa avrebbe fatto domani; ma è anche vero che su questa strada egli procedette con la viva consapevolezza dell’uomo politico che se non sapeva dove voleva arrivare sapeva però bene che, nella situazione dell’Italia d’allora, la sua strada non poteva che tracciarsela mantenendosi sempre aderente alla realtà e adeguandosi ad essa». Avendo capito per tempo (e gliene va dato atto) che tutto un mondo era lì lì per crollare, ciò di cui andò in cerca, negli anni turbolenti prima e dopo la Grande guerra, fu sostanzialmente una forza da poter manovrare a suo piacimento per dare la spallata definitiva al vecchio sistema e giocarsi le sue carte in quello nuovo che ne sarebbe venuto fuori. Questo è più o meno anche l’indicazione che ci offre, tra gli altri, uno che Mussolini lo conobbe molto da vicino come Nenni, in un passo che De Felice stesso giudica particolarmente acuto: «plebeo era e pareva volesse restare, ma senza amore per le plebi. Negli operai ai quali parlava non vedeva dei fratelli, ma una forza, un mezzo del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo».</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Presentatosi perciò come rottamatore del gruppo dirigente socialista, una volta svanita la possibilità di diventare una sorta di Lenin italiano e fallito il progetto di portare il partito sulle sue posizioni, Mussolini decise che la rivoluzione l’avrebbe allora fatta a modo suo. E qui la sua intuizione probabilmente più geniale e moderna fu quella di utilizzare il suo giornale per crearsi un suo pubblico - come altri avrebbero poi fatto impiegando blog e televisioni - inebriandolo con un linguaggio perennemente antinconvenzionale e sopra le righe. «Si può dire che lo stesso Mussolini ad un certo punto si trovò ad essere uno dei grandi protagonisti della ribalta italiana quasi senza accorgersene, per successivi adeguamenti, per successivi compromessi. Giornalista appassionato e ormai giunto a piena maturità, aveva dato vita ai Fasci, aveva assunto certe posizioni soprattutto per portare avanti l’“azienda” e, in definitiva, per “farsi una cuccia”; ad un certo momento si trovò alla testa di un movimento politico che aveva tirato su giorno per giorno con i suoi articoli (un misto di conformismo, di “fiuto”, di spregiudicatezza, di provocazione) e che improvvisamente gli si rivelò grande a condizione di seguirne la logica e di considerarlo la sua vera “azienda”». Solo quando questo capo in cerca di adepti incontrò un movimento in cerca di un capo quale fu lo squadrismo agrario – solo allora, conclude De Felice, nacque il «vero fascismo». Di nuovo, però, il talento di Mussolini non si misura nella capacità di elaborare una visione, quanto nell’abilità con cui, sposata la causa della reazione, riuscì a non esserne solo uno degli strumenti (come auspicato forse da alcuni), ma a «diventarne il fulcro, facendo degli altri il proprio strumento; cavalcare insomma, come si suol dire, la tigre e non esserne solo uno dei tanti denti di cui si può benissimo fare anche a meno al momento opportuno. E in questa lotta per la sopravvivenza Mussolini fu veramente maestro». Ennesima conferma che spesso a fare la storia sono quelli che si ritrovano col campo libero perchè quanti la storia pensano di averla perfettamente capita non li vedono proprio arrivare.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 30 luglio 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFTquunqeneWJnjrn1m4KXZeOkEVzr2bdCNEZUQ6kbXXdb05bNVmSYfJUjdl7xRQSQdP3RNkakA9VxpRgXGOCqAGENEp7uD91WMabuRMvRvVYbez8oDL-Jwi6Jt2bsKXMhzfktKnKMk4BjjDQXLO6tCZkRXZCzuvbiAsFJ8T-8M2QC061P2k0wgG-G/s499/de%20felice.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="499" data-original-width="358" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgFTquunqeneWJnjrn1m4KXZeOkEVzr2bdCNEZUQ6kbXXdb05bNVmSYfJUjdl7xRQSQdP3RNkakA9VxpRgXGOCqAGENEp7uD91WMabuRMvRvVYbez8oDL-Jwi6Jt2bsKXMhzfktKnKMk4BjjDQXLO6tCZkRXZCzuvbiAsFJ8T-8M2QC061P2k0wgG-G/s320/de%20felice.jpg" width="230" /></a></div><br />Renzo De Felice</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Mussolini il rivoluzionario </i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>(1883-1920)</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Einaudi 1965)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span>774 p. | ??? lire</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-34345016014446143442023-02-28T17:36:00.003+01:002024-01-22T22:48:48.977+01:00Il contesto<div style="text-align: justify;"><span style="font-size: large;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Tre anni prima che lo facesse Pasolini sul </span><i style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Corriere della Sera</i><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">, Sciascia aveva già pronunciato il suo personalissimo «io so», pubblicando un romanzo concepito come una parodia, iniziato «con divertimento» (perché, come sempre, in questo nostro povero paese «non è che non ci fosse da essere arrabbiati e da disprezzare. Ma c’era anche da ridere») e portato a termine, però, «che non mi divertivo più», forse perché l’«apologo sul potere nel mondo» che aveva in testa, «sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa», pur se ambientato in un paese di finzione, stava cominciando a diventare sin troppo simile alla realtà italiana del 1971 (o forse era stato così sin dall’inizio, ma è solo scrivendone che se ne era accorto davvero). L’operazione era oggettivamente arrischiata e risultò infatti contestatissima nella sua pretesa di essere contestuale: il meno che si attirò addosso fu l’accusa di qualunquismo, ma Raboni, per citarne uno tutt’altro che sprovveduto, arrivò addirittura a defìnire il libro «un raccontino scialbo e pretenzioso, incongruamente in bilico tra descrizione e allegoria, soprassalti pamphletistici e kakfismi di terza mano». Ebbene, col senno di chi arriva molto poi e non ne può più di quanti vedono trame occulte dappertutto perché l’hanno letto su internet, vien da pensare anche a me che, sì, forse si rende un servizio migliore all’intelligenza se la si applica nell’analisi circostanziata e filologica degli eventi, anziché nella delineazione di quadri d’insieme che rischiano di non spiegare nulla perché si propongono di spiegare tutto (del resto, anche il prototipo di tutti i <i>j’accuse</i> riportava nomi, cognomi e prove). Però tutto questo Sciascia l’ha fatto, e benissimo, in tante altre occasioni e, non trovandomi nella condizione di dover commentare un romanzo appena uscito, ma potendo al contrario considerare, in retrospettiva, l’intera sua produzione, mi tengo stretto il privilegio di poter prendere quanto qui scritto non come la sua parola definitiva, bensì come una semplice tessera di un mosaico ben più ampio – e provo a suggerne qualche spunto di riflessione.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Il racconto comincia con un morto ammazzato al termine della prima frase, cui se ne aggiunge subito un altro, due pagine dopo: in entrambi i casi si tratta di giudici, veri e propri “cadaveri eccellenti”, come li avrebbe definiti Francesco Rosi intitolando così il film tratto da questa storia. Dell’inchiesta viene incaricato un ispettore che l’inquisizione ce l’ha radicata fin nel nome, Rogas, persona con «dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva». E lo spunto di partenza è in fondo proprio questo: come potrà procedere un’indagine degna di questo nome in «un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava»? Questo Rogas, per un verso, presenta alcuni cliché tipici del detective da romanzo poliziesco («come ogni investigatore che si rispetti, che abbia cioè di se stesso quel rispetto che vuole poi riscuotere dai lettori, Rogas viveva solo; né c’erano donne nella sua vita», osserva Sciascia, quasi abbattendo la quarta parete, come farà altre volte in corso d’opera), ma per altri aspetti è un inquirente anomalo, uno che ragiona ad ampie volute sulle cose del mondo e che lavora ai propri rapporti con una cura tale da renderli incomprensibili ai burocrati chiamati a protocollarli, al punto da apparire ai loro occhi, ovviamente con discredito, come una specie di intellettuale (ed anche se Sciascia non poteva ovviamente immaginarselo, viene subito in mente Giovanni Falcone – magistrato, sì, ma prima ancora antropologo del fenomeno mafioso, ed anche lui spesso schernito per questa sua pretesa). Così, quando, pur in presenza di un’ipotesi promettente, dai piani alti gli viene chiesto di indirizzare invece le sue ricerche sull’immancabile pista anarchica (ricordo che all’epoca Valpreda stava ancora in carcere), Rogas capisce che il problema è ben più grosso di quanto s’era immaginato e che alla fine il sospettato numero uno, posto che sia il vero colpevole dei delitti, sarebbe comunque il meno colpevole di tutti gli altri attori coinvolti nella vicenda.