Stanze

sabato 23 dicembre 2023

Credere

Quando, soprattutto tra i miei studenti, qualcuno prima o poi tira fuori la domanda se credo o no in Dio – l’ultima volta proprio ieri, al bar, dopo la fine delle lezioni –, provo sempre un sottile imbarazzo, non tanto perché fatichi a esplicitare un’appartenenza (lo dico, infatti, quasi subito che sono un chierichetto emerito e che porto ancora addosso i residui di tutto l’incenso scaricato a suo tempo nei turiboli), quanto per i sottintesi impliciti all’uso di quel verbo – credere – che rendono impossibile dare una risposta secca, in termini di sì o no. Cosa mi sta chiedendo davvero chi mi sta ponendo la domanda? E come potrebbe interpretare una mia risposta affermativa o negativa? Siamo sicuri che se io dicessi di “credere”, lui, udendo quella parola, intenderebbe la stessa cosa che intendo io? Per esempio, nella società ultrapolarizzata in cui viviamo, una tale affermazione non rischierebbe di essere intesa né più né meno che come l’espressione di una tifoseria, un tenere per Jahvé o per Allah come si tiene per la Juve o per l’Inter? É davvero questo quello che intenderei dire? E poi, anche tra chi dice di credere, siamo sicuri che ci sia davvero accordo su cosa credere con chi dovrebbe condividere la stessa fede? Per restare nel mio ovile, in cosa crede davvero quel particolare credente che dice di credere nel Dio cristiano in versione cattolica e che, almeno ogni domenica, fa come me la sua professione di fede tra l’omelia e la preghiera universale? Pensiamo realmente le stesse cose quando sovrapponiamo le nostre voci l’una all’altra? Di più, orientiamo realmente le nostre vite nella stessa direzione, pur celebrando un rito di comunione?

A chi si sentisse toccato da tale intrico di questioni mi sento di suggerire questo ponderoso volume di cui venni a conoscenza suppergiù una quindicina d’anni fa, quando mi capitò di partecipare ad un seminario che ne usava alcune parti come filo conduttore – e che, dopo molto tempo, mi sono poi deciso a leggere per intero. Il teologo gesuita che lo scrisse si era infatti riproposto di provare a ripercorrere, all’alba del nuovo millennio, l’asse portante del Credo e di rielaborarlo in linguaggio corrente, allo scopo di illustrare il senso di espressioni coniate a suo tempo per fare sintesi, ma che senza adeguato retroterra rischiano appunto di restare puro flatus vocis. «Questo libro – spiegava appunto nelle prime righe – è un invito. (…) Mentre tanti libri propongono dei contenuti, io vorrei presentare un itinerario. (…) Io quindi non mi faccio l’obbligo di affrontare tutti gli argomenti della fede cristiana. (...) L’importante non è dire tutto, bensì esprimere ciò di cui si parla, secondo un ordine e un movimento che siano significativi per il lettore. Questo libro che parlerà del cristianesimo, intende quindi rivolgersi alla persona umana in quanto persona. L’esperienza umana di tutti e di ciascuno sarà in certo qual modo il suo punto di partenza. Un vangelo che non si rivolgesse all’esperienza umana più profonda non interesserebbe nessuno. Una risposta che non corrisponde ad una domanda non è una risposta: è un parlare vano. (…) Vorrei dare la testimonianza personale della mia fede dicendo: ecco ciò che mi rende felice, ecco ciò che mi fa vivere. (…) La testimonianza che io cerco di dare è dunque quella di un’esperienza che si rivolge ad altre esperienze. Io ho vissuto questa cosa: corrisponde forse a qualche cosa per te?». Detto altrimenti: al di là del formulario imparato a memoria, abbiamo realmente ancora qualcosa da dire?

In fondo, il progressivo svuotamento di chiese progettate per racchiudere un popolo che, in quelle proporzioni, vi si raduna giusto per la messa di Natale o per certi funerali, in ossequio a tradizioni e riti sociali condivisi, è forse dovuto, più che alla durezza del messaggio che vi si proclama, alla sua sostanziale indecifrabilità, che ne facilita la riconversione in un più abbordabile paganesimo, spesso proprio ad opera di chi più sbraita di essere cristiano e per cui il credere fa immediatamente rima con l’obbedire e il combattere. Mettere alla portata di tutti, con estrema chiarezza di linguaggio, i risultati di una teologia aggiornata, non convertirà probabilmente nessuno, però può aiutare chi crede a chiarire a se stesso il nucleo vitale della propria fede ed anche mostrare al non credente che, dopotutto, il cristianesimo ha un volto e delle risorse – come sono anche state chiamate – non proprio deprecabili. Ciò potrebbe garantire a tutti quegli uomini di buona volontà a cui l’angelo annuncia la pace di percorre comunque dei tratti di strada assieme, interpellandosi a vicenda, nel rispetto delle reciproche differenze, ma consapevoli che si sta cercando di andare, con mezzi diversi, nella stessa direzione. Anche perché lo spaventoso analfabetismo religioso che paradossalmente appesta il nostro paese di campanili fa solo il gioco degli sbandieratori di rosari che non sapranno quello che fanno ma si fa sempre più fatica a perdonare.

(finito il 19 novembre 2021)

Ho parlato di

Bernard Sesboüé
Credere. Invito alla fede cattolica per le donne e gli uomini del XXI secolo
(Queriniana 2000)

trad. di P. Crespi

536 pp. | 42 €

(ed. or.: Croire. Invitation à la foi catholique pour les femmes et les hommes du XXIe siècle, Paris 1999)

giovedì 23 novembre 2023

La Primula rossa

Se questo libro fosse stato scritto oggi da un irriverente autore postmoderno che si fosse celato dietro allo pseudonimo di una baronessa ungherese per poter liberamente pasticciare con i tipici clichés dell’eroe senza macchia e senza paura al fine di mostrarne tutta la loro ambiguità, qualcuno evocherebbe senz’altro il colpo di genio. Ma qui, a differenza che nel racconto di Borges, non siamo alle prese con un novello Pierre Menard e con il suo tentativo di riscrivere, parola per parola, il Don Chisciotte tre secoli dopo: qui è già davvero tutto messo nero su bianco, sin dall’inizio, con una trasparenza così candida da non poter non suscitare un po’ di imbarazzo nel sia pur moderato nerd che mi porto dentro e che si è emozionato tante di quelle volte per le avventure dei suoi miti in calzamaglia.

Prototipo novecentesco di tutti i successivi campioni mascherati (questo suo esordio data appunto 1905), la Primula Rossa è infatti il leader di una rete segreta di nobiluomini inglesi (nobiluomini nell’animo come nel patrimonio, va da sé), i quali fingono solo di essere dandy preoccupati esclusivamente di come occupare il tempo fino alla prossima ora del thé, mentre in realtà organizzano degli spericolati blitz nella Parigi giacobina per sottrarre i poveri aristocratici alla lama della ghigliottina e scortarli verso le bianche scogliere di Dover, dove potranno finalmente tornare a respirare l’aria pulita della civiltà anziché il puzzo della feccia sanculotta (sarebbero tecnicamente anche loro taxisti del mare, ma poiché trasportano dei ricchi signori anziché dei poveri cristi non lo si dice e anziché gli strali dei benpensanti si guadagnano i sospiri delle loro figlie adolescenti). Nessuna concessione nemmeno all’ombra di una sfumatura, figuriamoci alle radici sociali o politiche dei problemi. Alla principessina Orczy, scampata anch’essa da piccola a una rivolta contadina, pare del tutto inconcepibile che qualcuno possa voler rovesciare il mondo incantato della sua infanzia asburgica. Per lei i buoni sono sempre aquile impavide che frangono le correnti a mille piedi d’altezza e i cattivi squallidi ratti sprofondati nella melma del loro bieco risentimento, «belve assetate di sangue, belve sotto spoglie umane, che aspettavano la preda per dilaniarla senza pietà come un branco di lupi affamati, solo per soddisfare il proprio odio».

