giovedì 20 dicembre 2018

Cosmocopia

Quando ho comprato questo libro in edicola ho istintivamente pensato che il titolo andasse letto “Cosmocopìa”, con l'accento sulla i. E invece no, sbagliavo. Ci sarei dovuto arrivare da solo, ma per sicurezza a un certo punto l'autore te lo dice chiaramente che sta giocando col termine cornucopia, proiettato su scala galattica. Paul Di Filippo, del resto, è un noto pasticheur, uno che ama mescolare le carte e i generi, con risultati talvolta divertenti talvolta semplicemente strampalati. La sua opera forse più nota, la Trilogia Steampunk (che a me peraltro non è dispiaciuta), è piena di crossover in cui, per dire, personaggi e atmosfere lovecraftiane si fondono letteralmente con quelle melvilliane. Ma lì è anche un po' il genere stesso che trascina in quella direzione, in quanto vive di citazionismo vittoriano – e deve piacere. Qui invece siamo in presenza di una sorta di libero e consapevole tributo alla sfrenata creatività dell'arte, intesa come una forza debordante di natura quasi sessuale, sotto le spoglie di un romanzo direi più lisergico che propriamente fantascientifico. Pure come racconto è piuttosto debole, un pretesto per mettere appunto in fila invenzioni linguistiche e concettuali, alcune suggestive altre un po' stucchevoli, forse persino troppe per non venire a noia, alla lunga (e anche un tantino ambiziose, nelle premesse, rispetto ai risultati effettivamente raggiunti: proprio in questi giorni ho visto il film Arrival e lì il problema della traduzione tra sistemi simbolici totalmente alieni è affrontato con molta più cura rispetto a questo libro, dove è un po' tutto buttato in caciara. Di Filippo sembra quasi che ti dica “ehi, man, ci avevi mai pensato a questa cosa qui?”, si vede che si diverte un sacco a descrivere un rapporto erotico tra creature fisiologicamente differenti, poi però non ha la capacità, o forse la voglia, di dare autentico spessore al discorso). 

Il simbolo di questa incontinente immaginazione è – appunto - la Cosmocòpia del titolo, da pensarsi, si dice a un certo punto, «come una serie infinita di universi accatastati uno sull’altro, ognuno leggermente più largo e di conseguenza più esile del precedente. Risalendo indietro per tutta la lunghezza della Cosmocopia, gli universi diventano sempre più piccoli, finché si raggiunge il punto terminale… o per meglio dire, l’origine, l’Omphalos, che è al tempo stesso privo di dimensioni e tuttavia infinito, poiché racchiude il seme di tutto ciò che doveva venire. In questo punto risiede il Conceptus, colui che ha dato origine alla Cosmocopia e continua a informarla di sé. Il Conceptus ha manifestato la Cosmocopia come espressione della propria volontà e natura. Tutto ciò che vediamo, tutto ciò che sarà, su ogni piano, è insito nel carattere del Conceptus». Anche qui niente di nuovo, se non l'ennesima ripetizione dell'inesauribile mito neoplatonico dell'Uno traboccante di essere che lo stesso Plotino aveva cercato di descrivere con varie metafore complementari. Fatto sta che un anziano artista colpito da un ictus e ormai a corto di idee, Frank Lazorg, riceve da un vecchio conoscente caraibico un pacco dono contenente dei preziosissimi escarabejos psicodelicos: in teoria servirebbero per ricavarne un pigmento di una tonalità assolutamente inedita; in pratica, Lazorg comincia a succhiare i grani di questa sostanza dal nome parlante, riacquista la creatività perduta e si imbarca in un vero e proprio trip, quasi fosse catturato all'interno di uno dei suoi dipinti visionari. 