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">A illuminarlo in tal senso è anche un confronto con il presidente Riches, ordinario di diritto e primo giudice di una qualche alta corte, il quale formula una compiuta teoria filosofica secondo cui l’errore giudiziario non è per definizione possibile, poiché compito della giustizia non sarebbe – dice lui - quello di verificare un’eventuale colpa, bensì di determinarla, in analogia con quanto accade nella celebrazione eucaristica, quando, al momento della consacrazione, la formula pronunciata dal sacerdote, foss’anche indegnissimo, trasforma realmente il pane e il vino nel corpo e sangue di Cristo. «Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile; praticamente impossibile, tecnicamente», così come non si possono esibire «prove oggettive» di nessun reato: anche se, da Voltaire in poi, andiamo raccontandoci che l’esercizio della giustizia consisterebbe nell’individuare le responsabilità personali di ognuno rispetto a un determinato codice di leggi, le cose starebbero ben diversamente. «La giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra», e come in guerra non cade chi se lo merita, ma semplicemente chi è meno fortunato, così i colpevoli non sono tali perché abbiano effettivamente compiuto qualche misfatto, ma semplicemente perché rientra fra le prerogative essenziali del potere imporre che vi sia un colpevole e indicare chi lo sia. In ciò consiste l’«ingresso di dio nel mondo. Il solo ingresso che il mondo consente a dio». Anziché essere il baluardo estremo opposto alla pura forza, il diritto non sarebbe perciò altro che la versione civilizzata dell’atavico sacrificio rituale.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Quel di cui si accorge Rogas, man mano che procede nella sua indagine, è dunque che «dentro il problema di una serie di crimini che per ufficio, per professione, si sentiva tenuto a risolvere, ad assicurarne l’autore alla legge se non alla giustizia, un altro ne era insorto, sommamente criminale nella specie, come crimine contemplato nei principi fondamentali dello Stato, ma da risolvere al di fuori del suo ufficio, contro il suo ufficio. In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo. Ma era in detenzione anche lui: non poteva che tentare di aprire una crepa nel muro». Che fare, cioè, quando è lo Stato stesso - l’istanza suprema che dovrebbe garantire l’ordine attraverso il rispetto delle leggi - ad assicurare, invece, quell’ordine tramite l’esercizio sistematico dell’illegalità? Occorrerebbe che lo Stato si facesse guerra da solo, ma, com’è noto, persino Satana, se si ribella contro se stesso, non può restare in piedi ed il suo tempo ormai è finito. Molto meglio eliminare i magistrati che si avventurano donchisciottescamente nelle zona d’ombra che tali devono restare – e già che ci siamo cogliere l’occasione per far fuori pure qualcun altro, così da sollecitare la consueta caciara funzionale al mantenimento dello status quo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Ricordo di aver letto qualcosa di simile in un libro del giudice Rosario Priore, là dove questi affermava, a commento delle sue inconcludenti indagini su Ustica, che esiste una sfera d’azione in cui ne va dello Stato stesso e alla quale perciò non sono applicabili le consuete norme giuridiche, ma di cui si può solo tentare una ricostruzione storica (e c’è forse un’eco di tutto ciò anche nel monologo che Sorrentino fa fare al suo Andreotti nel <i>Divo</i>). Solo che per Sciascia hai un bel chiamarla ragion di Stato o scomodare l’Altissimo: dal suo punto di vista, ciò che in questo modo spregiudicato verrebbe difeso non sarebbe in fin dei conti nient’altro che il mero esercizio del potere da parte di chi esercita il potere per il puro fine di esercitare il potere. Dove, però – e credo che questo sia stato, all’epoca, il boccone più indigesto da mandar giù per una parte del suo pubblico – tale potere è per lui una metastasi talmente ramificata da coinvolgere nella sua concreta gestione tanto il legittimo detentore, quanto il sedicente oppositore. Il ministro può così affermare, dando di gomito, che «il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale» (e tanti saluti al compromesso storico), anche se Amar, il leader dei rivoluzionari, «sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso». D’altra parte, il funzionario di quello stesso Partito Rivoluzionario, quando, con il suo aiuto, tutto verrà insabbiato, concluderà: «siamo realisti (…). Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione. (…) Non in questo momento».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Quanto ai contestatori extraparlamentari, che in teoria sarebbero immuni da questi maneggi, c’è assai poco da sperare in loro – e la mente torna nuovamente a Pasolini, questa volta al cantore di Valle Giulia, i cui versi riecheggiano in una poesia attribuita, nel romanzo, allo scrittore Nocio: «con arroganza ripetete a memoria / quel che non sapete / idee-spray schiuma di vecchie e nuove idee / (più vecchie che nuove) / che le vostre labbra squagliano e sbavano / come appena ieri in braccio alla mamma / - la mamma la mamma - / il gelato alla crema. E colano / dalle vostre barbe di protomartiri / coltivata impostura / finzione di una maturità che vi faccia / uguali al padre e idonei dunque all’incesto», eccetera eccetera. Questi sedicenti ribelli non sono altro che «dei cattolici vecchi, fanatici, funerari», che hanno riscoperto l’indice dei libri proibiti proprio nel momento in cui la chiesa lo sta riponendo nell’armadio. Anzi, «che peccato che la chiesa cattolica abbia tanta fretta di adeguarsi ai tempi: se si arroccasse, se tornasse ad essere chiusa e feroce come ai tempi di Filippo II, dell’inquisizione, della controriforma, costoro correrebbero dentro a sciami. Proibire, inquisire, punire: ecco quello che vogliono!». Oh che fastidio, per dispregio verso gli apparati, ritrovarsi schierati dalla stessa parte di questi minchioni!</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">«Robespierre che non aveva la barba / ride di voi della vostra rivoluzione». Eppure – ecco la sibillina profezia contenuta in questo libro – una rivoluzione ci sarà, anche se non saranno loro a farla. Lo Stato borghese sembra avere avuto fin qui una capacità di resistenza quasi inesauribile, ma sarà davvero così per sempre? Oppure lo squallido contesto messo qui in scena non è che il brodo di coltura di qualcosa di terribile che nessuno s’aspetta e che, quando diventerà operativo - e forse lo è già diventato - sarà comunque troppo tardi per essere fermato?</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 29 luglio 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-SeNBlAcXOMuHYPeE7PHO8M3x-Z67IWkBfFtpLWBy-d2QCNJq5t7yA1fMI6r7LgUIH0TalVIljVhbCuBucKf-L3afg4nFZ0qA6IgRq-jLnDm3j7cck_29LfhL5BKeP-eJ00oObZVVH8KJpikImos5cpHWmyLKGDqJduEtlgjLFOFUPl-GE66OyV8x/s936/sciascia%202.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="936" data-original-width="600" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-SeNBlAcXOMuHYPeE7PHO8M3x-Z67IWkBfFtpLWBy-d2QCNJq5t7yA1fMI6r7LgUIH0TalVIljVhbCuBucKf-L3afg4nFZ0qA6IgRq-jLnDm3j7cck_29LfhL5BKeP-eJ00oObZVVH8KJpikImos5cpHWmyLKGDqJduEtlgjLFOFUPl-GE66OyV8x/s320/sciascia%202.jpg" width="205" /></a></div><br />Leonardo Sciascia</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><i><span style="font-size: large;">Il contesto. </span><span style="font-size: medium;">Una parodia</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Adelphi 2006)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">114 p. | 10 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: 1971)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-63129997293193649822023-02-13T19:41:00.010+01:002023-02-13T19:57:44.928+01:00Piano meccanico<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Q</span><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">uesto libro comincia dal punto in cui di solito si concludono le favole. «Finalmente, dopo il grande bagno di sangue della guerra, il mondo era realmente libero da ogni terrore innaturale: fame, prigionia, torture, stermini di massa. Oggettivamente il sapere scientifico e le leggi internazionali avevano l’opportunità, lungamente attesa, di trasformare la terra in un posto nel complesso piacevole e confortevole in cui stare ad affrontare il Giorno del Giudizio». L’utopia ingegneristica positivista, alfine, ha prevalso, rendendo possibile l’istituzione in America di una sorta di paradiso terrestre tecnologico in cui non sono più le piante a produrre spontaneamente i loro frutti, bensì le macchine a fare tutto ciò che prima l’uomo poteva ottenere solo col sudore della sua fronte. «Dove gli uomini si erano scagliati un tempo l’uno contro l’altro urlanti, oltre a combattere sino all’ultimo respiro con la natura, s’udiva il ronzio, il brusio e il tintinnio delle macchine, che producevano componenti per carrozzine e tappi di bottiglia, motociclette e frigoriferi, televisori e tricicli: i frutti della pace». Non si potrebbe sperare di meglio, se non fosse che a scrivere queste righe è Kurt Vonnegut – e sebbene nel 1952, quando pubblicò questo suo romanzo d’esordio, non fosse ancora davvero <i>quel</i> Kurt Vonnegut che amiamo e conosciamo (soprattutto nello stile, non ancora apertamente anticonvenzionale) lo era già comunque quanto basta perché possiamo presagire che probabilmente non è tutto oro quel che luccica e che da qualche parte, lì in quel giardino futurista che trasfigura l’incipiente società del benessere post-bellica, stia già strisciando il solito serpente guastafeste.