Partendo da simili premesse, ripetute quasi come un mantra, oggi si potrebbe arrivare a immaginare ronde di Macho-men pronte a fare da scudo ai molestatori accusati di violenza da gruppuscoli di frigide femministe isteriche per aver dato una pacca sul sedere a una bella ragazza senza il suo consenso o giustizieri israeliani che si avventurano nei cunicoli di Gaza uccidendo chiunque passi loro a tiro perché, se non è un terrorista, sarà comunque complice di un terrorista, fosse pure un neonato: non è purtroppo così difficile da immaginarselo, una sorta di super-Capezzone che spara raggi letali addosso ai servi che si permettono di non prostrarsi in adorazione dei padroni. Ora, che personaggi come Tony Stark e Bruce Wayne se ne vadano in giro a picchiare teppisti da quattro soldi per sfogare i loro conflitti interiori irrisolti, ammantandoli così di un’aura fascinosa e romantica da bei tenebrosi, mentre le rispettive aziende multimilionarie contribuiscono a scavare solchi sempre più profondi di autentica ingiustizia vendendo armi agli sceicchi o speculando sulle materie prime, lo si è in fondo sempre saputo, ma abbiamo fatto finta di non vederlo, perché col tempo si è cercato di edulcorarlo e perché comunque ogni tanto si ha pure il bisogno di accantonare tutte le complicazioni del mondo, alleggerirsi la coscienza del peso di non sapersi districare tra le ragioni e i torti e abbandonarsi con semplicità di cuore a una versione lineare degli eventi, chiarissima, in cui il bianco sta da una parte, il nero dall’altra e tutto si risolve a cazzotti – se no, sai che pesantezza (del resto, non sterminavo anch’io, senza troppi rimorsi, la feccia ribelle, quando mi si sollevava contro a Europa Universalis?). Alla fin fine, anche l’avventura della Primula Rossa è così meravigliosamente ingenua, prevedibile e priva di spessore da risultare perfino divertente - e va dunque gustata per quello che è, una potente macchina narrativa che, se a distanza di un secolo, perde ogni tanto di brio, non è per colpa sua, ma perché, proprio per la sua efficacia, è stata saccheggiata da migliaia di sceneggiature successive che hanno contribuito a forgiare il nostro immaginario collettivo. Tuttavia, diretta com’è, un po’ di veleno in corpo te lo lascia, nel momento in cui ti sbatte in faccia che le presunte grandi responsabilità sono solo un modo per ingentilire (e legittimare) il fatto che ci debbano essere dei grandi poteri, suscitandoti il terribile sospetto che sotto la maschera dell’Uomo Ragno non ci sia mai stato tuo fratello Peter Parker, ma Elon Musk.

(finito il 12 novembre 2021)

Ho parlato di


Emma Orczy
La Primula rossa
(Feltrinelli 2020)

trad. di G. Carlotti

304 p. | 11 €

(ed. or.: The Scarlet Pimpernel, 1905)







lunedì 23 ottobre 2023

Il pericolo di un'unica storia

Sia detto per inciso che, per quanto abbia le pagine di carta, una rilegatura a norma e la sua riconoscibile copertina, a rigore ceci n’est pas un livre, trattandosi della trascrizione di una Ted Conference che l’autrice ha tenuto nel 2009 e che chiunque può tranquillamente ascoltarsi online, gratis, persino coi sottotitoli in italiano – e poiché c’è una bella differenza tra lo scrivere immaginando di rivolgersi a un pubblico uditorio oppure a un singolo lettore solitario, consiglierei al curioso di andarsela a ricercare in rete (dura poco meno di venti minuti), in modo da usufruirne nella modalità per cui era stata originariamente pensata. Però, dal momento che io invece di qui sono passato, di questo parlo.

Se ci sono arrivato è per diretta continuità con l’ultimo libro recensito. Gli scrittori sono estremamente sensibili al potere delle storie, avendone fatto il loro mestiere. Chi altri potrebbe infatti apprezzarne di più la forza assolutamente magica che consente loro di contornare un ideale e trascinarlo poi dal piano dell’etereo a quello concretissimo dell’esistenza quotidiana, trasmutandone all’occorrenza la forma e le proprietà? “Gran dominatore” è la parola – diceva già Gorgia – “che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere”. E così, se Labatut spiegava che la nostra fame di storie ci spinge a inventarcene anche di totalmente folli, per ovviare alla nostra crescente incapacità di capire il mondo, Ngozi Adichie, che ha una manciata di anni più di lui e più di me, sottolinea le controindicazioni che si verificano quando di tutte le storie possibili si fa un unico fascio (e non lo dico a caso). Non poteva che essere una storia, la sua storia personale, ad averglielo reso evidente. «Ho iniziato a scrivere – racconta – e tutti i miei personaggi erano bianchi, anche se vivevo in Nigeria, perché così facevano i personaggi dei libri inglesi che leggevo». Neanche le era passato per la mente che i libri potessero contenere altro: «dato che avevo letto solo libri in cui i personaggi erano stranieri, mi ero convinta che i libri, per loro natura, dovessero avere personaggi stranieri, e dovessero parlare di cose con cui non potevo identificarmi». E si capisce, persino leggere Lolita a Teheran perderebbe tutta la sua carica eversiva se a Teheran non si potesse leggere altro che Lolita. Il paradosso è che, quando poi si è trasferita negli Stati Uniti a studiare, la sua coinquilina americana è rimasta sconcertata dal fatto che parlasse un inglese fluente, sapesse usare un fornello e ascoltasse Mariah Carey anziché musica tribale. «La mia coinquilina aveva un’unica storia dell’Africa» e con quella storia la sua nuova amica Chimamanda, nonostante quel nome così esotico, sembrava non c’entrare nulla. Persino uno dei suoi professori americani aveva liquidato il suo romanzo osservando che “non era abbastanza africano”, perché i suoi personaggi guidavano automobili e non morivano di fame (che poi anche l’idea di una “storia dell’Africa” è abbastanza discutibile: «prima di andare negli USA non mi consideravo africana, consapevolmente. Ma in America ogni volta che si parlava di Africa ci si rivolgeva a me, anche se non sapevo nulla di posti come la Namibia. Ora mi considero africana anche se mi irrita quando ci si riferisce all’Africa come a unico Paese». Chissà cosa penserebbe di quel leghista di genio che all’Africa vorrebbe addirittura vendere Lampedusa...).

Il meccanismo è abbastanza semplice: «mostrate un popolo come una cosa sola svariate volte e quel popolo diventa quella cosa», per esempio un concentrato di terroristi assetati di sangue o un’orda di minacciosi predatori di donne e lavoro. «Il potere è la possibilità non solo di raccontare la storia di un’altra persona, ma di farla diventare la storia definitiva di quella persona». L’alternativa proposta non è però quella di rovesciare quella storia, come si fa con le statue dei personaggi scomodi, sostituendola con una storia opposta, altrettanto definitiva e altrettanto sospetta, ma accettare la possibilità di una pluralità di storie, persino sulle stesse vicende, perché la realtà è per sua natura complessa e controversa e non c’è punto di vista che possa presumere di riassorbirla completamente. Non mi pare, del resto, che si renda un buon servizio alle giuste cause se le si infioretta troppo, perché sarebbe un po’ come ammettere che, prive di trucco o di artifici, perderebbero quella credibilità che dovrebbe derivare dalla loro autenticità, con tutto il suo carico di contraddizioni. Il che non vuol dire garantire semplicemente la proliferazione delle voci, se no finiremmo per ricadere invariabilmente nel dramma di questi giorni, in cui, prigionieri ciascuno di un’unica storia - la propria -, continuiamo in realtà a monologare e a dividere il mondo in fazioni inconciliabili, dichiarando preventivamente di stare con questi o con quelli, senza capire che una storia non può in realtà mai stare senza l’altra e – soprattutto – che una storia non è davvero una storia se manca un ascoltatore che la raccolga e sia disposto a farsi mettere in discussione da essa. Perchè mai dovrei infatti confrontarmi con qualcuno, se sono convinto di sapere già tutto quello che quel qualcuno avrà da dirmi? «L’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia»: addomesticano, semplificano, riducono. Le storie hanno però questo di bello: se è vero che, quando si consolidano, possono diventare un macigno sotto il cui peso restare, non solo metaforicamente, schiacciati, al tempo stesso sono anche sufficientemente duttili per riaprire sempre e di nuovo gli orizzonti quando non sappiamo più dove sbattere la testa. Quante volte è accaduto che proprio l’inizio di una nuova storia ci abbia tirato fuori dall’abisso? Persino la rivelazione biblica, per chi ci crede, è assai più storia, con i suoi alti e bassi, anziché norma assoluta. E dunque non stanchiamoci mai di raccontare, ascoltare e divulgare quante più storie possibile: che ce ne rendiamo del tutto conto o no, sarà anche quella una forma di resistenza.