Da quel che si capisce ha invece fatto un salto verso il centro assoluto del sistema. Finisce così in un mondo dove esistono creature bizzarre come l'acqua viva (una sorta di gel che si muove lungo tutto il tuo corpo assorbendo la materia estranea e lasciandoti pulito come dopo un bagno o una doccia), umanoidi che hanno gli organi genitali al posto della bocca e per questo girano incappucciati, esseri al limite del pensabile come il volvox («di forma geometrica a multiple sfaccettature simmetriche, (...) era dotato di una pelle verde lustra, leggermente umida, la cui struttura cellulare macroscopica era del tutto evidente, ogni cellula munita del proprio nucleo e apparato vitale. Sotto alla pelle dell’essere, per il resto completamente vuoto, all’interno, si intravedeva lo scheletro, intricato e leggerissimo»). Qui, famelico di novità, impara una tecnica artistica più pura di quelle figurative diffuse fra di noi, consistente nella capacità di individuare con una bacchetta le increspature presenti nei nodi interstiziali della realtà, aprirle e modellare la materia primordiale che ne scaturisce, come da un piccolo big bang, in manufatti chiamati “ideazioni”. Non pago di ciò, a un certo punto il nostro si mette in testa di scendere fino al punto da cui tutto ha inizio (d'altronde l'opera a cui sta lavorando quando inizia il suo viaggio era un rifacimento personale dell'Origine del mondo di Courbet) per prendere per il collo nientemeno che il Creatore e inchiodarlo alle sue presunte responsabilità, come farebbe un bravo gnostico. Solo che la sua quest finisce quasi subito e della fantasmagorica Cosmocopia noi alla fine non vediamo che una misera periferia. Sarà pure stata una lettura da spiaggia, ma alla fine mi è mancato l’arrosto.

(finito il 22 agosto 2018)

Ho parlato di


Paul Di Filippo
Cosmocopia
(Mondadori, 2018)

(Urania 1653) 

trad. di M. Jatosti

182 pp. | 6,50 €

(ed. or.: Cosmocopia, 2008)

venerdì 14 dicembre 2018

Guerra giusta e schiavitù naturale

Se non aveste mai sentito parlare di Juan Ginés de Sepulveda, potete immaginarvelo come un ospite fisso dei talk-show televisivi in quota teo-con, uno di quelli invitati apposta per soffocare con argomentazioni dotte, sottili e spesso provocatorie il facile sentimentalismo dei soliti buonisti a proposito dell'invasione degli immigrati islamici (che ne so? Una specie di Luttwak). Dato però che questo Sepulveda visse nel XVI secolo, quando gli invasori eravamo noi, il ruolo che si ritagliò allora fu ovviamente quello di apologeta della conquista spagnola delle Indie (non c’è da stupirsi: ancora oggi Salvini si fa i selfie davanti ai poster dei pellerossa come se niente fosse). Lo fece, tra l’altro, in un contesto particolarmente solenne, quello della disputa appositamente convocata a Valladolid nel 1550 dall’imperatore Carlo, tormentato dal sospetto che la sua anima di scrupoloso principe cristiano potesse essere gravata da colpa mortale per tutto quello che era stato combinato in suo nome oltreoceano.