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Per aiutarci a mettere le cose nella giusta prospettiva, Vonnegut riprende, come spesso gli capita, la lezione delle <i>Lettere persiane</i>, registrando le impressioni che sulla società americana va via via maturando lo scià del Bharatpur, leader politico e spirituale di una imprecisata nazione orientale, uscito fuori dal suo palazzo arroccato fra i monti per venire a capire che cosa possa imparare il suo popolo dal paese più potente del mondo. É lui, ad esempio, a far notare al suo esterrefatto accompagnatore/traduttore (e ai lettori immersi in pieno maccartismo) che, a ben vedere, una società in cui la produzione è coordinata attraverso l’automazione per eliminare la competizione e lo spreco è semplicemente una variante di socialismo, giacché, quando è totalmente pianificato, anche il consumismo si rovescia in comunismo, sia pure di tipo non egualitario. Rientra fra le distorsioni paradossali del sistema anche la frustrazione dello scrittore di altissimo talento il cui libro non viene pubblicato perché «di ventisette pagine più lungo della lunghezza massima; il suo quoziente di leggibilità era di 26,3 (…) e nessun club toccherà mai nulla con un quoziente di leggibilità superiore a 17» - dove i “club” non sono altro che gruppi editoriali settoriali che, per rientrare nei costi di produzione, devono avere almeno mezzo milione di membri e offrire loro esattamente quello che questi ultimi si aspettano e che viene costantemente monitorato attraverso una fitta serie di sondaggi («santo cielo, pubblicare un libro che non piace alla gente farebbe fallire un club, così! (…) Riescono a offrire la cultura a buon mercato solo sapendo in anticipo che cosa vuole la gente e in quali quantità. E la gente ottiene esattamente ciò che vuole, sino al colore della copertina»). L’industria culturale funzionava già un po’ così allora, ma la componente satirica, pur presente in abbondanza, non mi pare la cifra dominante del testo, come non lo è quella puramente predittiva, benché si sia sempre tentati di giudicare i racconti distopici sulla base di quanto sarebbero riusciti ad anticipare del loro futuro, e benché lo stesso autore, in una sorta di microprefazione, ci metta su questa strada sostenendo che «questo libro non parla di ciò che è ma di ciò che potrebbe essere. I personaggi sono modellati su persone non ancora nate o forse attualmente in fasce».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">A me pare piuttosto che Vonnegut provi a sviluppare in forma narrativa, e a problematizzare, una sorta di doppia tesi filosofica. La prima è che un mondo in cui la produzione fosse pressoché interamente demandata alle macchine (oggi noi diremmo agli algoritmi, perché ci pensiamo derealizzati, ma il concetto è lo stesso) è un mondo che priverebbe gli uomini di qualsiasi speranza di felicità. Gli uomini, infatti, «per natura, secondo ogni evidenza, non riescono a essere felici se non si impegnano in attività che li fanno sentire utili», poiché il «sentirsi utili e necessari» è «la base dell’amor proprio» - mentre si smarrisce letteralmente la propria identità quando si partecipa, in qualche modo, all’economia globale, ma senza capire bene come. <i>Faccio dunque sono</i> – potremmo dire – e se non faccio più nulla, perché è una macchina a fare il lavoro per me, cosa dunque sono? «L’uomo è sopravvissuto ad Armageddon allo scopo di entrare nell’Eden della pace perpetua, con l’unico risultato di scoprire che tutto ciò che aveva sperato di godervi, l’orgoglio, la dignità, il rispetto di se stessi, un lavoro degno di essere fatto, è stato condannato come inadatto agli esseri umani». Tuttavia, sebbene questo testo sia stato tradotto una prima volta in italiano (nel 1979) con il titolo <i>Distruggete le macchine</i>, non siamo di fronte a una geremiade neoluddista (l’ironia di Vonnegut, anzi, colpisce anche le velleità naturistiche di chi a un certo punto vorrebbe scendere dalla giostra). Il vero nocciolo della questione – la seconda tesi cui accennavo – è che, proprio perché <i>faber</i> prima che <i>sapiens</i>, l’uomo pare strutturalmente condannato, per superare i propri limiti, a costruirsi strumenti che a lungo andare finiranno per rendere superflua la sua stessa presenza sulla terra. Sembra, cioè, che il destino della specie umana sia quello, del tutto paradossale anche in termini di selezione naturale, di lavorare per mettersi da se stessa in panchina, ovvero che l’uomo si trovi sulla terra «per creare delle immagini di se stesso più durevoli ed efficienti e, quindi, per eliminare qualsiasi giustificazione della propria esistenza nel corso del tempo» (la conclusione del romanzo, da questo punto di vista, è eloquente, come lascio scoprire a chi lo vorrà leggere).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Il senso dell’essere umano sarebbe dunque quello di essere soppiantato – e ci potrebbe anche stare, se non fosse che saremmo noi stessi a creare le condizioni perché ciò avvenga, tra l’altro non attraverso un’apocalittica autodistruzione, bensì al termine di un pacifico, progressivo e inarrestabile raffinamento delle nostre conoscenze – pardon, del nostro <i>know how</i>. Insomma, siamo una corda tesa tra la scimmia e il tostapane, almeno fin quando penseremo a noi stessi sul modello delle macchine che noi stessi costruiamo. Perciò, quando un personaggio si chiede «a cosa servono le persone?», si capisce che Vonnegut, che in fondo è un pessimista, vorrebbe farci rispondere, con lui, “in fin dei conti, a niente”. Ma poiché, in modo del tutto irregolare, ancor più in fondo, è pure un umanista, forse ce lo fa dire solo per renderci consapevoli che un’adeguata cura dell’imperfezione, e non il mito dell’efficienza, è l'unica cosa che ci può salvare.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 18 luglio 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgO0NGkRMgU65-C0iqlXUff56_87QdZZY1LPDuBf4BjY3kmtmU2c-OJz1YY678Wr60PdKXQmAmOSgk84QKs4OxqNUyPa_H16av_J0B6siesRGdssJpMdWH4epLUCOTsvmP4jlRqpjtHQI5fG9EoCSO3tJKil8FZG49mYK_OHb009SW4Ze-uSvBK4UTB/s577/vonnegut.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="577" data-original-width="341" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgO0NGkRMgU65-C0iqlXUff56_87QdZZY1LPDuBf4BjY3kmtmU2c-OJz1YY678Wr60PdKXQmAmOSgk84QKs4OxqNUyPa_H16av_J0B6siesRGdssJpMdWH4epLUCOTsvmP4jlRqpjtHQI5fG9EoCSO3tJKil8FZG49mYK_OHb009SW4Ze-uSvBK4UTB/s320/vonnegut.jpg" width="189" /></a></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div>Kurt Vonnegut</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Piano meccanico</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Mondadori 2000)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Urania 1393)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Trad. di A. Roffeni</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">362 pp. | 6.900 lire</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>Player Piano</i>, 1952)</span></div><br />z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-58426424029342941402023-02-02T11:47:00.008+01:002023-07-14T08:48:12.377+02:00Neanche gli dei<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Non ci avrei creduto neanch’io, se non l’avessi verificato in prima persona, ma pare proprio che fino all’inizio degli anni ‘70 nessuno abbia mai pensato di assegnare ad Isaac Asimov un premio per il miglior racconto o romanzo fantascientifico dell’anno – a lui, che la fantascienza non dico l’abbia inventata, ma è fra quelli che più ha contribuito a definirla e a renderla matura, guadagnandosi credito anche al di fuori della cerchia ristretta dei nerds e degli appassionati. Il problema è che, a quella data, già da più di un decennio Asimov aveva quasi abbandonato il genere per dedicarsi prevalentemente alla divulgazione scientifica, cosicché quella negligenza rischiava di diventare vergognosamente definitiva, appena mitigata dalla scelta di attribuire una sorta di "Hugo onorario" per la miglior saga di tutti i tempi al suo ciclo della <i>Fondazione</i>, nel '66. Sarà forse stato anche un po’ per questo che, quando nel 1972 il nostro è tornato alla letteratura – dice lui, per togliersi lo sfizio di raccontare una storia su un isotopo che non può esistere in natura e sconfessare così simpaticamente l’amico Bob Silverberg in seguito a una discussione avuta con lui a una convention – l’industria editoriale pensò bene di conferirgli per sicurezza quell’anno tutti e tre i principali premi allora esistenti, ossia l’Hugo, il Nebula e il Locus (che è come dire, per un regista, vincere per lo stesso film l’Oscar, il Golden Globe e la Palma d’oro al Festival di Cannes). A quel punto Asimov poteva davvero fare quello che voleva: non solo scrivere un romanzo per il gusto di togliersi un capriccio scientifico, ma anche farlo cominciare dal capitolo sesto, anziché dal primo, e dotarlo di una struttura complessa, suddivisa in tre parti nettamente distinte l’una dall’altra, con personaggi e ambientazioni diverse, sebbene legate fra loro da un comune filo conduttore (per cui, a tutti gli effetti, si tratta appunto di un’unica storia e non di tre distinti racconti). Il risultato è però tutt’altro che posticcio, ed anzi, letto a distanza di cinquant’anni, il libro acquista, se possibile, una vitalità ancora maggiore.