(finito il 10 novembre 2021)

Ho parlato di


Chimamanda Ngozi Adichie
Il pericolo di un'unica storia
(Einaudi 2020)

trad. di A. Sirotti

48 pp. | 7 €

(ed. or.: The Danger of a Single Story, TED Conference, 2009)


lunedì 2 ottobre 2023

La pietra della follia

Sinceramente, poteva forse uno come me, che da ragazzetto osava intitolare al grande Chtulhu persino le sue squadre di fantacalcio, restare insensibile al richiamo di un libretto in cui due totem quali Lovecraft e Philip Dick vengono celebrati per la loro capacità di rendere conto, meglio di chiunque altro, del cronico disorientamento cui il nostro tempo sembra averci condannato? “Gli uomini di più ampio intelletto sanno che non c’è netta distinzione tra il reale e l’irreale”, scriveva l’uno nel racconto che solitamente apre il canone, e quante volte me la sarò ripetuta quella frase, mandandola a memoria, per giustificare un certo qual desiderio romantico, e in fondo innocuo, di evasione dalla prosaicità dell’esistente, prima di prendere coscienza, non senza sgomento, che pian piano siamo sprofondati per davvero in «un incubo collettivo e paranoico in cui non abbiamo più accesso al reale», proprio come in un romanzo dell’altro, e constatare che è tutt’altro che rassicurante viverci dentro. Mi tocca a malincuore contraddire Battiato: in quest’epoca di pazzi abbiamo più che mai bisogno degli idioti dell’orrore. Per la verità, sono ormai decenni che la cultura di destra ha arruolato Lovecraft tra le sue fila, sostenendo a grandi linee, e con qualche motivo filologico, che i mostri innominabili di cui popola le sue pagine non sarebbero altro che una proiezione fantastica della minaccia portata agli antichi ordini della buona vecchia Nuova Inghilterra dalla moderna società meticcia, eppure quanto maggiormente somigliano quelle creature orrende agli odierni profeti della non-ragione, ai seminatori d’odio, ai demagoghi di quarta tacca che solleticano le parti più oscure del nostro inconscio e gongolano di soddisfazione credendo di essere tanto più geniali quanto più rimestano con sordido piacere nella merda a caccia di becero consenso... Cari amici che condividete i miei stessi gusti letterari, ma non sembra anche a voi che il sovrapporsi delle solite vocette petulanti nei talk-show produca un suono terribilmente simile al gorgogliare ottuso dei flauti della corte di Azathoth? E non vi sembra di scorgere lo zampino sinistro di Nyarlathothep ogni qual volta il terrore tracima in violenza compiaciuta e disumana?

Questo nostro mondo faticosamente scampato a un’apocalisse nucleare attende la ben più violenta onda d’urto di una crisi isterica che lo travolgerà definitivamente e siamo in tanti – ma a quanto pare non così tanti – a sospettare «che questa piccola fortezza, questa cittadella della ragione e dell’ordine che abbiamo costruito, sia completamente accerchiata, e che le sue mura, per quanto alte, possano essere facilmente sfondate, non solo dall’esterno ma anche dall’interno». Abbandonarsi alla sindrome da stato d’assedio è però già una forma di resa, mentre è proprio nell’ora del massimo pericolo che occorre mantenere la mente lucida. Questo saggio offre appunto delle intuizioni che potrebbero aiutarci a non farci prendere dal panico per quello che è un contraccolpo inatteso della modernità. Da almeno un paio di secoli, infatti, abbiamo affidato le chiavi del regno alla scienza, con la convinzione che in questo modo tutto sarebbe diventato finalmente più chiaro. Qualcosa, però, non ha funzionato. Da un lato, la complessità crescente delle interconnessioni globali e l’emergere di novità imprevedibili in quanto espressione di sistemi caotici e non lineari di cause sta determinando «un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione» di quel che ci circonda; dall’altro, e soprattutto, più spingiamo in avanti il nostro sapere e più scopriamo, contro ogni evidenza, che «la fiaccola della ragione non è più sufficiente a illuminare l’intricato labirinto che sta prendendo forma (...) intorno a noi». Anzi, «a mano a mano che la scienza lentamente dipana i misteri dell’universo, la realtà che si presenta ai nostri occhi è, per paradosso, ancora più difficile da afferrare. Se ciò che sappiamo aumenta, per così dire, alla velocità della luce, ciò che non capiamo prolifera alla velocità del buio, ossia non è costante ma cresce in modo esponenziale, come l’energia oscura che sta lacerando il cosmo».

Mefistofele, i patti erano altri. Per carità, la scienza ha smaltito da tempo la sbornia positivista e ha riconquistato la dovuta cautela, in quanto sa benissimo che deve procedere per prove ed errori e fare i conti con un mondo decisamente molto più strano di quanto si poteva immaginare, ma non è questo quello che vorremmo sentirci dire. Dal medico, come dagli antichi sciamani, agogniamo infatti una parola di guarigione, non ipotesi o congetture – e non appena ci sfiora l’ombra della complessità subodoriamo subito la truffa, poiché ci mancano gli strumenti per comprenderla. D’altronde, vivere in un mondo indeterminato prodotto da fluttuazioni quantistiche che non ci avevano necessariamente previsto è assai stressante, soprattutto dopo millenni di grandi racconti sorretti da una trama definita come in un romanzone ottocentesco, con un inizio e una fine ben precisi. «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento». E allora i folli che stanno prendendo il sopravvento non vanno considerati dei semplici squilibrati, ma come degli amanti delusi che, non potendo accettare che la loro donna li abbia traditi, si ingegnano con metodo a dimostrare che la realtà non può essere come effettivamente appare: è questa, appunto, la scomposta coerenza dei grandi complottisti, per i quali tutto torna comunque e c’è sempre uno schema in grado di spiegare facilmente ciò che i poteri forti vorrebbero invece farci credere inspiegabile. «Dopotutto, i sinuosi sentieri dell’irrazionalità possiedono una loro invitante, quasi organica bellezza, un fascino tentatore che le linee rette della logica e le banali connessioni causa-effetto di certo non possiedono». La follia è insomma l’ultima metamorfosi della volontà di potenza, un delirio di controllo che vorrebbe piegare la realtà alle nostre fantasie, perché non accettiamo l’idea «che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista». Sono invece sempre più convinto che diffondere strenuamente questa consapevolezza sia essenziale per salvarci.

(finito l'8 novembre 2021)

Ho parlato di


Benjamin Labatut
La pietra della follia
(Adelphi 2021)

trad. di L. Topi

77 pp. | 5 €

(ed. or.: The Stone of Madness, 2021)

sabato 9 settembre 2023

I grandi cimiteri sotto la luna

Per continuare in un certo senso il discorso, evidentemente anche della guerra di Spagna si può dire che è ben lontana dall’aver esaurito tutto quello che aveva da dirci, se un libro come questo, anziché retrocedere a semplice documento storico, conserva inalterata, a distanza di tanti anni, la sua urticante abrasività originale. Al suo apparire fu apprezzato moltissimo da Simone Weil, che vi ritrovò una profonda corrispondenza con quanto lei stessa aveva avuto modo di toccare con mano nella sua breve e deludente esperienza di combattente, nonostante l’autore, un cattolico conservatore militante, fosse ideologicamente ai suoi antipodi (ma probabilmente fu proprio tale paradosso a colpirla). Basti pensare che, quando Franco fece la sua mossa, Bernanos, allora residente a Maiorca, salutò con favore il tentativo di rovesciare quella repubblica progressista e anticlericale che lui, monarchico cantore di curati di campagna, certo non amava. Del resto, in quello stesso giro di anni, non pochi suoi connazionali con analogo pedigree, sedotti dalle parate di Norimberga, avevano ormai imparato a strozzare in gola tutto il violentissimo revanscismo antitedesco assorbito in gioventù e stavano cominciando a gridare con sempre maggior convinzione “meglio nazisti che rossi, meglio Hitler che Blum”.

«Non avevo dunque alcuna obiezione di principio da sollevare contro un colpo di stato falangista o carlista. Credevo e credo di conoscere la parte legittima, la parte esemplare delle rivoluzioni fascista, hitleriana o anche stalinista. Hitler, Stalin e Mussolini hanno perfettamente capito che solo la dittatura avrebbe stroncato l’avarizia delle classi borghesi». Con la borghesia benpensante Bernanos ha infatti un conto aperto: come molti altri detesta di cuore la modernità che essa ha prodotto, con la sua ottusa fiducia nel progresso, la sua imbecillità diffusa (rischia di valere per tutti quel che a un certo punto dice, in modo folgorante, del povero, ovvero che «oggi non è più analfabeta: è rimasto ignorante»), il dominio della mediocrità conformista, l’appiattimento su valori puramente terreni, il considerare come totem intoccabile una democrazia che, nonostante il nome, nei fatti è solo uno scontro tra gruppi ristretti di potere, dal momento che «una vera democrazia del popolo è inconcepibile», a maggior ragione da quando la massificazione novecentesca ha fatto regredire il popolo, da spontaneo depositario di una saggezza antica e piena di buon senso, a massa anonima e facilmente manovrabile di individui intercambiabili. Il fatto stesso che una tale società abbia periodicamente bisogno di una guerra mondiale per riassestarsi è un segno inequivocabile che si tratta di un regime insostenibile e del tutto sbagliato. Probabilmente, nei suoi sogni, Bernanos vagheggia un ordinamento in cui cavalieri, sacerdoti e contadini cooperino armonicamente, stando ciascuno al proprio posto, come le persone della Trinità divina – e se ci fosse da impugnare la spada per rendere concreta questa possibilità sarebbe il primo, così dice, a gettarsi nella mischia. Ma sebbene per un attimo ci abbia creduto anche lui, la piega che prendono gli eventi non appena le Baleari passano sotto il controllo franchista gli mostra tutta un’altra storia, assai più meschina. Per cui decide di prendere quell’altra spada che gli è congeniale – la penna – e affonda questa durissima requisitoria, indirizzandola a quegli uomini d’ordine la cui angoscia per il tempo presente annebbia a tal punto la mente da impedire loro di capire che quella in cui si sono così gioiosamente arruolati non è affatto la buona battaglia, è anzi tutt’altro che una buona battaglia. «Non avevo nulla da dire alla gente di sinistra. Era a quelli di destra che desideravo parlare», e per farlo riversa su di loro quel linguaggio apocalittico che a loro piace così tanto.

