Sinceramente, poteva forse uno come me, che da ragazzetto osava intitolare al grande Chtulhu persino le sue squadre di fantacalcio, restare insensibile al richiamo di un libretto in cui due totem quali Lovecraft e Philip Dick vengono celebrati per la loro capacità di rendere conto, meglio di chiunque altro, del cronico disorientamento cui il nostro tempo sembra averci condannato? “Gli uomini di più ampio intelletto sanno che non c’è netta distinzione tra il reale e l’irreale”, scriveva l’uno nel racconto che solitamente apre il canone, e quante volte me la sarò ripetuta quella frase, mandandola a memoria, per giustificare un certo qual desiderio romantico, e in fondo innocuo, di evasione dalla prosaicità dell’esistente, prima di prendere coscienza, non senza sgomento, che pian piano siamo sprofondati per davvero in «un incubo collettivo e paranoico in cui non abbiamo più accesso al reale», proprio come in un romanzo dell’altro, e constatare che è tutt’altro che rassicurante viverci dentro. Mi tocca a malincuore contraddire Battiato: in quest’epoca di pazzi abbiamo più che mai bisogno degli idioti dell’orrore. Per la verità, sono ormai decenni che la cultura di destra ha arruolato Lovecraft tra le sue fila, sostenendo a grandi linee, e con qualche motivo filologico, che i mostri innominabili di cui popola le sue pagine non sarebbero altro che una proiezione fantastica della minaccia portata agli antichi ordini della buona vecchia Nuova Inghilterra dalla moderna società meticcia, eppure quanto maggiormente somigliano quelle creature orrende agli odierni profeti della non-ragione, ai seminatori d’odio, ai demagoghi di quarta tacca che solleticano le parti più oscure del nostro inconscio e gongolano di soddisfazione credendo di essere tanto più geniali quanto più rimestano con sordido piacere nella merda a caccia di becero consenso... Cari amici che condividete i miei stessi gusti letterari, ma non sembra anche a voi che il sovrapporsi delle solite vocette petulanti nei talk-show produca un suono terribilmente simile al gorgogliare ottuso dei flauti della corte di Azathoth? E non vi sembra di scorgere lo zampino sinistro di Nyarlathothep ogni qual volta il terrore tracima in violenza compiaciuta e disumana?
Questo nostro mondo faticosamente scampato a un’apocalisse nucleare attende la ben più violenta onda d’urto di una crisi isterica che lo travolgerà definitivamente e siamo in tanti – ma a quanto pare non così tanti – a sospettare «che questa piccola fortezza, questa cittadella della ragione e dell’ordine che abbiamo costruito, sia completamente accerchiata, e che le sue mura, per quanto alte, possano essere facilmente sfondate, non solo dall’esterno ma anche dall’interno». Abbandonarsi alla sindrome da stato d’assedio è però già una forma di resa, mentre è proprio nell’ora del massimo pericolo che occorre mantenere la mente lucida. Questo saggio offre appunto delle intuizioni che potrebbero aiutarci a non farci prendere dal panico per quello che è un contraccolpo inatteso della modernità. Da almeno un paio di secoli, infatti, abbiamo affidato le chiavi del regno alla scienza, con la convinzione che in questo modo tutto sarebbe diventato finalmente più chiaro. Qualcosa, però, non ha funzionato. Da un lato, la complessità crescente delle interconnessioni globali e l’emergere di novità imprevedibili in quanto espressione di sistemi caotici e non lineari di cause sta determinando «un catastrofico fallimento della nostra capacità di comprensione» di quel che ci circonda; dall’altro, e soprattutto, più spingiamo in avanti il nostro sapere e più scopriamo, contro ogni evidenza, che «la fiaccola della ragione non è più sufficiente a illuminare l’intricato labirinto che sta prendendo forma (...) intorno a noi». Anzi, «a mano a mano che la scienza lentamente dipana i misteri dell’universo, la realtà che si presenta ai nostri occhi è, per paradosso, ancora più difficile da afferrare. Se ciò che sappiamo aumenta, per così dire, alla velocità della luce, ciò che non capiamo prolifera alla velocità del buio, ossia non è costante ma cresce in modo esponenziale, come l’energia oscura che sta lacerando il cosmo».
Mefistofele, i patti erano altri. Per carità, la scienza ha smaltito da tempo la sbornia positivista e ha riconquistato la dovuta cautela, in quanto sa benissimo che deve procedere per prove ed errori e fare i conti con un mondo decisamente molto più strano di quanto si poteva immaginare, ma non è questo quello che vorremmo sentirci dire. Dal medico, come dagli antichi sciamani, agogniamo infatti una parola di guarigione, non ipotesi o congetture – e non appena ci sfiora l’ombra della complessità subodoriamo subito la truffa, poiché ci mancano gli strumenti per comprenderla. D’altronde, vivere in un mondo indeterminato prodotto da fluttuazioni quantistiche che non ci avevano necessariamente previsto è assai stressante, soprattutto dopo millenni di grandi racconti sorretti da una trama definita come in un romanzone ottocentesco, con un inizio e una fine ben precisi. «Il fallimento della nostra capacità di raccontare su vasta scala cosa significhi vivere nella seconda decade del ventunesimo secolo e la perdita del dono divino della narrazione, quel potere prodigioso di descrivere il mondo attraverso la parola, cogliere il senso di ciò che ci circonda e adottare una storia comune, sono senz’altro le cause del nostro attuale stato di confusione e smarrimento». E allora i folli che stanno prendendo il sopravvento non vanno considerati dei semplici squilibrati, ma come degli amanti delusi che, non potendo accettare che la loro donna li abbia traditi, si ingegnano con metodo a dimostrare che la realtà non può essere come effettivamente appare: è questa, appunto, la scomposta coerenza dei grandi complottisti, per i quali tutto torna comunque e c’è sempre uno schema in grado di spiegare facilmente ciò che i poteri forti vorrebbero invece farci credere inspiegabile. «Dopotutto, i sinuosi sentieri dell’irrazionalità possiedono una loro invitante, quasi organica bellezza, un fascino tentatore che le linee rette della logica e le banali connessioni causa-effetto di certo non possiedono». La follia è insomma l’ultima metamorfosi della volontà di potenza, un delirio di controllo che vorrebbe piegare la realtà alle nostre fantasie, perché non accettiamo l’idea «che ci sia qualcosa nel cuore delle cose che si sottrae alla nostra comprensione, qualcosa che non riusciamo a vedere, per quanto ci sforziamo di guardare lontano nel futuro e per potente che sia la nostra vista». Sono invece sempre più convinto che diffondere strenuamente questa consapevolezza sia essenziale per salvarci.
(finito l'8 novembre 2021)
Ho parlato di
La pietra della follia
(Adelphi 2021)
trad. di L. Topi
77 pp. | 5 €
(ed. or.: The Stone of Madness, 2021)
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