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Tutto ciò, però, è assai poco rassicurante, se si considera che il titolo scelto da Asimov è un’allusione all’espressione schilleriana “contro la stupidità umana neanche gli dei possono nulla” – che è più o meno quello che tutti abbiamo pensato dopo aver visto un film come <i>Dont’ look up</i>. Il tema, del resto, è affine. Asimov immagina che l’umanità scopra per caso una fonte di energia pulita e apparentemente infinita, quando alcuni scienziati si imbattono in un campione di plutonio 186, che secondo le leggi fisiche del nostro universo non potrebbe esistere, e ipotizzano che provenga da un universo parallelo, “scambiato” con un analogo campione di tungsteno 186, che si presume abbia proprietà speculari (sia cioè stabile da noi, ma instabile da loro). Sottoposti alle leggi dell’universo in cui finiscono, i due materiali decadono, rispettivamente, l’uno nell’altro, innescando un meccanismo che lascio spiegare direttamente a lui: «il plutonio/tungsteno può compiere il suo ciclo all’infinito, avanti e indietro dal nostro universo al para-universo liberando energia prima nell’uno e poi nell’altro. Il risultato totale è il trasferimento di venti elettroni dal nostro universo al loro per ogni nucleo circolante, ma entrambi ricavano energia da quella che è, in realtà, una Pompa Elettronica inter-universale». Sembra la soluzione definitiva a tutti i problemi di approvigionamento energetico mondiale, ma non si può scherzare troppo con le leggi dell’entropia. Non esiste, infatti, una «strada che è in discesa nei due sensi». Qualcuno comincia allora a farsi domande inopportune e si allarma, perché capisce che questo continuo interscambio di materia tra i due universi potrebbe portare a una progressiva alterazione delle forze fondamentali del cosmo. La conseguenza è che a un certo punto il sole stesso potrebbe smettere di “funzionare”, con effetti facilmente immaginabili per l’umanità. Ma chi mai ha rinunciato alla propria gallina dalle uova d’oro perché messo in guardia da un’allarmata Cassandra? Tanto più se la catastrofe, posto che davvero ci sia, riguarderà qualche lontana generazione futura (“Perchè dovrei preoccuparmi dei posteri? Che mai hanno fatto i posteri per me?” diceva già Groucho Marx. E comunque i posteri oggi non votano). Da cui, appunto, l’amara conclusione: «è scoraggiante, davvero, la stupidità umana! Credo che non me la prenderei tanto se l’umanità si suicidasse a causa della sua crudeltà o anche solo per la sua temerarietà e imprudenza. Ma è così maledettamente poco dignitoso andare incontro alla distruzione per pura ottusità o stupidità! A cosa serve essere uomini, se poi si deve morire a questo modo?». Alla fine le leggi fondamentali della stupidità umana si rivelano insomma assai più forti di quelle della robotica.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Si dirà che – idea di partenza a parte – suona ormai tutto tristemente prevedibile (anche se più per colpa nostra che per colpa dell’autore). Ciò che non lo è affatto è la seconda parte del romanzo, che con uno stacco abbastanza netto ci proietta direttamente nel para-universo con cui siamo entrati in contatto, dei cui abitanti Asimov si diverte a descrivere, con sguardo etologico, la natura radicalmente aliena, sia sul piano fisico che comportamentale, riservandosi anche un gustoso colpo di scena finale. Questa sezione è ricca di dettagli e di finezze che meriterebbero più attente considerazioni, ma me ne resta solo un confuso ricordo. Mannaggia a me e al mio pudore che mi ha trattenuto dall’usare, in spiaggia, la mia solita matitina per riempire il libro di segni e sottolineature, senza l’aiuto dei quali un libro già letto diventa ostile e silente. Mi toccherà rileggerlo in una prossima estate, sempre che la stupidità umana non faccia finire il mondo prima.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 14 luglio 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgnyh2JL461Pe1lYUFRgOlqbpDC4wBMV7hQofvtg2cnmNsjNePQc5PPVUjgNVUSiQ_KKRdhz6iSx-2DCqo-SeO473Lw06hmmYDTT6XcuVQpd9WlAyid7NZYFyowjhSay_fGsFlXs-wYU6WF9zIa6kia561PWXN9E2CjqDKqjNnFDvmCLvxFOA1_MnV/s2171/asimov.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="2171" data-original-width="1400" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhgnyh2JL461Pe1lYUFRgOlqbpDC4wBMV7hQofvtg2cnmNsjNePQc5PPVUjgNVUSiQ_KKRdhz6iSx-2DCqo-SeO473Lw06hmmYDTT6XcuVQpd9WlAyid7NZYFyowjhSay_fGsFlXs-wYU6WF9zIa6kia561PWXN9E2CjqDKqjNnFDvmCLvxFOA1_MnV/s320/asimov.jpg" width="206" /></a></div><br />Isaac Asimov</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Neanche gli dei</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Mondadori 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Urania collezione 222)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Trad. di B. Della Frattina</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">284 pp. | 6,90 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>The Gods Themselves</i>, 1972)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-15063237691197743672023-01-20T17:25:00.009+01:002023-01-20T17:56:51.344+01:00Madrigale senza suono<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Da buon accolito della sodalitas battiatesca, quando sento nominare Carlo Gesualdo, principe di Venosa, non posso trattenermi dal completare il distico aggiungendovi subito che fu <i>musicista assassino della sposa</i>: l’uomo rientra, infatti, in quella selezionatissima compagnia di spiriti eletti che il Maestro ci ha fatto conoscere evocandoli nelle sue canzoni come antidoto all’insopportabile protrarsi della fine del mondo. Questa è stata però solo la scintilla che ha acceso la curiosità per un libro che brilla poi di una potente luce propria – sebbene questa luce duelli senza tregua, pagina dopo pagina, con una non meno potente oscurità, come avviene nelle tele di Caravaggio, che qui non a caso compare in un cameo (sotto forma di «pittore delle annegate»), accanto a Giordano Bruno (il «distruttore di madonne»), accanto al povero, irrequieto, Tasso, quasi a ricordarci che, se nell’età di Shakespeare in Italia non ci fu nessun autore che possa essere posto sullo stesso piano di Shakespeare, ci furono però decine di personaggi degni di essere protagonisti di una delle sue tragedie, spiriti perennemente sospesi tra il tormento e l’estasi e nei quali questa febbrile tensione generò un dinamismo al tempo stesso meraviglioso e fatalmente autodistruttivo. Meno noto degli altri, Carlo Gesualdo merita nondimeno di stare al loro fianco.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">«Io credo che se mai un uomo è stato realmente capace di perdere se stesso dentro qualcosa, ebbene, quell’uomo è il principe mio quando ascolta, e sembra entrare dentro un enorme tempio sonoro che lo avvolge, lo protegge, lo culla e gli fa dimenticare il mondo» - così lo descrive, ad esempio, un suo servitore. Carlo, tuttavia, non si limita ad ascoltare musica, ma la produce, ed anzi, per tutta la vita - non pago di essere riconosciuto come uno dei più grandi madrigalisti del suo tempo - appare letteralmente divorato dall’ossessione di trovarne una «mai ascoltata prima, che non avesse toni, che vagasse nell’infinito e nell’indistinto». Chi ha maggior competenza di me in materia assaporerà meglio tutti i dettagli tecnici di questa sfida, ma ne capisco quanto basta per intuire il travaglio di un artista che in punto di morte confessa di aver letto «libri che non si potevano leggere, e dentro questi libri si dicevano meraviglie, il mondo era più complesso di come io lo immaginavo e lo sapevo, era santo ed eretico insieme, era fluido e mutevole, era bello e feroce». Le sette note e i loro soliti accordi non sono più sufficienti per descrivere tanta magnificenza. Ahimé, «la musica non è infinita. (…) Infiniti però sono i mondi. Immaginate: esistono mondi, e sistemi che non sono questo, in cui forse i rapporti tra i suoni sono differenti, e molteplici, e inimmaginabili da chi, come noi, vede solo questa parte della creazione. (…) Io voglio che niente di ciò che ho fatto vada perduto, e voglio soprattutto fare mie tutte le combinazioni possibili e finora inesplorate. Voglio che in me si esaurisca tutta la musica possibile». Nientemeno.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Eppure quest’uomo ripropostosi di musicare «la voce di Dio», questo «meraviglioso tessitore di incastri», «questo genio fuori moda, che però ha immaginato, ben prima di molti altri, delle strade che la musica ha atteso secoli per percorrere», fu anche un omicida, e della peggior specie, uccisore della bellissima e amatissima moglie Maria d’Avalos, colta in flagranza di coito con l’amante, e con lui sventrata nel talamo, pur fra mille ripensamenti, per difendere l’onore del casato. Non sarà questo, peraltro, l’unico dramma patito da chi avrebbe «voluto soltanto poter cacciare e comporre» e invece si ritrova, dopo il delitto, a vivere quasi recluso nel maniero di famiglia, in un’Irpinia che assomiglia molto a come l’avrebbe potuta descrivere un esorcista dell’epoca, percorsa nottetempo da uomini-lupo soggiogati dalle streghe e puntellata di cavità fumanti simili agli sfiatatoi dell’inferno. Lo stesso castello dei Gesualdo, con tutte quelle stanze sotterranee da cui sembrano levarsi mostruosi lamenti, pare quasi la trasposizione fisica della psiche frantumata del suo ultimo signore. E insomma, vien facile chiedersi come può proprio un tale uomo «aver creato queste meravigliose cattedrali di suoni». La risposta che a un certo punto Carlo dà a se stesso, con un certo malsano autocompiacimento, è che «Dio ha voluto mandarmi il nutrimento di un dolore naturale, potente, che mi squassa nel corpo ma, sono sicuro, mi permetterà di comporre come non ho composto mai». E tuttavia, come imparerà sulla sua stessa pelle, «non si raggiungono certi abissi impunemente».