Ciò che lo scrittore francese vede in quel «carnaio» che è diventata la Spagna, e che minaccia di essere l’«immagine di quel che sarà domani il mondo», non è infatti una guerra di principi buoni contro principi cattivi, e men meno che la crociata contro il Male benedetta dalla conferenza episcopale spagnola. Intendiamoci, «non è l’uso della forza che mi sembra condannabile, ma la sua mistica; la religione della forza messa al servizio dello stato totalitario, della dittatura della Salute Pubblica, considerata non come un mezzo ma come un fine». Certo, da una parte ci sono i rossi, con cui Bernanos non vuole avere nulla a che spartire. Ma dall’altra? Siete sicuri, dice ai suoi, che sotto le insegne del fascismo dilagante ci siano davvero i valori che pensate di difendere? O non siamo in presenza di un furto in piena regola, fatto sotto il vostro stesso naso, delle «parole magiche: giustizia, onore, patria» - e, peggio ancora, dell’appropriazione indebita del cristianesimo stesso e dei suoi simboli - allo scopo di dare una parvenza di presentabilità a quel mostro totalitario che è solo l’ennesima diabolica metamorfosi del moderno materialismo ateo e pagano? «Se c’è uno spettacolo da far vomitare, è quello dei monarchici francesi che mendicano i servizi della democrazia nella sua forma più bassa, e tuttavia nuova». Ma poiché nei vecchi principi ormai ci credono in pochi, alcuni «disgraziati» hanno pensato appunto che per difendere i sani principi di una volta occorresse sovraeccitare i «nervi a pezzi» degli «uomini medi» con lo spauracchio della rivoluzione sociale, senza rendersi conto di quale «spaventoso, demoniaco potere» sarebbero andati a evocare, giacché «è un grosso inganno pensare che l’uomo medio sia suscettibile solo di passioni mediocri»: tutt’altro, «con il sedere in fiamme, correrà a rifugiarsi in una qualunque ideologia da cui un tempo sarebbe rifuggito con orrore». Così si è firmata una cambiale in bianco a Hitler e Mussolini, ma quello che viene presentato come il nuovo esercito di Cristo è solo un aggregato di impauriti piccoloborghesi a cui è stata data una divisa e un buon motivo per sgravarsi la coscienza di ogni crimine, in virtù di un sedicente fine superiore. In questo modo, però, nazionalisti e clericali «compromettono grandemente la causa che vogliono servire, perché coinvolgono, a favore di alleati i quali nient’altro hanno da perdere che se stessi, preziose tradizioni, e persino il principio basilare dell’ordine, non potendo aspettarsi da loro che una resistenza cieca e astiosa contro ogni cambiamento». Perciò «non venitemi a parlare di crociata (…) giacché è mille volte meglio crepare che vivere nel mondo che state per costruire». Per quanto orrenda possa essere la società moderna, un mondo di picchiatori e gerarchetti è infinitamente peggio. Che abbaglio confondere la croce uncinata con la croce di Cristo!

Chi, all’interno della Chiesa, avalla tutto ciò come ultimo argine contro un mondo che non crede più in Dio non capisce che «se Dio si ritira dal mondo, vuol dire che si ritira innanzi tutto da noi cristiani». «Potete ridere, cari fratelli, non sono i comunisti né i sacrileghi che hanno messo in croce il Signore», ma quelli che rientrano nella «categoria dei devoti». Un cristiano non può non provare scandalo per i prelati che, mentre nelle strade di Maiorca scorre il sangue di chiunque sia solo sospettato di simpatia per il nemico, non sanno far altro che recriminare dal pulpito perché solo pochi fedeli hanno partecipato alla messa di Pasqua, per il doppiopesismo che tutela sempre «il diritto di proprietà, al punto che è possibile difendere a fucilate la propria casa, anche se uno ne ha parecchie, mentre con gli stessi mezzi non si può difendere il proprio salario, anche se non si possiede altro», per la disinvoltura con cui, se a ricchi e malvagi si dà giusto un buffetto con «le vostre inoffensive lettere pastorali di Quaresima», non ci si fa scrupoli di benedire le mitraglie con cui saranno fucilati i poveri quando si ribellano – poveri che, quand’anche malvagi, non sono certo da considerare responsabili della crisi economica che li divora. Quand’è così, «si capisce benissimo come la povera gente diventi comunista». Saranno proprio costoro, anche se oggi vengono buttati fuori dalla comunità, a giudicare un giorno i loro attuali carnefici. Insomma, il terrore di sparire dal mondo – che è poi un’attestazione di totale sfiducia in Dio – e il desiderio di tutelare la propria rendita di posizione spinge la Chiesa in un abbraccio mortale con chi ha tutto l’interesse a concederle l’appalto sull’aldilà, purché l’aldiqua resti saldamente nelle sue mani – e questo è inaccettabile per un’autentica coscienza cristiana.

Spesso l’affermazione che la giustizia non è di questo mondo ha giustificato un sostegno peloso ai regimi più brutali: se siamo in una valle di lacrime, si dice, non possiamo pensare di eliminare l’oppressione e l’ingiustizia sociale. Con la stessa mano di carte, Bernanos cambia gioco: proprio perché «la società umana è piena di contraddizioni che non saranno mai risolte», nessun conflitto può mai essere presentato come “totale”, definitivo o risolutorio, come uno scontro di civiltà, un armageddon, una lotta per la vita o la morte, anche perché, quando si accetta questa premessa, la conseguenza immediata è la pratica dello sterminio, resa ancora più capillare dalla meccanizzazione della guerra moderna. «Gli uomini hanno già troppi motivi per rompersi la testa» senza dovergliene regalare altri. Con tutto ciò, conclude Bernanos, «io credo alla guerra santa, io la credo inevitabilmente, credo inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini liberi. L’espressione “guerra santa” non mi pare giusta, però, che a metà: i veri santi fanno raramente la guerra, e in quanto agli altri – voglio dire quelli che si vantano di esserlo – Dio mi preservi dal giocare la mia ultima carta in loro compagnia. Io credo alla guerra degli uomini liberi, alla guerra degli uomini di buona volontà. (…) Intendo, per uomini liberi, gli individui che vorrebbero soltanto vivere e morire in pace, ma che rimproverano alla vostra mastodontica civiltà di bluffare sulla vita e sulla morte. (…) Potete anche non prendere sul serio questi avversari sparsi qua e là per il mndo, secondo la volontà del buon Dio; non hanno neppure l’aria, a prima vista, di radunarsi, perché non appartengono tutti alla stessa classe, agli stessi partiti, e non fanno tutti la comunione. Uomini di buona volontà! Perché non miti, pacifici? Ebbene, sì, mi dispiace per voi che siano proprio i miti, i pacifici, a cui non va a genio il vostro benedetto mondo». Ne avremmo dannatamente bisogno di bigotti così, per i quali il mondo moderno sarà pure un mondo al contrario, ma che quando vedono qual è veramente la compagnia in cui sono finiti, e anziché trovarvi, come magari credono, Isacco di Ninive, Dante o Francesco d'ASsisi, diradata la polvere, riconoscono gente come Feltri, Briatore o quella scriteriata con la maglia di Auschwitzland, abbiano la dignità di dire «ebbene, morire per morire, non credo certo che moriremo nelle vostre file».

