Questo romanzo è un ben congegnato (forse fin troppo ben congegnato) meccanismo ad orologeria che adatta, in un certo senso, le tre classiche unità aristoteliche di tempo spazio e luogo all’epoca dinamica dell’elettricità: un treno lanciato in corsa da una città ben definita (Ostenda) e diretto verso un’altra città altrettanto ben definita (Istanbul, ovviamente) diventa infatti come un palco in movimento, su cui, atto dopo atto - ovvero stazione dopo stazione -, e scena per scena - ovvero vagone per vagone -, nell’arco di un paio di giorni appena, si inseguono, si incontrano, si avvicinano anche tantissimo e poi però per lo più si allontanano irreparabilmente, le vite di una serie di personaggi rappresentativi (forse fin troppo rappresentativi) di quell’Europa sull’orlo di una crisi di nervi di inizio anni ‘30, quando appunto il libro fu scritto. Profonde innovazioni stavano allora trasformando l’industria culturale. «I film (...) avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo disuguale dell’uomo, e l’incanto di una ciminiera che svetta verso le nuvole, per poi scomparire dietro altre ciminiere. Bisognava comunicare con la prosa questo senso del movimento». E così in effetti accade in queste pagine. Benché alcune delle scene chiave della storia si svolgano in esterna, abbiamo comunque anche lì inseguimenti in automobile, fughe, continui cambi di ambientazione, per non farci mai dimenticare la malinconica verità che un viaggio in treno ci svela sulla vita: «rocce, case e nudi pascoli indietreggiavano a più di cento chilometri all’ora, e c’erano ancora tante cose da dirsi». Qualunque cosa accada, per quanti incidenti di percorso possano rallentare la marcia, il mondo in realtà non si ferma mai ad aspettarci.
Mi pare sia questo l’indizio più evidente che Greene concepì metodicamente questo libro con lo scopo preciso di farlo diventare un film, un prodotto, cioè, il cui tempo di fruizione è deciso dal regista, non dallo spettatore, che vi si deve adeguare. Non è privo di ironia che egli affidi le sopraccitate considerazioni sul cinema a un fatuo scrittore, il cui intento vorrebbe semplicemente essere quello di «restituire salute e buon umore alla letteratura moderna. Troppe introspezioni, troppa malinconia. In fin dei conti il mondo è un bel posto, pieno di avventure» (ricordate quella battuta del Caimano? “É sempre il momento di fare una commedia…” - e qui siamo nientemeno che alla vigilia della presa del potere di Hitler). Eppure anche Greene ci vende la sua opera come un “divertimento”, sebbene l’originale entertainment credo esprima meglio il proposito di creare qualcosa che avvinca, sì, nei contenuti non meno che nelle forme, senza che debba essere per forza divertente. La morale della favola sarà anche a suo modo comica, ma di una comicità disperante («il mondo era un caos: i poveri morivano di fame e i ricchi non per questo erano più felici») e così l’epigrafe di Santayana, secondo cui «in natura tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo fato, e comico nella sua esistenza». Tale è effettivamente il mood del romanzo. A cui, curiosamente, capitò qualcosa di simile al tracciato di questa parabola. Vendette subito bene, permettendo a Greene di farci parecchi soldi, ma quando poi un film lo divento davverò – abbastanza in fretta, nel 1934, col titolo Orient Express – quest’ultimo si rivelò una dimenticabile meteora, immediatamente soppiantato, nell’immaginario collettivo, dal giallo di Agatha Christie ambientato sullo stesso treno e pubblicato nello stesso anno.
L’idea era dunque nell’aria, come è giusto che sia per i prodotti, appunto, di intrattenimento (verso i quali – sia chiaro – non provo nessuna avversione, e che anzi tanto più mi affascinano quanto più questa loro capacità di fiutare lo spirito del tempo li rende poi utilissimi come involontarie fonti storiche). E sebbene nei due libri il viaggio proceda in direzione contraria (da ovest a est in Greene, da est a ovest nella Christie), in entrambi un momento cruciale della vicenda è legato a una sosta imprevista da qualche parte nei Balcani, una sorta di cuore di tenebra europeo su cui il treno scorre come un ponte sospeso tra i due lembi estremi della civiltà che congiunge (lo spirito di Conrad aleggia abbondantemente su queste acque). Per intenderci, sono regioni in cui, senza che sia possibile avvistare case per chilometri e chilometri d’intorno, non si sa come, non appena i viaggiatori sono costretti a fermarsi, dal nulla sbucano contadini locali che provano a vendere loro qualsiasi cosa, un po’ come ci era capitato di sperimentare in viaggio di nozze sugli immensi altopiani andini del Perù. Qui una volta era tutto impero asburgico, ora invece il territorio è solcato da confini che ancora contano, eccome se contano, per quanto il treno possa apparire a prima vista come un mobile non-luogo capace di perforarli ad uno ad uno col suo incedere, lo stesso incedere di quella modernità che, inventando anche l’aeroplano e la finanza, ai confini sembra essere sempre più indifferente. Se ne accorgerà tragicamente uno dei protagonisti del racconto, il dottor Czinner, leader comunista jugoslavo in esilio, roso dai sensi di colpa e deciso per questo a rientrare in patria, a costo della vita, per trasformare il processo cui agogna in una tribuna mediatica e offrire messianicamente il proprio martirio come scintilla per scatenare la rivoluzione, ma che sarà giudicato invece da un’oscura corte marziale improvvisata dalle guardie di frontiera di Subotica. «Muoio per indicarvi la strada», afferma. «Ma, mentre parlava, la parte più lucida della sua mente gli diceva quanto fossero poche le possibilità che la sua morte avesse una qualunque efficacia».
Anche questo sacrificio verrà inghiottito nelle fauci della storia, senza lasciar traccia. Come se il viaggio fosse un singhiozzo, una sospensione nel respiro, superato il quale si riprende regolarmente la propria vita di prima, capita in effetti, quando si arriva infine a un meta, che non si sia poi neanche tanto sicuri che siano veramente accadute le esperienze vissute durante il tragitto. In questi grotteschi novendiali per la morte del faraone credo che in tanti ce lo stiamo chiedendo, se tutto ciò che ricordiamo di questi ultimi trent’anni sia avvenuto davvero. Purtroppo, almeno per noi, le macerie non mentono.
(finito il 5 settembre 2021)
Ho parlato di
Il treno per Istanbul
(Sellerio 2020)
trad. di A. Carrera
352 pp. | 14 €
(ed. or.: Stamboul Train, 1932)
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