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Ciò che fa di questo libro qualcosa di molto diverso dall’ennesimo romanzo storico – soprattutto dall’ennesimo romanzo storico in cui un personaggio più o meno famoso viene ingaggiato come detective – è la sua complessa stratificazione, oltre che l’assoluta qualità di una scrittura capace di reggere l’urto con l’indicibile. Del resto, Andrea Tarabbia ha indubbia personalità e non teme di misurarsi coi giganti: basti pensare che anche qui il punto di partenza, se non proprio uno scartafaccio, è comunque una presunta cronaca seicentesca. Con un gioco di specchi che sarebbe piaciuto molto a Umberto Eco, ma che è anche tipico dell’epoca barocca qui messa in scena, non è però per niente chiaro chi stia veramente raccontando la storia che ci viene proposta. Colui che, effettivamente, dice di farlo, ossia un servo nano e deforme del protagonista, «una creatura infelice» che però sembra visibile esclusivamente al suo padrone e solo vagamente percepito da fattucchiere o altri alienati – e che col passare della pagine si finisce per sospettare non essere altro che la proiezione di un grumo oscuro e informe presente nel cuore stesso di Carlo Gesualdo, nel qual caso sarebbe dunque egli stesso, obliquamente, l’autore delle sue memorie? Oppure Igor Stravinskij, che si dice essersi imbattuto nella cronaca in questione mentre stava lavorando alla sua riscrittura strumentale di alcune opere vocali di Gesualdo (il <i>Monumentum pro Gesualdo da Venosa</i>, appunto, eseguito per la prima volta nel 1960), e che quella cronaca si immagina annotare e commentare man mano, come se la stessimo leggendo noi per la prima volta con lui, ma che potrebbe averla in realtà scritta lui stesso per intero, fingendo solo di chiosarla, così da entrare più in sintonia possibile con la mente dissociata del suo protagonista e svelarne i suoi più inconfessabili segreti? Senza dimenticare, per restare sempre dalle parti di Eco, che pure qui si vagheggia di un presunto libro perduto, nella fattispecie il settimo volume dei madrigali di Gesualdo, nel quale l’autore, in una sorta di delirio, proclama di essere infine riuscito a fornire una partitura della sua musica impossibile – ma di cui, evidentemente, non c’è alcuna traccia documentata.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Affiora in questo ostentato inganno quasi una dichiarazione di poetica. Come già accennato, Gesualdo lamenta a un certo punto che «la musica presto finirà: si esauriranno tutte le combinazioni possibili tra le note, tutte le mescolanze di suoni, le dissonanze, le arditezze. Ogni cosa presto ci sembrerà la copia di qualcosa che abbiamo già ascoltato, e poi copia di copia, e poi copia di copia di copia. E così all’infinito, in un vortice che è quanto c’è di più vicino alla disperazione». A lui risponde implicitamente Stravinskij, quando afferma «che non esiste una creazione totalmente nuova, vale a dire che non appoggi su qualcosa che è già stato fatto prima di noi», aggiungendo, con una citazione nella citazione (questa volta da Picasso), «che il motivo fondamentale dell’arte non è la creazione, ma il dialogo, o il conflitto, con chi è venuto prima di noi». «Se non trovo resistenza, - conclude – ogni sforzo risulta inconcepibile: non si può costruire sul niente, qualsiasi lavoro risulterebbe vano». E non vale forse tutto ciò anche per la letteratura? Questo libro non va dunque preso come un resoconto attendibile della vita di un musicista cinquecentesco, né vuole esserlo, specie nel momento in cui vira decisamente sul visionario, quanto piuttosto l’esito del personale corpo a corpo intrattenuto con Carlo Gesualdo da Tarabbia, che in questo modo produce qualcosa che ricorda, sì, tante cose che abbiamo già letto (io ci ho ritrovato, per esempio, i sughi e gli umori di Camporesi, i tribunali della coscienza di Prosperi, nonché molti echi di quella letteratura medica rinascimentale su cui ho speso non pochi anni della mia vita), ma riesce ciò nonostante ad essere anche qualcosa di profondamente nuovo e diverso, attraverso cui possiamo comunque capire qualcosa in più anche di quell’epoca, perché se vogliamo davvero capire qualcosa non abbiamo altra scelta che provare a rifarlo.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Metto dunque da parte la mia consueta diffidenza verso le grida editoriali, che annunciano ad ogni uscita l’apparizione di un impareggiabile genio, e per una volta mi accodo al giudizio del risvolto del copertina, secondo cui questo è un romanzo importante, destinato a durare. Quantomeno, se lo meriterebbe.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 27 giugno 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghbeD5sEzML45ahJGcuD_KiMgBhxm5xNw3vb8UYwQqayZT-10c4cOMKlslrKIfI724k6YiMUN7gDamX8K-Ac95YsfDYCE98z6Mg1aO1WBCfeGzi3Hrp7fRc-_eHINjeBDYh_SYEu0Q0U1pjOLWHa8gSWQSxase2v83Q5_jVEM9PpavgzFMMYZjtlsq/s462/Tarabbia.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="462" data-original-width="304" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEghbeD5sEzML45ahJGcuD_KiMgBhxm5xNw3vb8UYwQqayZT-10c4cOMKlslrKIfI724k6YiMUN7gDamX8K-Ac95YsfDYCE98z6Mg1aO1WBCfeGzi3Hrp7fRc-_eHINjeBDYh_SYEu0Q0U1pjOLWHa8gSWQSxase2v83Q5_jVEM9PpavgzFMMYZjtlsq/s320/Tarabbia.jpg" width="211" /></a></div><br />Andrea Tarabbia</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><i>Madrigale senza suono</i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: medium;">(Bollati Boringhieri 2019)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">378 pp. | 16,50 €</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-32748883691303411532022-12-30T12:49:00.010+01:002022-12-31T13:02:45.417+01:002 giugno 1946. Storia di un referendum<div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Azzardo la previsione che quelle stesse altissime cariche dello Stato così solerti nel ricordare l’anniversario della nascita di un movimento neofascista saranno altrettanto pronte a celebrare, fra pochi giorni, il settantacinquesimo dell’entrata in vigore di una Costituzione antifascista, con la stessa impudenza con cui si pensa di poter cancellare le leggi razziali attraverso la consegna di un mazzo di fiori e la stessa nonchalance di chi fa finta di non capire che se volesse prendere davvero sul serio quella storia che dice di onorare dovrebbe mettere una bomba sotto il seggio più alto del Senato, anziché accomodarvicisi sopra e leggervi la <i>Gazzetta dello Sport</i>. L’indulgenza verso il Ventennio – che è in fondo una forma di autoindulgenza – arriva, del resto, da lontano. Ne fu primo protagonista lo stesso re Vittorio, quando provò inopinatamente a rifarsi una verginità il 25 luglio, liquidando Mussolini, sì, ma <i>con juicio</i>, come dimostra il fatto che nei gangli della pubblica amministrazione continuarono a esercitare la professione quelli che l’avevano fin lì fatto, senza particolari turbamenti, in nome del regime e nelle carceri, almeno fino all’8 settembre, continuarono a restarci quelli a cui, sempre in nome del regime, i primi avevano tolto la libertà (tutte cose, fra le altre, che spinsero Croce – e dico Croce, non Robespierre – ad affermare nel gennaio del ‘44 che «fin tanto che rimane a capo dello stato la persona del presente re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e a infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato, e insomma che, così, non possiamo respirare e vivere»). Un’Italia defascistizzata, almeno nelle forme, ma solidamente reazionaria, si pensava potesse piacere agli Alleati, probabilmente non era sgradita quantomeno agli inglesi e forse poteva davvero costituire un’ipotesi politica realistica, se è vero come è vero che il potenziale fascino esercitato dalla bella presenza del principe Umberto e di Maria José suscitò non pochi timori in chi contava di gettarsi alle spalle, coi fez e i littori, anche il sistema che ne aveva reso possibile l’ascesa.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">É più o meno questo lo scenario di cui si occupa il libretto che Federico Fornaro ha intitolato al 2 giugno 1946, ma che ricostruisce in realtà la complessa vicenda che sta dietro a quel referendum, a partire appunto dalla caduta del fascismo, in quei quasi tre anni di continue tensioni tra una monarchia ampiamente screditata ma disposta ancora a giocarsi il tutto per tutto per restare a galla, i partiti del CLN desiderosi di dare vita a un’Italia profondamente rinnovata anche sul piano delle istituzioni e le forze d’occupazione straniere interessate a far sì che questa transizione avvenisse senza troppi sussulti e colpi di testa. Libretto particolare, per la verità, leggendo il quale ho avuto infatti la sensazione di essere accompagnato da un virgolettato all’altro, come nei centoni che mi costruisco quando, dovendo affrontare un nuovo tema, comincio a copiare, incollare, tagliare, cucire, smontare, rimontare, aggregare citazioni ed estratti presi di qua e di là fra le mie letture, finché non mi sembra che dal caos emerga un qualche filo conduttore – il che lo rende più un patchwork compilativo che un originale contributo di ricerca, ma proprio per questo, paradossalmente, utilissimo, in quanto chi lo ha realizzato ha fatto per te il lavoro sporco di raccogliere spunti che saresti invece dovuto andarti a cercare in volumi diversi.