Per l'occasione, Sepulveda rimise a nuovo le tesi espresse in un testo a cui era stata fino a quel momento vietata la pubblicazione, il Democrates alter. L'idea per sommi capi era questa. I re di Spagna si erano imbarcati nell'avventura americana su mandato papale, con lo scopo dichiarato di portare il Vangelo nel Nuovo Mondo – e tanto sarebbe dovuto bastare a garantire loro che nessun altro sovrano si intromettesse nella faccenda. Ma poiché l'autorevolezza papale, in tempi di pasquinate e sacchi di Roma, non pareva sufficientemente forte, parve utile escogitare altre ragioni, basate su principi diversi e più solidi, per garantire la legittimità della conquista. É in fondo lo stesso problema che si era posto anche Vitoria a Salamanca, quando aveva sostenuto che l'unica giustificazione possibile della guerra contro gli indios sarebbe potuta essere l'eventuale negazione, da parte loro, di un diritto naturale fondamentale degli uomini, quale la libera circolazione delle persone o delle merci. Sepulveda, invece, da umanista qual era, trovò la sua soluzione nelle prime pagine di quella Politica di Aristotele da lui stesso ritradotta in buon latino, e precisamente in quel passo sconcertante in cui si parla espressamente di “guerra giusta” per indicare una particolare forma di caccia che ha per oggetto gli uomini naturalmente inferiori e perciò altrettanto naturalmente destinati a servire i loro razziatori come schiavi. E chi più degli indios scoperti da Colombo poteva corrispondere a questa definizione? Vanno in giro nudi, non hanno istituzioni stabili, vivono in villaggi di capanne. Quanto a Incas e Aztechi, avranno anche parvenze di strutture statali e discreti gusti architettonici, ma gli orrendi sacrifici umani con cui condiscono le loro liturgie lasciano pochi dubbi sula loro natura semiferina. Tutto ciò è contrario alla legge naturale che Dio ha scritto nel nostro cuore – e che per sicurezza ha poi dettato anche nella Bibbia: violandola, gli indigeni sono rei di un'offesa a Dio che va punita e risarcita (e proprio per questo il papa ha piena giurisdizione in materia e la può delegare ai sovrani). Non solo – e qui sta il tentativo di scacco al re: distogliendoli con la forza dalle loro pratiche idolatriche, si compie nei loro confronti una vera opera di misericordia cristiana, perché li si salva da una destino di dannazione eterna. Suvvia, come si può accusare di violenza chi trattiene energicamente un uomo perché non finisca in un burrone? Quelli che lo fanno, quei profeti disarmati che vorrebbero presentarsi come pecore in mezzo ai lupi e provano orrore per ogni goccia di sangue versato, semplicemente dimostrano di non amare sul serio quegli indios che tanto coccolano, perché senza un intervento diretto costoro, da soli, non saranno mai in grado di tirarsi fuori dalle tenebre in cui sguazzano. Lo dice anche il vangelo: costringili a entrare! Bei pacifisti, quelli, che per non sporcarsi le manine fanno invece morire migliaia di innocenti negando loro un aiuto in attesa di una conversione pacifica che chissà se e quando mai arriverà! 

Animato da un sincero risentimento verso l'irenismo erasmiano (se il cristianesimo fosse davvero una folle religione di pace, avrebbe allora ragione Machiavelli nel dire che i cristiani sono imbelli rispetto agli antichi e virtuosi pagani), Sepulveda si ritrova a sostenere questo complesso di idee di fronte a Bartolomé de Las Casas, che a Valladolid assume invece le parti di difensore degli indios. La cosa forse più interessante è che questi due sfidanti sono, com’è ovvio, entrambi figli del loro tempo e, cosa un po’ meno ovvia, ragionano entrambi a partire dalle stesse autorità di riferimento. Anzi, dei due forse il più moderno è proprio Sepulveda, con il suo richiamo al vero Aristotele anziché a quello battezzato da Tommaso, e con la sua spregiudicata logica laica di potenza mondana («nel corso del Cinquecento (…) si poteva confutare Machiavelli e nello stesso tempo recepire del suo pensiero»). Si tratta, però, di una modernità solo apparente. Per come la vedo io, la scoperta del Nuovo Mondo pose sul piano giuridico e morale lo stesso genere di sconcertanti problemi che la rivoluzione copernicana poneva in campo astronomico: esploso l’orizzonte chiuso medievale, l’ordine che la scolastica aveva ingegnosamente cercato di edificare non tiene più e affiora urgentemente l’esigenza di ricostruire da capo un ordine nuovo. La mossa di Sepulveda consiste nel sovrapporre progressivamente l’idea di umanità a quella di cristianità, in modo da far sempre più coincidere il concetto di evangelizzazione con quello di civilizzazione, inaugurando uno schema di pensiero che sarà ancora operante quando Kipling parlerà a fine Ottocento del fardello dell’uomo bianco. In questo modo cambiano i totem, non la sostanza. La natura diventa il termine di riferimento di un ordine già dato, valido anche se Dio non ci fosse (che è poi un po' la stessa logica capziosa che usava Ruini con il suo “progetto culturale”). L’umano comune resta gerarchicamente strutturato e il diritto naturale può tranquillamente girare armato. Sebbene sotto una patina terminologica depurata di riferimenti religiosi, la politica resta ontoteologica. Un solo re, un solo battesimo, una sola fede, una sola cultura.

