Sia detto per inciso che, per quanto abbia le pagine di carta, una rilegatura a norma e la sua riconoscibile copertina, a rigore ceci n’est pas un livre, trattandosi della trascrizione di una Ted Conference che l’autrice ha tenuto nel 2009 e che chiunque può tranquillamente ascoltarsi online, gratis, persino coi sottotitoli in italiano – e poiché c’è una bella differenza tra lo scrivere immaginando di rivolgersi a un pubblico uditorio oppure a un singolo lettore solitario, consiglierei al curioso di andarsela a ricercare in rete (dura poco meno di venti minuti), in modo da usufruirne nella modalità per cui era stata originariamente pensata. Però, dal momento che io invece di qui sono passato, di questo parlo.
Se ci sono arrivato è per diretta continuità con l’ultimo libro recensito. Gli scrittori sono estremamente sensibili al potere delle storie, avendone fatto il loro mestiere. Chi altri potrebbe infatti apprezzarne di più la forza assolutamente magica che consente loro di contornare un ideale e trascinarlo poi dal piano dell’etereo a quello concretissimo dell’esistenza quotidiana, trasmutandone all’occorrenza la forma e le proprietà? “Gran dominatore” è la parola – diceva già Gorgia – “che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere”. E così, se Labatut spiegava che la nostra fame di storie ci spinge a inventarcene anche di totalmente folli, per ovviare alla nostra crescente incapacità di capire il mondo, Ngozi Adichie, che ha una manciata di anni più di lui e più di me, sottolinea le controindicazioni che si verificano quando di tutte le storie possibili si fa un unico fascio (e non lo dico a caso). Non poteva che essere una storia, la sua storia personale, ad averglielo reso evidente. «Ho iniziato a scrivere – racconta – e tutti i miei personaggi erano bianchi, anche se vivevo in Nigeria, perché così facevano i personaggi dei libri inglesi che leggevo». Neanche le era passato per la mente che i libri potessero contenere altro: «dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi». E si capisce, persino leggere Lolita a Teheran perderebbe tutta la sua carica eversiva se a Teheran non si potesse leggere altro che Lolita. Il paradosso è che, quando poi si è trasferita negli Stati Uniti a studiare, la sua coinquilina americana è rimasta sconcertata dal fatto che parlasse un inglese fluente, sapesse usare un fornello e ascoltasse Mariah Carey anziché musica tribale. «La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa» e con quella storia la sua nuova amica Chimamanda, nonostante quel nome così esotico, sembrava non c’entrare nulla. Persino uno dei suoi professori americani aveva liquidato il suo romanzo osservando che “non era abbastanza africano”, perché i suoi personaggi guidavano automobili e non morivano di fame (che poi anche l’idea di una “storia dell’Africa” è abbastanza discutibile: «prima di andare negli USA non mi consideravo africana, consapevolmente. Ma in America ogni volta che si parlava di Africa ci si rivolgeva a me, anche se non sapevo nulla di posti come la Namibia. Ora mi considero africana anche se mi irrita quando ci si riferisce all’Africa come a unico Paese». Chissà cosa penserebbe di quel leghista di genio che all’Africa vorrebbe addirittura vendere Lampedusa...).
Il meccanismo è abbastanza semplice: «mostrate un popolo come una cosa sola svariate volte e quel popolo diventa quella cosa», per esempio un concentrato di terroristi assetati di sangue o un’orda di minacciosi predatori di donne e lavoro. «Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona». L’alternativa proposta non è però quella di rovesciare quella storia, come si fa con le statue dei personaggi scomodi, sostituendola con una storia opposta, altrettanto definitiva e altrettanto sospetta, ma accettare la possibilità di una pluralità di storie, persino sulle stesse vicende, perché la realtà è per sua natura complessa e controversa e non c’è punto di vista che possa presumere di riassorbirla completamente. Non mi pare, del resto, che si renda un buon servizio alle giuste cause se le si infioretta troppo, perché sarebbe un po’ come ammettere che, prive di trucco o di artifici, perderebbero quella credibilità che dovrebbe derivare dalla loro autenticità, con tutto il suo carico di contraddizioni. Il che non vuol dire garantire semplicemente la proliferazione delle voci, se no finiremmo per ricadere invariabilmente nel dramma di questi giorni, in cui, prigionieri ciascuno di un’unica storia - la propria -, continuiamo in realtà a monologare e a dividere il mondo in fazioni inconciliabili, dichiarando preventivamente di stare con questi o con quelli, senza capire che una storia non può in realtà mai stare senza l’altra e – soprattutto – che una storia non è davvero una storia se manca un ascoltatore che la raccolga e sia disposto a farsi mettere in discussione da essa. Perchè mai dovrei infatti confrontarmi con qualcuno, se sono convinto di sapere già tutto quello che quel qualcuno avrà da dirmi? «L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia»: addomesticano, semplificano, riducono. Le storie hanno però questo di bello: se è vero che, quando si consolidano, possono diventare un macigno sotto il cui peso restare, non solo metaforicamente, schiacciati, al tempo stesso sono anche sufficientemente duttili per riaprire sempre e di nuovo gli orizzonti quando non sappiamo più dove sbattere la testa. Quante volte è accaduto che proprio l’inizio di una nuova storia ci abbia tirato fuori dall’abisso? Persino la rivelazione biblica, per chi ci crede, è assai più storia, con i suoi alti e bassi, anziché norma assoluta. E dunque non stanchiamoci mai di raccontare, ascoltare e divulgare quante più storie possibile: che ce ne rendiamo del tutto conto o no, sarà anche quella una forma di resistenza.
(finito il 10 novembre 2021)
Ho parlato di
Il pericolo di un'unica storia
(Einaudi 2020)
trad. di A. Sirotti
48 pp. | 7 €
(ed. or.: The Danger of a Single Story, TED Conference, 2009)
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