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">Ed è proprio la voce in presa diretta dei protagonisti ciò che, in questi casi, incuriosisce maggiormente, in quanto non è detto che la percezione che i contemporanei avevano di quanto stava accadendo loro intorno coincida sempre con l’idea che ce ne siamo fatti noi a posteriori. Colpisce, ad esempio, soprattutto rispetto all’importanza epocale della questione, la scarsa rilevanza data dalla stampa all’introduzione del suffragio femminile, previsto già da un decreto emanato dal governo Bonomi prima della Liberazione (colpisce un po’ meno, invece, che chi ne diede notizia lo fece a volte, come <i>Il Resto del Carlino</i>, con titoli tipo “Mentre si muore di fame, ci si preoccupa del voto alle donne”: i redattori di <i>Libero</i> non hanno inventato nulla). Il timore che il voto alle donne potesse tradursi in una caterva di preferenze per conservatori e cattolici spiega almeno in parte la diffusione di questa freddezza nei partiti progressisti, quegli stessi partiti che si rivelarono peraltro anche i più titubanti nell’accettare il ricorso al referendum istituzionale, chiedendo che fosse invece demandata in toto alla Costituente la scelta del futuro assetto del paese. Sembra paradossale questa diffidenza mostrata verso il popolo proprio da parte di forze dichiaratamente popolari, ma è solo un segno delle ambiguità in cui sguazzano i populismi di ogni epoca e che mantiene viva nella cultura democratica la perenne tentazione della tecnocrazia. Poteva infatti apparire scontato che una popolazione impigrita dalla dittatura ed ancora sensibile agli ideali risorgimentali (le stesse brigate partigiane comuniste erano intitolate a Garibaldi, mica a Stalin) scegliesse in massa l’usato sicuro della corona sabauda anziché l’avventura inedita della repubblica – non per nulla erano i monarchici a spingere per il referendum – eppure accadde proprio il contrario, e fu un bene, perché, come infine anche i progressisti capirono, una repubblica partorita per alchimie di palazzo sarebbe stata infinitamente più debole e facilmente rovesciabile.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;">L’esito del referendum fu senza dubbio una sorta di miracolo laico che non cessa di sorprendermi. Come scrisse sul <i>Corriere</i> Calamandrei il 9 giugno ‘46, alla vigilia del pronunciamento definitivo della Cassazione, «mai nella storia è avvenuto, né mai ancora avverrà che una repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il Re». Che noi stessi fatichiamo a metabolizzare quanto accaduto lo prova implicitamente il ritornello sui brogli che di tanto in tanto salta fuori e a cui in molti immagino continuino a credere, nonostante sia stato ampiamente smentito dai fatti e dalla logica (l’apparato burocratico che avrebbe potuto falsificare i dati era in realtà ampiamente filomonarchico), come se fosse più semplice per noi rappresentarci ai nostri stessi occhi nelle vesti di inguaribili truffatori anziché riconoscerci autentiche virtù repubblicane. Eppure sappiamo essere migliori di come ci disegniamo. Dovremmo solo ricordarcelo più spesso.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">(finito il 25 giugno 2021)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;">Ho parlato di</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipXj8XAbItqONuu3pZLVABKuxRVyRd_PiTWsu45FgheDYv_KljLlAx3m9NMQPL4Jl93ed7-an91BurXnld8fjqb5pKLnpsaxhw-g8hqQD-MjEYn6UIGyHCDaxmqPHNrm7XCjdxC_TGB1sUkXbFL_gx_G_9bt5Bw4fl6mVZLsHt4TJde-OnTVFyDXhw/s719/Fornaro.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="719" data-original-width="424" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEipXj8XAbItqONuu3pZLVABKuxRVyRd_PiTWsu45FgheDYv_KljLlAx3m9NMQPL4Jl93ed7-an91BurXnld8fjqb5pKLnpsaxhw-g8hqQD-MjEYn6UIGyHCDaxmqPHNrm7XCjdxC_TGB1sUkXbFL_gx_G_9bt5Bw4fl6mVZLsHt4TJde-OnTVFyDXhw/s320/Fornaro.jpg" width="189" /></a></div><br />Federico Fornaro</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Open Sans";"><span style="color: #f1c232; font-size: large;"><i>2 giugno 1946. </i></span></span><i style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">Storia di un referendum</span></i></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;">(Bollati Boringhieri 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">208 pp. | 14 €</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-51882698791726221812022-10-28T19:24:00.003+02:002022-10-28T19:25:16.722+02:00All'inferno e ritorno. Europa 1914-1949<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">C’è una cosa che è opportuno sapere, prima di avventurarsi nelle oltre seicento pagine di questo libro (che peraltro è solo la prima metà di un dittico dedicato alla storia d’Europa dal 1914 ai nostri giorni), e cioè che, come onestamente riconosce il suo autore, «praticamente per ogni singola frase che ho scritto era disponibile una moltitudine di lavori specialistici, spesso di grande qualità», al punto che provarne a ricavare anche solo una bibliografia minima sarebbe «come contare i granelli di sabbia», un’impresa ai limiti dell’insensatezza. Non credo sia un’iperbole. Anzi, in fondo è un’ovvietà, soprattutto agli occhi di chi nella vita ha svolto un minimo di ricerca, eppure riconoscerlo chiaramente, una volta superata la vertigine e il senso di smarrimento per la consapevolezza che non riusciremo mai davvero a sapere tutto quello che ci sarebbe da sapere, aumenta il senso di gratitudine per quegli storici autorevoli come Ian Kershaw che, giunti sulla settantina, provano a rifondere in una sintesi relativamente agevole tutto quello che ritengono di avere capito dopo una vita di onorati studi, consentendo anche a noi dilettanti di orientarci meglio in questioni più grandi di noi. «Ciò che questo libro ha di originale riguarda dunque esclusivamente la struttura e l’interpretazione: il come la storia è scritta e, a un livello più profondo, la natura dell’argomentazione». Nessun contributo inedito, perciò. Poco male: tenere in pugno tutto quanto è umanamente possibile, organizzato per temi e capitoli, così da averne un quadro coerente e non rapsodico, è in fondo l’obiettivo di ogni insegnante. E a ciò serve, appunto, un libro come questo.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Qual è allora la sintesi che resterà quando, fra dodici secoli, sui manuali di storia si dovranno condensare, non dico in seicento, ma in due pagine, questi eventi per noi ancora così vividi? Potremmo dirla così: «uno dei cliché prediletti dei commentatori delle partite di calcio, quando dopo l’intervallo si verifica un rovesciamento delle sorti della gara, è che si tratta di una partita “spaccata a metà”. É forte la tentazione di pensare al Novecento europeo come a un secolo “spaccato a metà”, forse con un tempo supplementare dopo il 1990». In quel lontano futuro, presumibilmente, si scriverà perciò che in quei quarantacinque anni compresi tra l’attentato di Sarajevo e la divisione delle due Germanie, in quella «catastrofica, quasi suicidaria» prima metà di XX secolo, l’Europa arrivò a un nulla dall’autodistruzione, salvo poi riprendersi e imboccare, almeno nella sua parte occidentale, una strada di inaudita prosperità, durata lo spazio di un paio di generazioni, prima che nuove crisi rimettessero in discussione risultati che apparivano acquisiti e riaprissero pozzi avvelenati che ci si era illusi di avere sigillato, sussurrando il sospetto che nell’inferno da cui in qualche modo ci si era tirati fuori si possa tornare a sprofondare da un momento all’altro. Ma poiché, per intanto, siamo ancora pienamente nel cono d’ombra del XX secolo, a cento anni esatti dalla marcia su Roma, provo a spremere da questa lettura qualche contributo più spendibile per orientarsi nel tempo presente. Lo farò a mio gusto, consapevole che si tratta di una selezione opinabile.