L'alternativa sembrerebbe essere il riconoscimento di un insuperabile relativismo, che però – su basi opposte, scettiche – rischierebbe di compromettere la possibilità di tessere una qualche forma di orizzonte comune per tutta l’umanità, che non è una perdita da poco. Las Casas cerca di aprire una terza via, provando a porsi espressamente dal punto di vista dei nativi, «il che mostra che una dottrina universalistica dei diritti umani non comporta necessariamente la giustificazione di un “intervento umanitario” armato per difenderli, ma può anche sopportare la tolleranza e il riconoscimento dell’alterità». In realtà anche per lui si dà un’oggettiva superiorità del cristianesimo, e ciò che occorrerebbe fare sarebbe accompagnare passo passo gli americani perché raggiungano il livello di civiltà già acquisito dagli europei (i quali, anticamente, non erano meno barbari di questi moderni selvaggi), ma poiché il solo modo per annunciare la vera fede è quello non-violento praticato dallo stesso Gesù, finché lo si predica a schioppettate, l'unica guerra giusta è quella che gli indigeni intraprendono per difendersi da quella che è a tutti gli effetti un'illecita aggressione, materiale e simbolica, nei loro confronti. Non è poco, per un confratello e connazionale di Torquemada. Da un lato c'è una concezione del progresso che non fa sconti, dall'altra una visione della storia dalla parte delle vittime, per cui nessun fine giustifica i mezzi, nessun oggetto può schiacciare il soggetto. Da un lato una concezione istituzionale della salvezza, vincolata al battesimo terreno; dall’altra un affidamento alla volontà divina del destino ultraterreno di chi, spesso per colpa dei cristiani stessi, non ha ancora conosciuto Cristo. Va beh, sì lo dico, da una parte Hegel, dall’altra Benjamin. L’Occidente è entrambe le cose.

Questo libro a più voci, che raccoglie i risultati di un convegno tenutosi nel 2010, cerca appunto di sviscerare tale intricato complesso di questioni filosofiche e giuridiche, con un occhio molto attento alla nostra contemporaneità e alle discussioni intorno alla legittimazione fornita per gli interventi umanitari del recente passato, dal Kosovo all’Afghanistan. Se siamo ancora lì a parlarne perché in fondo non abbiamo ancora sciolto il nodo di come conciliare universalismo e pluralismo. 

Ps: Alla fine Sepulveda uscì sconfitto a Valladolid e le sue opere rimasero inedite. Las Casas vinse, ma la conquista, di fatto, non si fermò – anzi. Il che conferma una volta di più che il sedicente “potere dei più buoni” è solo sulla carta.

(finito il 13 agosto 2018)

Ho parlato di



Marco Geuna (a cura di)
Guerra giusta e schiavitù naturale. 
Juan Ginés de Sepulveda e il dibattito sulla Conquista
(Biblioteca Francescana, 2015)


320 pp. | 24 €

venerdì 7 dicembre 2018

Armi, acciaio e malattie

Piccolo aneddoto con doppia morale. Di ritorno da una lezione in università, un giovane studente di filosofia incontrò un giorno un giovane professore di storia di fronte all’invitante scaffale di una libreria centrale di Torino. Esauriti i convenevoli, il più grande dei due d'improvviso esclamò, con postura a metà tra il penitente e l'uomo di mondo: “ma lo sai quanti libri mi è capitato di citare senza averli mai letti? Questo, per esempio” - e afferrò uno di quei superclassici effettivamente troppo noti per prendersi pure la briga di perderci del tempo sopra (eddai, che gusto c'è se conosci già l'assassino?). L'altro ne restò un po' sconfortato. All'epoca credeva ancora che una vita sola fosse sufficiente per leggere quantomeno l'essenziale, mentre quel colloquio cominciò ad aprirgli gli occhi su come andassero davvero le cose una volta usciti dalla bambagia dell'accademia. Però su una cosa almeno pensava di poter resistere: si parla solo di ciò che si legge davvero, non si discute. 