(finito il 23 ottobre 2021)

Ho parlato di


Georges Bernanos
I grandi cimiteri sotto la luna
(SE 2017)

trad. di G. Spagnoletti

234 pp. | 25 €

(ed. or.: Les grands cimetières sous la lune, 1938)


venerdì 25 agosto 2023

L'esile filo della memoria

Provo un po’ di vergogna nel confessare che non avevo mai letto nulla di Lidia Rolfi e molta di più per aver pensato che quella vergogna dovesse ricadere su di me in quanto monregalese, anziché – come dovrebbe essere – in quanto italiano, se non in quanto essere vivente e pensante, giacché qui non si tratta evidentemente di esaltare una concittadina, per quanto meritevole di massima stima, bensì di riconoscere che un libro come questo, che riesce a tenere insieme l’immediatezza della testimonianza diretta di una ventenne, senza nulla concedere al patetico, e la lucidità della riflessione matura di una settantenne - una lucidità oltretutto calorosa, appassionata, tutt’altro che fredda, e proprio per questo fieramente antiretorica - meriterebbe senza dubbio di trovare assai più spazio nella nostra sbiadita memoria collettiva, per quel che racconta, ovvio, ma anche per le questioni, ancora attualissime, che pone e che lo rendono sorprendentemente moderno. Non so mai bene quanto siano efficaci le letture imposte dalla scuola (io che da studente le ho spesso rifiutate, quanto più le percepivo come “canoniche”), ma se quelle che propongono alle mie classi non dovessero superare la diffidenza degli allievi, i colleghi di italiano si consolino sapendo di trovare in me un discepolo docile, ancorché ritardatario. É proprio in questo modo, infatti, che ho colmato la presente lacuna.

Da come si apre il libro, uno potrebbe aspettarsi di trovarsi immerso in un clima d’euforia. In fondo la data posta in calce è quella del 26 aprile del ‘45, la guerra a un passo dalla fine, i lager finalmente aperti, il diritto di essere vivi non più insidiato dall’arbitrio di un qualunque sottoufficiale delle SS che gioca a fare Dio: a pensarci con raziocinio non ha nessun senso, ma la tentazione di immaginarsi questo momento come una grande festa collettiva, una sorta di gloriosa marcia dei redenti, è quanto mai forte. Basta però voltar pagina perché ogni ipotesi di melassa sparisca nello stesso fagotto in cui viene avvolto il corpo senza vita di una donna violentata e strangolata – e proprio non importa nulla che la vittima sia una donna tedesca, dunque una “cattiva”, e i suoi aguzzini dei soldati russi, ossia, in quel momento, dei “buoni”. Non lo è per noi, ma neppure per la giovanissima maestra, poi staffetta partigiana, poi internata che racconta costernata l’evento e che qualche motivo in più di noi per esigere una rivalsa ce l’avrebbe pure avuto. «La vendetta dei vincitori aveva ricominciato a reclamare le sue vittime e come sempre a pagare non erano le responsabili, le Aufscherinnen del Lager, ma quelle donne costrette a subire per vendetta lo stesso trattamento che altre donne, in Russia, avevano subito dai tedeschi invasori. La vendetta! Sì, qualche volta, nei momenti peggiori, potevo anche averla desiderata o almeno pensata, ma non così, non in quel modo, non a guerra finita. Quella notte stentai a prendere sonno. Quella notte mi è tornata tante volte, troppe volte, alla memoria, una goccia nel mare della vergogna della guerra, una goccia che non sono ancora riuscita a far evaporare, che non vuole evaporare, che emerge sempre quando vedo i mucchi di corpi senza vita dei Lager o quelli delle tante altre guerre che hanno insanguinato e continuano a insanguinare il mondo».

Con questa amara constatazione comincia il complicatissimo ritorno di Lidia a quella sua vita “di prima” che non potrà mai essere una vita “come prima”, perché lei, nel frattempo, è cambiata tantissimo, mentre il piccolo mondo antico da cui era stata strappata con la forza durante una retata nazifascista no, e ora di una donna intelligente, grintosa ed emancipata come lei non sa proprio che farsene. Neanche un conflitto mondiale ha scardinato il principio per cui «le donne per bene stanno a casa, allevano i figli, servono gli uomini, oppure insegnano, ricamano, cucinano. Poi ci sono le altre e io avrei potuto essere una di quelle». Per la sua particolarissima storia di donna deportata – e deportata non per ragioni razziali, ma perché impegnata in prima persona nella lotta di Liberazione – non c’è spazio neanche nel racconto condiviso che comincia a costruirsi sin dalle prime tappe dell’odissea dei reduci, figuriamoci a casa, dove deve sopportare i rimproveri dei familiari e le maldicenze di quei vicini che la sanno sempre più lunga di tutti. Che tocchi fare i conti con quelli che vivono sicuri nelle loro tiepide case e pretendono di emettere sentenze sull’universo mondo dall’alto della loro sedia a dondolo, passi pure: Lidia ha le spalle larghe. Fa molto più male il disprezzo dei professori universitari che non sopportano il privilegio accordato ai partigiani di iscriversi con un anno di retroattività ai loro corsi e le regalano voti minimi con domande di una banalità umiliante («due mesi non bastano per preparare seriamente il mio esame»: così parlò il titolare di Storia della filosofia), e ancor più l’allusione di quel capo partigiano secondo cui «le partigiane si fanno uccidere, non si fanno prendere prigioniere» (sottintendendo, come tanti altri, un’infamante connivenza col nemico). Più di ogni altra cosa, tuttavia, brucia soprattutto l’esclusione dal diritto di voto il giorno del 2 giugno, quando, sì, le donne sono per la prima volta ammesse ai seggi, ma solo quelle che hanno compiuto la maggiore età (ventun anni, allora) da almeno sei mesi – non lei, dunque, che ventuno li aveva fatti ad aprile ‘46. «Avevo avuto il diritto di combattere in nome della libertà e della democrazia, ma ero immatura per esprimere il mio voto. Fascisti, collaboratori, borsisti neri, arteriosclerotici, analfabeti, anormali, votarono tutti, portarono i malati in barella e i ciechi con l’accompagnatore, votarono anche i moribondi e io li guardai salire in quello che avrebbe dovuto essere il mio seggio, invidiosa di quel diritto che a me una legge che sembrava ingiusta aveva sottratto». Non è l’unica incongruenza: quando, superato il concorso, potrà scegliere la sua destinazione definitiva, scoprirà che «le poche sedi in città erano tutte classi maschili, riservate ai maestri maschi. (…) Le quarte e le quinte maschili delle città, tutte sedi comode, accessibili con i mezzi pubblici, erano riservate ai maschi». Per lei e quelle come lei, pluriclassi vacanti in montagna o in alta Langa.

A malincuore Lidia prende atto che la Resistenza ha prodotto figli e figliastri. Non era questa la giustizia «di cui si discuteva in montagna», quando, da fanatica adoratrice di Mussolini, era andata incontro a una rapidissima educazione politica, mettendosi in gioco in prima persona. La caduta del Duce ha solo portato a galla la pervasività di quella legge non scritta - assai più radicata del fascismo istituzionale, e in un certo senso garante del suo successo - che torna a stringersi intorno a Lidia come un cappio arcaico e patriarcale, soprattutto nel comparto scolastico, dove lei lavora, controllata e schedata da solerti funzionari insofferenti verso chiunque sgarri dalle buone vecchie tradizioni, anche se nei loro uffici ora è appeso il ritratto del Presidente della Repubblica anziché quello del Re. Tant’è che il dubbio le viene: «mi convincevo sempre di più che la liberazione era stata una gran buffonata, che i fascisti erano ancora tutti al loro posto e che forse avevano avuto ragione quelli rimasti alla finestra in attesa degli eventi». Non chiediamoci allora da dove saltino fuori i Vannacci: semplicemente, non si sono mai mossi di lì.

(finito il 10 ottobre 2021)

Ho parlato di


Lidia Beccaria Rolfi
L'esile filo della memoria
(Einaudi 2021)

230 pp. | 12 €

(ed. or.: 1996)

venerdì 4 agosto 2023

Sette brevi lezioni sullo stoicismo

Per carità, se Rovelli lo ha fatto con la fisica quantistica, cosa ci sarà mai di così complesso da non potere essere ridotto nello standard ormai codificato delle sette, mi raccomando brevi, lezioni? Io, che non sono nessuno, lo stoicismo a scuola lo comprimo ancora di più – non è quello il problema. M’infastidisce però la sciatteria dell’editore, che a un redivivo Cartesio chiederebbe di integrare il manoscritto delle sue Meditazioni in modo da poterle intitolare anch’esse, appunto, Sette brevi lezioni di filosofia prima, per dare al pubblico l’impressione di un sapere a presa rapida e di facile consumo. Qui, però, le cose stanno un po’ diversamente. Degli stoici – e in particolare degli stoici di cui parla Sellars, che non sono tanto i fondatori, quanto soprattutto gli epigoni – si è in un certo senso costretti a parlare in breve, per il semplice motivo che qualsiasi parafrasi rischierebbe di apparire goffa come la spiegazione di una barzelletta.