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Prendiamo, per esempio, la questione della pace. Nessuno, dopo il 1918, vuole seriamente riaprire le ostilità – nessuno, s’intende, a parte i nazisti. Le cosiddette democrazie occidentali hanno a cuore più di ogni altra cosa la stabilità e, per quanto essi siano «talvolta ripugnanti», se ne infischiano degli affari interni delle dittature che spuntano come funghi nell’Europa tra le due guerre, almeno finché non si vadano a minacciare i confini, e a volte anche oltre, come dimostrano i farseschi accordi di Monaco sventolati incautamente da Chamberlain dinanzi alla folla. Inglesi e francesi fanno di tutto pur di evitare lo scontro diretto, svendendo a Hitler pezzi di Europa orientale in base alla stessa logica che spinge oggi un Orsini a chiedere che si ceda unilateralmente a Putin tutto quello che vuole purché non sganci l’atomica (logica secondo la quale si dovrebbe coerentemente attribuire la responsabilità del secondo conflitto mondiale proprio ad inglesi e francesi, anziché ai tedeschi, per essersi di colpo inspiegabilmente irrigiditi sulla Polonia: se avessero ceduto anche su quella, la guerra forse non sarebbe mai cominciata e si sarebbero evitati un sacco di morti, per lo meno sui campi di battaglia, ma forse non nei campi di sterminio). La controprova è che, dopo la guerra, Franco e Salazar rimasero al loro posto – e ci sarebbe rimasto credo anche Mussolini, se non si fosse intestardito ad affiancare l’alleato tedesco. Salutare ingordigia nazista, verrebbe da dire, senza la quale, a forza di compromessi al ribasso, si sarebbero continuati a tollerare senza troppi scrupoli nel cuore dell’Europa discriminazioni e violazioni dei diritti come ogge li si tollera in paesi considerati amici come gli emirati del Golfo o l’Arabia Saudita. Kershaw sottolinea infatti chiaramente che, sin dal 1936, l’espansione militare era diventata ormai l’unica via d’uscita aperta alla Germania per sopperire alle spese e agli investimenti voluti dal regime, a meno di non scegliere un’impossibile (per ragioni ideologiche) “normalizzazione” del regime stesso. Essendo intimamente convinto che «soltanto la guerra – e l’acquisizione di nuove risorse economiche – avrebbe risolto i problemi della Germania», Hitler mise il suo paese nelle condizioni di non poter far altro che la guerra: splendido caso di profezia che si autoavvera. Ecco, ma un mondo in cui la svastica sventola impunemente da Acquisgrana a Konigsberg può essere davvero considerato un mondo in pace? Oppure aveva ragione Kant quando diceva che «la violazione del diritto in <i>un</i> luogo della terra viene sentita in <i>tutti</i>»? Siamo in grado, oggi, di pensare un ordine globale che possa tagliare alla radice le premesse di una futura catastrofe prima di arrivare alla lotta di tutti contro tutti?</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Secondo appunto. Ciò che garantì il successo dei regimi totalitari, soprattutto quelli di destra, fu la capacità di sfruttare gli strumenti messi a disposizione dalla democrazia per impiegarli in chiave antidemocratica, facendo passare l’idea che questo fosse «il volto moderno dell’arte di governare» (non senza pesanti responsabilità da parte di chi aveva contribuito a impaludare e svilire sistemi parlamentari che certo non erano sempre specchio di democrazia). Questa retorica continuamente riemergente mi fa più paura dei nostalgici coi busti di Mussolini nel salotto. Anche allora, infatti, «per buona parte della popolazione più che di un’entusiastica adesione al regime si deve parlare di un conformismo coatto (…) C’era in giro molta apatia e passiva accettazione di ciò che non poteva essere cambiato. (…) In pratica, l’idea di una totale compenetrazione di Stato e società non parve mai vicina a concretarsi. Il fascismo si dimostrò incapace di conquistare ampie sezioni della società italiana (…). Ma dove mancava la convinzione sincera c’era quanto meno l’acquiscenza. Gli italiani accettarono il regime, e vi si adattarono». É fuorviante interrogarsi troppo sui gradi del consenso, quando la pura inerzia produce lo stesso effetto, ed assai più a buon mercato.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;">Con questo vengo al terzo e ultimo punto: la difficoltà di fare i conti con il passato. I processi di Norimberga hanno avuto un alto impatto simbolico, ma anche l’effetto di isolare i mostri, garantendo una sorta di impunità, anzitutto di fronte alla propria coscienza, in chi non fu chiamato alla sbarra. In realtà, «la denazificazione della società tedesca era un compito non già semplicemente formidabile, ma irrealizzabile», in un paese in cui più di otto milioni di persone erano state iscritte al partito. Ma questo vale anche per fiancheggiatori e collaborazionisti di tutti i paesi, compresi quelli vincitori, come la Francia, per non parlare dell’Italia. «Lo sguardo rivolto al futuro doveva prevalere su una più completa opera di purificazione del passato. L’amnesia collettiva era la premessa della marcia in avanti». Così abbiamo cominciato a raccontarcela e a convincerci di essere stati magicamente prigionieri per vent’anni di un manipolo di matti giunti da Marte – e persino molti tedeschi, stremati da due anni di bombardamenti, quando ormai ne morivano a diecimila al giorno nell’immondo Ragnarok del Reich, cominciarono a percepirsi come vittime, dimenticandosi di aver «applaudito i primi successi di Hitler e gioito per le vittorie della Wehrmacht, mentre innumerevoli europei soggetti al giogo nazista soffrivano miseria e schiavitù, morte e distruzione». Ma dal punto di vista delle vere «vittime della disumanità, non si poteva certo dire che giustizia fosse stata fatta, nemmeno lontanamente; il veleno non era stato prosciugato. Niente poteva risarcire le loro sofferenze; nessuna autentica catarsi era immaginabile. (…) La resa dei conti era rimasta – ineluttabilmente – incompiuta. Per il resto del Novecento, l’Europa non sarebbe riuscita a liberarsi completamente del fetore della grottesca disumanità degli anni di guerra». É solo in questo senso, come un’onta, un ricordo rimosso non rielaborato e non certo come un onore, che occorre sempre ricordare, come dice quel tale, che siamo tutti quanti eredi del Duce.</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 19 giugno 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEim2VyvoVP_mviAPmGGE26uEImMwjU7MyYpTtX8nlfgGUF3_lxv3iweaisoJRPba3qoqPXBYkzbbMbDHx-jnyJWtAZMSuPl-tDpAsWrJkmgGklSqQMHXxnCDv4W6M29TYVi8NIrBz4Ylseta4UIozURLz-EhOjUs0CVilboHO6-t_ahwe_OGEVFUcyx/s462/kershaw.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="462" data-original-width="298" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEim2VyvoVP_mviAPmGGE26uEImMwjU7MyYpTtX8nlfgGUF3_lxv3iweaisoJRPba3qoqPXBYkzbbMbDHx-jnyJWtAZMSuPl-tDpAsWrJkmgGklSqQMHXxnCDv4W6M29TYVi8NIrBz4Ylseta4UIozURLz-EhOjUs0CVilboHO6-t_ahwe_OGEVFUcyx/s320/kershaw.jpg" width="206" /></a></div><br />Ian Kershaw</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><i><span style="font-size: large;">All'inferno e ritorno. </span><span style="font-size: medium;">Europa 1914-1949</span></i></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;">(Laterza 2020)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans; font-size: medium;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">Trad. di G. Ferrara degli Uberti</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">651 pp. | 24 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;">(ed. or.: <i>To Hell and Back. Europe, 1914-1949</i>, 2015)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: Open Sans;"><br /></span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-8024768719569507045.post-44485509829375032292022-09-30T20:05:00.012+02:002022-09-30T20:12:36.814+02:00Anatomia di un istante<div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Considerata la mia fissazione per le ricorrenze, non apparirà strano che, avvicinandosi la scadenza dei quarant’anni e giunto il momento di scegliere il libro che presumibilmente sarebbe stato presente sul comodino il giorno del mio compleanno, ne abbia individuato uno che raccontasse eventi accaduti proprio nello stesso anno in cui nacqui, appena due-tre mesi prima del parto. Si tratta per la verità di avvenimenti che in un italiano medio evocano, credo, pochi ricordi diretti – a differenza che in uno spagnolo, per il quale costituiscono invece un punto di riferimento generazionale fondamentale, come lo sarebbero state, per me, ad esempio, le stragi di mafia – ma su cui la grande letteratura ha spiegato la potenza del suo braccio, rendendoli in un certo senso universali. Penso di non dire nulla di eccezionale, infatti, se riconosco <i>Anatomia di un istante</i> fra i libri fondamentali di questo primo ventennio di XXI secolo, di quelli che merita leggere non solo perché, leggendoli, si imparano una marea di cose su qualcosa di cui probabilmente non si sapeva molto (come, in questo caso, il tentato golpe militare del 23 febbraio 1981 contro la giovane democrazia spagnola), ma anche e soprattutto perché, intraprendendo piste non ancora battute, offrono un esempio delle straordinarie potenzialità ancora latenti in quel vecchio arnese che è la scrittura.