E invece no, ci sono cascato anch'io – e pure un sacco di volte, anche in contesti seri e solenni, perché si fa presto a dirsi socratici, ma poi al dunque spesso si cede e ci si ritrova – per capriccio, gioco, per necessità - a far finta di sapere. Per dirne una, stando a quanto da me scritto in una delle risposte alle domande del concorso a cattedra, io questo libro qui dovrei averlo letto almeno due-tre anni fa, eppure eccomi qua. Per la verità non si trattava di una mera millanteria. Ne avevo sul serio divorato una parte, in una versione digitale, assimilando, per così dire, il nocciolo della questione. L’idea – cioè - per cui la ragione della conquista europea del Nuovo Mondo andrebbe ascritta a processi iniziati più di diecimila anni prima, con la rivoluzione agricola nel Neolitico; e poi che la diversità fra le culture andrebbe spiegata in termini geografici e ambientali anziché su basi biologiche; e che la storia potrebbe e dovrebbe essere trattata come una scienza a tutti gli effetti (con tanto di esperimenti), ma con un metodo tutto suo, che richiede un continuo scambio interdisciplinare e un intreccio di competenze – e poi tante altre cose ancora che mi sembra vano elencare perché mi sembrerebbe di raccontare la favola di Cappuccetto Rosso. Questo testo arguto e pieno zeppo di domande, capace di saltare dalla paleobotanica alla sociologia delle migrazioni, animato da una curiosità vorace e dal coraggio di muoversi su una scala temporale che, come recita il sottotitolo, copre la “storia del mondo negli ultimi tredicimila anni” mi aveva a tal punto appassionato che, giunto più o meno a un terzo dell'opera, decisi di comprarlo in edizione cartacea, perché pensai che libri come questo uno che fa il mio mestiere deve possederli, pasticciarli, consumarli a forza di ritornarci sopra, portarli in classe e magari imprestarli anche ai suoi studenti. 

Di che genere di libri sto parlando? Di quelli che, per un motivo o per l’altro, segnano uno snodo importante nella storia intellettuale, introducono categorie promettenti per provare a comprendere il mondo in cui viviamo, sfruttando tutte le potenzialità di cui una ragione attenta alla complessità può servirsi, sia sul piano tecnologico che su quello metodologico. Libri che possono finire nelle mani di un diciottenne e offrirgli una chiave d'accesso a una realtà che è o sarà la sua, e non quella di un suo coetaneo del Seicento o dell'Ottocento (il quale giustamente leggeva di nascosto i libri che oggi facciamo leggere a scuola). Libri che posso mostrare a quegli allievi che ogni anno mi chiedono se esistono ancora dei filosofi viventi, dal momento che quelli di cui parliamo di solito sono tutti morti. Libri in cui le discipline dialogano fra loro in modo intelligente, mostrando che è bene per uno storico saperne di genetica come è bene per un medico saperne di poesia, perché la ragione sarà pure una sola come diceva Cartesio, ma è multiforme, è plastica, non può pensare di ritagliarsi un angolino grazie alle sue regolette per poter dire che quello è il mondo vero e tutto il resto è letteratura. Ecco: esistono libri di questo tipo, che un corpo docente aggiornato (direi di più: un qualsiasi professionista, sia avvocato o economista) dovrebbe conoscere a prescindere dalle rispettive aree di competenza e che degli studenti interessati potrebbero sfogliare con la stessa sensazione di stare sul pezzo che potevano avere i giovani hegeliani quando sentivano parlare il loro maestro? Non smetterò mai di suggerire la lettura diretta dell’Apologia di Socrate, ma non ci si può neanche fermare lì. 

Non è a un canone normativo, ovviamente, che penso. Però, in questi anni in cui le edicole traboccano degli allegati più disparati ai quotidiani ho già visto trite e ritrite ristampe filosofiche (che per bene che vada si spingono al massimo ad Heidegger e Popper), diverse proposte di storia e anche alcune collane di taglio più scientifico: possibile che nessuno abbia mai pensato a una raccolta tipo “i grandi classici per capire il presente” o “i grandi pensatori di oggi”, “i venti libri che ci aiutano a comprendere il mondo contemporaneo”? Una traccia, una pista, dei punti di riferimento per gettare qualche ponte fra continenti sempre più alla deriva: non chiedo altro. Toccasse a me stilare una proposta, Armi acciaio e malattie (che nel frattempo ho finalmente ripreso e concluso) lo inserirei di sicuro. Quali altri volumi potrebbero fargli compagnia?

(finito l'11 agosto 2018)

Ho parlato di


Jared Diamond
Armi, acciaio e malattie.
Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni
(Einaudi, 2014)

400 pp. | 14 €

(ed. or. Guns, Germs, and Steel. The Fates of Human Societies, 1997)