La teoria, in effetti, è piuttosto semplice. Spogliata di tutti i suoi presupposti fisici e metafisici, Sellars la riassume più o meno così, con parole che non a caso sono parzialmente riprese dalla peculiare grafica di copertina di questa collana: «e se qualcuno ci dicesse che molte delle sofferenze della nostra vita dipendono semplicemente dal modo in cui pensiamo le cose?». Pare l’uovo di Colombo. Se ci convincessimo davvero che il più delle volte non possiamo fare nulla per cambiare davvero quello che accade, ma siamo invece sempre in condizione di cambiare il nostro modo di vederlo, la felicità non sarebbe finalmente a portata di mano? In fondo dipende solo da noi scegliere se considerare un evento, che di per sé è solo un evento, un puro fatto – poniamo, la perdita del lavoro – «come se fosse un colpo terribile oppure come se fosse una sfida positiva». Analogamente, dipende solo da noi decidere come reagire a un atto di ostilità da parte di qualcuno. Se non reagiamo d’impulso, tirati per la catena dell’emotività, e ci mettiamo lì, con molta calma, prendendoci il tempo per riflettere, possiamo ad esempio capire che, se qualcuno che ci muove una critica dice il vero, «allora ha messo in luce una mancanza che possiamo ora affrontare. In questo caso, ci ha fatto un favore. Se ciò che dice è falso, allora è in errore e l’unico a essere danneggiato è lui. In entrambi i casi, noi non subiamo alcun danno dalle sue osservazioni critiche. L’unico modo in cui le sue osservazioni potrebbero causarci un danno reale e serio è se noi ci lasciassimo trascinare in uno stato di ira». Una volta che ci poniamo in questa prospettiva e non leghiamo più la nostra felicità a qualcosa che è al di là del nostro potere, «abbiamo il controllo su tutto ciò che conta veramente per il nostro benessere», saremo davvero liberi e nulla potrà più farci del male.

Ma per arrivare a una simile consapevolezza, se si ritiene promettente battere questa pista, non basta a volte una vita intera, altro che sette lezioni. Ci vuole esercizio costante, dedizione, metodo. «Se si smette di prestare attenzione ai propri giudizi anche solo per un attimo, si corre il rischio di ricadere in cattive abitudini. (…) Dobbiamo avere i nostri principi filosofici fondamentali sempre a portata di mano, così da non ricadere in giudizi errati. Questa è filosofia come pratica quotidiana e modo di vivere», qualcosa che assomiglia al discernimento religioso e che per le nostre abitudini moderne associamo più facilmente alla psicoterapia (ma d’altronde gli stoici stessi non esitavano a paragonare il filosofo a una sorta di personal trainer dell’anima, che predispone allenamenti adeguati per rinvigorire la mente anziché i muscoli). Anche Petrarca sosteneva qualcosa di simile, quando – in polemica con la stile filosofico dei cattedratici del suo tempo – incidentalmente fondò l’umanesimo moderno: a che ci serve saper distinguere analiticamente una per una le virtù, se non ci fornite gli strumenti per praticarle? Per raggiungere tale obiettivo non c’è altra via che la frequentazione costante e paziente dei maestri, così come all’uomo di fede non basta sapere che Dio c’è, ma occorre ruminare liturgicamente il vangelo per riuscire un giorno a vedere la perla nel campo.

Per provare a dare un’idea di cosa significhi tutto questo (visto che lo studio della filosofia al liceo è anche un modo per saggiare stili di pensiero differenti), quando arrivo a trattare questa parte, di solito leggo in classe tre bellissimi brani di Epitteto, Seneca e Marco Aurelio e poi, a partire da quel che essi hanno scritto, propongo ai miei studenti questi tre compiti: provate a distinguere tra le cose che avete il potere immediato di cambiare e quelle su cui non avete questo potere (mitigo un po’ il rischio implicito di quietismo invitando a un più equilibrato realismo: difficile modificare all’istante il carattere di una persona che mi irrita, posso però fare in modo che mi irriti un po’ meno); fate ogni sera la “lista” del tempo speso, per verificare come l’avete impiegato; fate l’elenco delle persone a cui siete grate perché vi hanno insegnato qualcosa. Non ho mai verificato davvero quanti studenti abbiano provato a seguire la consegna, anche se temo pochi, perché poi alla fine è sempre più facile limitarsi a memorizzare qualche dato e provare a ripeterlo, pensando che quello sia studiare. Sellars, che a differenza di me è uno che fa le cose in grande, organizza invece da tempo le Stoic week, una sorta di grande raduno virtuale in cui “invita a vivere come uno stoico per una settimana”. Lui assicura che «dal 2012 più di 20000 persone hanno preso parte a un esperimento globale online per vedere se vivere come uno stoico per una settimana possa incrementare il senso di benessere. Il risultato sembra dire di sì». Ecco perché sette lezioni posson bastare: questo libro avrà raggiunto il suo scopo se ti viene voglia di andare subito a compilare il modulo per l’iscrizione.

(finito il 5 ottobre 2021)

Ho parlato di


John Sellars
Sette brevi lezioni sullo stoicismo
(Einaudi 2021)

trad. di A. Taglia

112 pp. | 12 €

(ed. or.: Lesson in Stoicism, 2019)

lunedì 17 luglio 2023

Dune

Da ragazzino, desideroso com’ero di conoscere tutto il conoscibile e tuttavia consapevole di non sapere in realtà nulla del mondo (ancora nulla, mi piaceva credere, nella mia beata ingenuità), stimolato da un gioco venuto fuori quasi per caso facendo interagire fra loro i diversi pupazzetti che mi giravano per casa, per un certo periodo pensai che forse potesse valere la pena di forgiarmene uno tutto mio, di mondo, con la sua geografia, la sua storia e la sua mitologia, di cui fossi detentore unico e coscienza assoluta senza dover attraversare l’estenuante fatica del concetto. Vi centrifugai ciò che avevo saccheggiato dalle mie disperse letture, buttandoci dentro pure tutte le mie incipienti manie per le mappe, gli alberi genealogici, le lingue fittizie, e in generale per quelle ampie sezioni introduttive di giochi di ruolo a cui non avevo mai giocato e che chissà come mi erano comunque finite per le mani (non mi stancherò mai di sottolineare di avere avuto un’infanzia predigitale, quando le cose non erano così facilmente accessibili come oggi, specie in provincia, e certi incontri avevano davvero del miracoloso). Quel poco che ebbi il coraggio di sottrarre al piano della pura fantasia lo annotai su carta e purtroppo o per fortuna è pressoché del tutto andato perduto, salvo – ma queste vennero poi molto tempo dopo – le pagine iniziali di un possibile romanzo che in quel mondo avrei avuto intenzione di ambientare. Per un sussulto di lucidità o per mera pigrizia, però, non ci ho creduto abbastanza. Frank Herbert è invece uno di quelli che (come Asimov, come George Lucas, come Tolkien, come Eiichiro Oda) ci ha creduto fino in fondo e ne ha tirato fuori questo libro pazzesco che è Dune, con tutto il ciclo che ne consegue (per ragioni affettive gli preferisco pur sempre quello di Hyperion, che però senza Dune sarebbe stato inimmaginabile).

Qui si entra pianissimo, a poco a poco, proprio come se il corpo dovesse prendere davvero confidenza con un’altra gravità o il respiro con un’altra atmosfera. Tecnicamente, credo sia la parte più difficile da scrivere, perché si tratta di spiegare una alla volta le regole d’ingaggio disponendo le pedine sul tavolo, non solo senza disorientarti troppo, ma facendoti già un po’ provare l’ebbrezza del gioco. Per me – che sono capace di apprezzare la cornice più del dipinto (anche se qui la distinzione è opaca, in quanto la cornice, in un certo senso, è essa stessa il dipinto) - fu un’esperienza folgorante, immersiva, affrontata tutta d’un fiato, tanti anni fa, prima di abbandonare inopinatamente la lettura di colpo - mi piacerebbe pensare perché abbacinato dalla grandezza della visione (qualcosa di simile mi è davvero capitato, con Melville, con Dostoevskij, con Proust), ma più probabilmente per qualche fortuita coincidenza della vita (andando a rivedere le date, credo ci fosse di mezzo l’esame di ammissione al TFA, che assorbì per mesi quasi tutte le mie energie mentali). La curiosità per il film di Villeneuve mi ha spinto a riprendere il filo e a seguirne lo sviluppo sino alla fine. Ed è stato in quest’occasione che ho scoperto che, superata la parte iniziale, poi il libro accelera, eccome se accelera. Certo non è brevissimo – sono circa 700 pagine nella mia edizione – ma a soppesarlo tutto, a lettura finita, non sembra veramente possibile che ci stiano davvero tutte quelle cose, lì dentro (tant’è che il film stesso, in due ore e mezza, riesce a riprenderne solo la metà, a occhio e croce).