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Dove sta la peculiarità di questo libro? Cercas (di cui avevo già adorato <i>Soldati di Salamina</i>, che era un altro splendido esercizio di resa dei conti con il passato) lo presenta come «l’umile testimonianza di un fallimento», consistente nel non essere riuscito a realizzare un romanzo, come avrebbe voluto, sul tema prescelto. Infatti, dopo aver stracciato e ripreso diversi progetti, «compresi infine che gli eventi del 23 febbraio possedevano in sé tutta la forza drammatica e il potenziale simbolico che esigiamo dalla letteratura e compresi che, sebbene io fossi uno scrittore di romanzi, per una volta la realtà mi importava più della finzione letteraria o mi importava troppo per volerla reinventare sostituendole una realtà alternativa, perché nulla di quanto io potessi immaginare sul 23 febbraio mi coinvolgeva e mi emozionava tanto, né sarebbe potuto risultare più complesso e persuasivo, della pura realtà del 23 febbraio». Mi chiedo se questo discorso non valga in realtà per ogni evento storico: se il mio obiettivo è misurarmi con ciò che è stato, perché dovrei accontentarmi di una sua versione romanzesca, quando ho gli strumenti per accertare quanto accaduto? Dirò di più. Il potere specifico della poesia (qui concordo con Aristotele) è di dare coerenza e unità a un garbuglio altrimenti incongruo di episodi, giocando coi tempi e col montaggio per trasformare il puro vissuto in una autentica narrazione; l’invenzione è appunto una strategia utile a fornirci delle ipotesi di senso attraverso le quali provare a sintetizzare la marea di dati da cui siamo quotidianamente sommersi. Non c’è nulla di male, in fondo è una funzione vitale della nostra specie, tant’è vero che i “grandi racconti” non sono affatto spariti dai radar, ma proliferano più che mai, specie in quel particolare ramo della cultura pop che è diventata la politica contemporanea.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">In una narrazione ogni anello deve tenersi. La storia, però, è la scienza della complessità, delle alternative sempre possibili, della concomitanza di cause non sempre chiaramente distinguibili, della pietra accidentale su cui a volte si infrangono anche i flussi e riflussi della lunga durata. Se la favola ha una sua morale, la storia può averne molte, anche contrapposte fra loro, e per questo richiede un approccio diverso, che, senza disimpegnarsi dalla ricerca di una spiegazione, sia strutturalmente aperto e consapevole dei propri limiti: chi scrive di storia non assomiglia, cioè, al Dio onnisciente che all’atto della creazione modella la materia sulla base degli esemplari contenuti nella sua mente, bensì al modesto paleontologo che prova a ricostruire a posteriori come sono andate le cose, sapendo benissimo che tra un reperto fossile e un altro ci sono buchi a volte impossibili da colmare e che una minima variazione ambientale avrebbe potuto alterare in modo significativo lo sviluppo della trama di cui sta cercando di dipanare i fili. Per questo, tornando a Cercas, trovo che sia salutare, oggi più che mai, immergersi nella lettura di un libro che non offre una soluzione già pronta, ma che al contrario impiega le tecniche della letteratura per rappresentare la stessa opera di ricerca, coi suoi dubbi, le sue esitazioni, e però anche con i punti fermi che tutto sommato si possono dire ragionevolmente acquisiti, dopo aver vagliato e soppesato tutte le possibilità. Ricostruire la storia di un complotto è l'antidoto migliore ad ogni forma di complottismo. Questo libro, infatti, dice ancora il suo autore, «non rinuncia del tutto a capire attraverso la realtà ciò che ha rinunciato a capire tramite la finzione letteraria». Il suo metodo consiste nel forzare «i limiti del possibile fino a raggiungere il probabile e cercando di ritagliare la forma della verità ricorrendo al verosimile. Naturalmente, non posso assicurare che tutto ciò che racconterò in seguito sia vero; ma posso garantire che è impastato con la verità e soprattutto che è quanto di più vicino alla verità io possa raggiungere, o comunque immaginare».</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">La descrizione della «placenta» in cui maturò il golpe e di come si svolse e andò a finire non ha però, anzitutto, fini documentari: provare a capire come sono effettivamente andate le cose è piuttosto il modo attraverso cui Cercas (nato nel 1962) arriva infine a comprendere la generazione di suo padre, quella che col franchismo aveva sostanzialmente convissuto e che poi se l’era sfilato di dosso quasi come se niente fosse, identificandosi per questo in quell’Adolfo Suarez che, da primo ministro ormai dimissionario, fu il principale obiettivo del colpo di stato. Era stato proprio Suarez, infatti, dopo una carriera interamente costruita all’ombra della dittatura, ad avviare, sotto il naso dei generali, la transizione democratica. Cercas – che, all’epoca dei fatti, da ventenne, non provava nessuna stima per lui - lo descrive, ripercorrendo il suo percorso biografico, come un «arrivista servizievole e ambizioso», un «galletto falangista, simpatico, cialtrone e ignorante»: nulla, in lui, fa pensare a un campione della libertà, e se anche, nei giorni concitati del golpe, sostenne questa parte è solo perché, giunti a quel punto, la caduta della democrazia avrebbe significato anche la sua caduta personale. Eppure, quel che a sorpresa viene fuori è che, a suo modo, anche Suarez è stato un eroe - più precisamente, un «eroe della ritirata», come lo definì Enzesberger, a cui Cercas espressamente si richiama. L’eroe “della ritirata” è il contraltare dell’eroe “della conquista”: se quest’ultimo è «un idealista dai principi chiari e irrinunciabili» che «raggiunge l’apoteosi imponendo le proprie posizioni», l’altro «è pervaso dal dubbio e si barcamena tra compromessi e negoziati», finché abbandona le proprie convinzioni «facendosi da parte». Per molti aspetti, «l’eroe della ritirata è un eroe del tradimento» - il che richiede però di rivedere profondamente i nostri schemi di pensiero, poiché noi «possediamo un’etica della lealtà», ma non abbiamo ancora elaborato «un’etica del tradimento», sebbene a volte sia propria questa mancanza di intransigenza, persino un po’ grigia rispetto al titanismo dell’idealista, ciò che consente alla vita di continuare il suo corso (un po’ quanto ricorda quell’immagine secondo cui Dio crea il mondo ritirandosi, come la marea di ritorno che lascia emergere la spiaggia).</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: large;">Qui il discorso coinvolge, oltre Suarez, anche gli altri protagonisti presenti nell’emiciclo parlamentare durante l’assalto del generale Tejero: la scelta di giungere a un accordo che permettesse di lasciarsi alle spalle la dittatura non può essere considerato un atto di giustizia, perché non comportò il risarcimento delle vittime, eppure, proprio in virtù di questo compromesso, «è stata costruita una democrazia altrimenti impossibile se l’obiettivo prioritario non fosse stato costruire il futuro bensì – <i>Fiat iustitia et pereat mundus</i> – emendare il passato». E anche se da quel compromesso fosse uscita una democrazia claudicante, poco importa: «non esiste la democrazia perfetta, perché ciò che sancisce una vera democrazia è il suo carattere flessibile, aperto, malleabile – cioè, permanentemente migliorabile -, e dunque l’unica democrazia perfetta è quella che è perfettibile all’infinito. La democrazia spagnola non lo è, ma è una vera democrazia». É proprio questo il dono che, non si sa quanto consapevolmente, fecero ai loro figli questi eroi della ritirata, ossia quei dirigenti che – provenendo dalle fila del franchismo o dell’opposizione - seppero fare un passo indietro, perché compresero che in ciò consiste la politica, nel «cedere sugli aspetti secondari per non rinunciare all’essenziale». Costoro furono tutti, in un modo o nell’altro dei traditori, ma di che cosa? Essi «tradirono la lealtà nei confronti di un errore per costruire la lealtà a una scelta giusta; (...) tradirono il passato per non tradire il presente. A volte per essere fedeli al presente occorre tradire il passato. A volte il tradimento è più difficile della lealtà. A volte la lealtà è una forma di coraggio, ma in certi casi è una forma di codardia». E insomma, tutto questo anche per dire che aver mandato a Palazzo Chigi una persona solo perché le si riconosce grande coerenza non è detto che sia per forza di cose una scelta intelligente.</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans"; font-size: x-large;"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(finito il 16 maggio 2021)</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">Ho parlato di</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDrb3QjqmNTwnMGbq31DzxS7CG6pNCF3sc9huZpoWtXQD97K3BG_4oJfbt6Mm4_NxacXoq90zsoZu_f86n0J58YwXu3EYkfcUf-oTySHjcnhW9Dx2cPFIxi74ASi6k5_Xmrc6YEI1R3eVbPwhiU1B44XMQZkH6hszHjgjPk9SA-Z8NwEnm9rAkPavr/s372/cercas.jpg" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" data-original-height="372" data-original-width="240" height="320" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgDrb3QjqmNTwnMGbq31DzxS7CG6pNCF3sc9huZpoWtXQD97K3BG_4oJfbt6Mm4_NxacXoq90zsoZu_f86n0J58YwXu3EYkfcUf-oTySHjcnhW9Dx2cPFIxi74ASi6k5_Xmrc6YEI1R3eVbPwhiU1B44XMQZkH6hszHjgjPk9SA-Z8NwEnm9rAkPavr/s320/cercas.jpg" width="206" /></a></div><br />Javier Cercas</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: large;"><i>Anatomia di un istante</i></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;">(Guanda 2012)</span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><span style="font-size: medium;"><br /></span></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">trad. di P. Cacucci</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">468 pp. | 12,50 €</span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";"><br /></span></div><div style="text-align: justify;"><span style="color: #f1c232; font-family: "Open Sans";">(ed. or.: <i>Anatomia de un instante</i>, 2009)</span></div>z.http://www.blogger.com/profile/17136264397768945033noreply@blogger.com0