Naturalmente, come si conviene all’epica, che vive di archetipi, non tutti gli ingredienti sono originali. Abbiamo anche qui, come altrove, progetti segreti pianificati su scala cosmica e millenaria, frutto dell’interazione tra religione e genetica. Anche qui, come altrove, c’è un eletto e forse pure un’eletta che devono svelarsi al mondo, e la cui natura elettiva (almeno per lui) coincide con la precognizione di un possibile futuro in cui sembrerebbe responsabile di massacri di cui non vorrebbe macchiarsi – e dunque anche qui, come altrove, si assiste alla lotta tra un destino apparentemente segnato e gli scarti della libera individualità. Anche qui, come altrove, abbiamo un sistema politico feudalizzato, con casate in lotta per il potere, un imperatore truffaldino e gilde di commercianti che giocano una partita tutta loro. La stessa onomastica sembra voler veicolare subliminalmente qualche suggerimento: il protagonista e il suo clan sono infatti Atreides, esattamente come Agamennone e Menelao e tutta la loro stirpe di omerici parenti serpenti protagonisti di saghe e tragedie. Ma, esattamente come quando si beve un cocktail, ciò che si valuta è la capacità di far risaltare in modo nuovo gusti già noti, quel che suscita la mia infinita ammirazione è la padronanza, anche di dettaglio, con cui Herbert riesce a tenere tutto insieme in un universo coerente e intrigante, senza mai perdere ritmo narrativo.

Di specificamente suo ci aggiunge l’attenzione alla peculiare ecologia del pianeta Arrakis (alter ego di Dune), una sorta di gigantesco e inospitale deserto, dove i liquidi sono così preziosi che un atto come uno sputo è considerato un gesto di estrema cortesia, di cui non importerebbe nulla a nessuno, come avviene per analoghi scatoloni di sabbia della nostra Terra, se il suo sottosuolo non fosse l’unico luogo dello spazio in cui si trova il melange, una spezia capace di suscitare fortissime esperienze allucinogene e al tempo stesso necessaria per la navigazione spaziale, equivalente in un certo senso al petrolio per la moderna economia industriale (il libro esce pur sempre alla metà degli anni ‘60, e questo spiega in parte lo strano connubio tra psichedelia e terzomondismo). Tutto ciò rende il pianeta appetibile e conteso, ma solo in quanto oggetto di sistematico sfruttamento, come se questa fosse l’unica modalità d’interazione con l’ambiente praticabile dall’uomo. Su Arrakis vive però anche una popolazione autoctona, i Fremen, considerati da tutti gli altri popoli dell’Impero poco più che dei barbari. E invece è proprio all’interno di questa comunità periferica e schiacciata dalla storia galattica che nasce un’idea nuova. «Dobbiamo fare su Arrakis quello che non è mai stato tentato per un intero pianeta (…). Dobbiamo usare l’uomo come una forza ecologica costruttiva, inserire in questo mondo una vita terrestre, adattata: una pianta qui, là un animale, un uomo. Per trasformare il ciclo dell’acqua e creare un nuovo paesaggio». L’intero ecosistema di Arrakis può essere trasformato in meglio, con ricadute positive per tutti, se si abbandona la logica del profitto di chi arriva da fuori e si accolgono le intuizioni di chi vi ha sviluppato la propria originale cultura maturando con esso un’inedita forma di convivenza. Alexander von Humboldt avrebbe apprezzato molto tutto questo.

Al di là della sua capacità di generare intelligente godimento attraverso l’intreccio e il contesto, credo proprio siano questi temi a mantenere Dune in splendida forma, a distanza di sessant’anni. Più che il gusto di questo vecchio nerd, ne sia testimone l’entusiasmo di quel mio studente, appena maggiorenne (e, mi permetto di dire, proprio uno della “mia” cricca: ora fa storia), che i romanzi della serie se li è divorati tutti, uno dopo l’altro, con una tale voracità da spingere la lettura, tutte le mattine, fino all’inizio delle lezioni, e riprenderla, poi, quasi sempre, ad ogni suono di campanella. Niente da dire, caro Frank, hai proprio fatto centro.

(finito il 1 ottobre 2021)

Ho parlato di


Frank P. Herbert
Dune
(Fanucci 2012)

trad. di G. Cossato e S. Sandrelli

700 pp. | 4,90 €

(ed. or.: Dune, 1965)

lunedì 10 luglio 2023

Dante

L’ho già detto, lo sappiamo tutti, che non è per niente la stessa cosa leggere Barbero o ascoltarlo, ma il fatto che le sue performances dal vivo siano letteralmente fuori scala non deve indurci a pensare che i suoi libri vadano considerati come meri cumuli di carta straccia. Una volta entrato in questo ordine di idee, superato lo scoglio della prima volta, la seconda è venuta quasi da sé, anche perché la mia fissa sugli anniversari ha travolto facilmente ogni snobismo di fronte all’evidente marchettone per il settecentenario dantesco del 2021.

Della vita di Dante, per la verità, sappiamo bene o male tutto quello che si può sapere, comprese quali sono le cose – tantissime – che non sappiamo affatto e che difficilmente potremo mai sapere, perciò da un nuovo libro su Dante non ti aspetti tanto che metta per l’ennesima volta in fila gli eventi, ma che ti offra un’inedita chiave di lettura per interpretarli, a maggior ragione se il testo in questione, per quanto scritto da un noto divulgatore, ha l’ambizione di non essere meramente divulgativo, e se costui è uno storico a tutto tondo, e non uno storico della letteratura o un critico letterario, perché è probabile che il suo occhio possa aiutarci a vedere meglio qualcosa che altri magari non hanno adeguatamente sottolineato (e viceversa, ovviamente: perciò qualcuno potrebbe non trovare qui quello che s’aspetta). Non per nulla il libro non comincia il giorno della nascita di Dante, ma l’11 giugno 1289, quando di anni Dante ne aveva già ventiquattro e, schierato nella prima fila dell’esercito fiorentino, attendeva tremando l’inizio dello scontro contro gli odiati aretini nella piana di Campaldino. Scrive infatti Barbero che «per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua condizione sociale» - non direi per un rigurgito di materialismo storico, ma perché per Dante si tratta davvero di «una questione importantissima, da cui dipendevano la sua collocazione nella società fiorentina e i rapporti con i suoi migliori amici» - e per comprendere la posizione sociale di un uomo del Medioevo (e non solo) occorre spesso partire proprio dalla posizione da lui occupata in battaglia.

E qui, però, cominciano le complicazioni. Perché, se «fuori d’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili», in una città come Firenze «chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento, e diventare un cavaliere a pieno titolo», imitando stili e vezzi di chi cavaliere lo era davvero da generazioni (e assumendosene anche gli oneri, come Dante scopre appunto sulla sua pelle quando viene arruolato). E dunque lui da che parte sta? É un nobile o non lo è? E se non lo è, che cos’è? Una parte consistente del libro prova appunto a rispondere a questa domanda – ed è qui, soprattutto, che viene fuori l’imprinting del medievista e la sua consuetudine a scartabellare atti duecenteschi di compravendita, rogiti, testamenti e fideiussioni. Ora, pur riconoscendo che «la considerazione più importante suggerita da queste carte è ancor sempre che non ne capiamo davvero niente: perché la cosa più importante, e cioè i motivi per cui questi soldi passavano di mano in mano, non è mai espressa», quel che se ne può concludere è che la famiglia di Dante – che aveva un cognome (gli “Alighieri”, ovviamente) e «avere un cognome significava appartenere a (...) una famiglia conosciuta e influente» - si collocava senz’altro nello strato superiore della società fiorentina del tempo, senza però essere davvero tra quelle più in vista, tanto che, pur essendo tradizionalmente guelfa, non fu messa al bando dopo la vittoria ghibellina a Montaperti, motivo per cui Dante stesso poté tranquillamente nascere a Firenze nel 1265. Gli Alighieri erano sostanzialmente «uomini d’affari, con le mani in pasta in tutte le occasioni in cui c’era da guadagnare qualcosa», e in virtù di questi affari avevano col tempo acquisito un patrimonio tale da permettere infine al loro ultimo rampollo di «vivere di rendita, perseguendo occupazioni aristocratiche» - ma non erano cavalieri. E questa condizione ambigua (“mezzana”, si sarebbe detto allora) segnò dall’inizio alla fine la vita e la riflessione di Dante, che non per nulla espresse «idee contraddittorie circa la nobiltà (…): diverse a seconda del momento, tanto da far pensare a un’evoluzione delle sue idee in proposito, e ancora di più a seconda che stesse affrontando la questione in termini teorici, oppure parlando molto concretamente di sé e della propria famiglia».

Se da un lato, infatti, egli cerca di retrodatare lo status raggiunto da sé e dai suoi inventandosi tramite il richiamo a Cacciaguida una genealogia nobilitante che non lo facesse apparire come un parvenu, dall’altra, però, polemizza apertamente con l’idea della nobiltà di sangue e, per una parte almeno della sua vita, si propone anche di elaborare un’immagine diversa di nobiltà, legata a valori spirituali e intellettuali. É proprio grazie alla letteratura, del resto, che lui stesso riesce a stringere rapporti duraturi con aristocratici “veri”, come i Donati o i Cavalcanti («Dante, se fosse stato solamente il figlio di Alighiero, l’avrebbero magari fatto sedere fra gli invitati più oscuri, ma siccome scambiava sonetti con loro, dava del tu ai figli dei cavalieri»), dai quali, però, lo separerà la politica, quando egli si schiererà apertamente con quella componente moderata della parte popolana sufficientemente ricca per essere inorridita «dalla dittatura della gente dappoco» e perciò «ben poco disposta a seguire il popolo minuto nella sua indiscriminata ostilità contro i grandi», ma altrettanto terrorizzata dalle violenze incontrollate dei magnati e pronta a scacciarli in caso di eccessi. Da questa scelta cominceranno tutte le sue sventure personali, ma forse sarebbe meglio dire la sua grande fortuna, perché sarà solo dopo l’esilio, e proprio grazie ad esso, che Dante potrà costruirsi quell’immagine di profeta universale che, com’è noto, non potrebbe mai funzionare nella tua patria, dove tutti sanno benissimo “chi fuor li maggior tui” (e al malizioso orecchio fiorentino dire “il figlio dell’Alighieri” sarà suonato più o meno come dire “il figlio del carpentiere”).

Questa attenzione al retrobottega non ridimensiona affatto la grandezza di Dante, così come non lo fanno le oscillazioni, i pentimenti, i cambi di marcia, i cortocircuiti, le autoindulgenze a cui si abbandona soprattutto quando dovrà affrontare la difficilissima condizione di ramingo. Sono semmai proprio queste piccinerie, i pregiudizi, certe meschinità che contraddistinguono l’uomo del suo tempo a rendere ancora più affascinante il suo sforzo eroico d’etternarsi.

(finito il 14 settembre 2021)

Ho parlato di


Alessandro Barbero
Dante
(Gedi 2021)

362 pp. | 13,90 €

(ed. or.: Laterza, 2020)

sabato 17 giugno 2023

Il treno per Istanbul

Questo romanzo è un ben congegnato (forse fin troppo ben congegnato) meccanismo ad orologeria che adatta, in un certo senso, le tre classiche unità aristoteliche di tempo spazio e luogo all’epoca dinamica dell’elettricità: un treno lanciato in corsa da una città ben definita (Ostenda) e diretto verso un’altra città altrettanto ben definita (Istanbul, ovviamente) diventa infatti come un palco in movimento, su cui, atto dopo atto - ovvero stazione dopo stazione -, e scena per scena - ovvero vagone per vagone -, nell’arco di un paio di giorni appena, si inseguono, si incontrano, si avvicinano anche tantissimo e poi però per lo più si allontanano irreparabilmente, le vite di una serie di personaggi rappresentativi (forse fin troppo rappresentativi) di quell’Europa sull’orlo di una crisi di nervi di inizio anni ‘30, quando appunto il libro fu scritto. Profonde innovazioni stavano allora trasformando l’industria culturale. «I film (...) avevano insegnato una cosa all’occhio: la bellezza del paesaggio in movimento, come un campanile si muoveva dietro e sopra gli alberi, come sprofondava e s’innalzava insieme al passo disuguale dell’uomo, e l’incanto di una ciminiera che svetta verso le nuvole, per poi scomparire dietro altre ciminiere. Bisognava comunicare con la prosa questo senso del movimento». E così in effetti accade in queste pagine. Benché alcune delle scene chiave della storia si svolgano in esterna, abbiamo comunque anche lì inseguimenti in automobile, fughe, continui cambi di ambientazione, per non farci mai dimenticare la malinconica verità che un viaggio in treno ci svela sulla vita: «rocce, case e nudi pascoli indietreggiavano a più di cento chilometri all’ora, e c’erano ancora tante cose da dirsi». Qualunque cosa accada, per quanti incidenti di percorso possano rallentare la marcia, il mondo in realtà non si ferma mai ad aspettarci.

Mi pare sia questo l’indizio più evidente che Greene concepì metodicamente questo libro con lo scopo preciso di farlo diventare un film, un prodotto, cioè, il cui tempo di fruizione è deciso dal regista, non dallo spettatore, che vi si deve adeguare. Non è privo di ironia che egli affidi le sopraccitate considerazioni sul cinema a un fatuo scrittore, il cui intento vorrebbe semplicemente essere quello di «restituire salute e buon umore alla letteratura moderna. Troppe introspezioni, troppa malinconia. In fin dei conti il mondo è un bel posto, pieno di avventure» (ricordate quella battuta del Caimano? “É sempre il momento di fare una commedia…” - e qui siamo nientemeno che alla vigilia della presa del potere di Hitler). Eppure anche Greene ci vende la sua opera come un “divertimento”, sebbene l’originale entertainment credo esprima meglio il proposito di creare qualcosa che avvinca, sì, nei contenuti non meno che nelle forme, senza che debba essere per forza divertente. La morale della favola sarà anche a suo modo comica, ma di una comicità disperante («il mondo era un caos: i poveri morivano di fame e i ricchi non per questo erano più felici») e così l’epigrafe di Santayana, secondo cui «in natura tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo fato, e comico nella sua esistenza». Tale è effettivamente il mood del romanzo. A cui, curiosamente, capitò qualcosa di simile al tracciato di questa parabola. Vendette subito bene, permettendo a Greene di farci parecchi soldi, ma quando poi un film lo divento davverò – abbastanza in fretta, nel 1934, col titolo Orient Express – quest’ultimo si rivelò una dimenticabile meteora, immediatamente soppiantato, nell’immaginario collettivo, dal giallo di Agatha Christie ambientato sullo stesso treno e pubblicato nello stesso anno.

L’idea era dunque nell’aria, come è giusto che sia per i prodotti, appunto, di intrattenimento (verso i quali – sia chiaro – non provo nessuna avversione, e che anzi tanto più mi affascinano quanto più questa loro capacità di fiutare lo spirito del tempo li rende poi utilissimi come involontarie fonti storiche). E sebbene nei due libri il viaggio proceda in direzione contraria (da ovest a est in Greene, da est a ovest nella Christie), in entrambi un momento cruciale della vicenda è legato a una sosta imprevista da qualche parte nei Balcani, una sorta di cuore di tenebra europeo su cui il treno scorre come un ponte sospeso tra i due lembi estremi della civiltà che congiunge (lo spirito di Conrad aleggia abbondantemente su queste acque). Per intenderci, sono regioni in cui, senza che sia possibile avvistare case per chilometri e chilometri d’intorno, non si sa come, non appena i viaggiatori sono costretti a fermarsi, dal nulla sbucano contadini locali che provano a vendere loro qualsiasi cosa, un po’ come ci era capitato di sperimentare in viaggio di nozze sugli immensi altopiani andini del Perù. Qui una volta era tutto impero asburgico, ora invece il territorio è solcato da confini che ancora contano, eccome se contano, per quanto il treno possa apparire a prima vista come un mobile non-luogo capace di perforarli ad uno ad uno col suo incedere, lo stesso incedere di quella modernità che, inventando anche l’aeroplano e la finanza, ai confini sembra essere sempre più indifferente. Se ne accorgerà tragicamente uno dei protagonisti del racconto, il dottor Czinner, leader comunista jugoslavo in esilio, roso dai sensi di colpa e deciso per questo a rientrare in patria, a costo della vita, per trasformare il processo cui agogna in una tribuna mediatica e offrire messianicamente il proprio martirio come scintilla per scatenare la rivoluzione, ma che sarà giudicato invece da un’oscura corte marziale improvvisata dalle guardie di frontiera di Subotica. «Muoio per indicarvi la strada», afferma. «Ma, mentre parlava, la parte più lucida della sua mente gli diceva quanto fossero poche le possibilità che la sua morte avesse una qualunque efficacia».

Anche questo sacrificio verrà inghiottito nelle fauci della storia, senza lasciar traccia. Come se il viaggio fosse un singhiozzo, una sospensione nel respiro, superato il quale si riprende regolarmente la propria vita di prima, capita in effetti, quando si arriva infine a un meta, che non si sia poi neanche tanto sicuri che siano veramente accadute le esperienze vissute durante il tragitto. In questi grotteschi novendiali per la morte del faraone credo che in tanti ce lo stiamo chiedendo, se tutto ciò che ricordiamo di questi ultimi trent’anni sia avvenuto davvero. Purtroppo, almeno per noi, le macerie non mentono.

(finito il 5 settembre 2021)

Ho parlato di


Graham Greene
Il treno per Istanbul
(Sellerio 2020)

trad. di A. Carrera

352 pp. | 14 €

(ed. or.: Stamboul Train, 1932)