Tre anni prima che lo facesse Pasolini sul Corriere della Sera, Sciascia aveva già pronunciato il suo personalissimo «io so», pubblicando un romanzo concepito come una parodia, iniziato «con divertimento» (perché, come sempre, in questo nostro povero paese «non è che non ci fosse da essere arrabbiati e da disprezzare. Ma c’era anche da ridere») e portato a termine, però, «che non mi divertivo più», forse perché l’«apologo sul potere nel mondo» che aveva in testa, «sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa», pur se ambientato in un paese di finzione, stava cominciando a diventare sin troppo simile alla realtà italiana del 1971 (o forse era stato così sin dall’inizio, ma è solo scrivendone che se ne era accorto davvero). L’operazione era oggettivamente arrischiata e risultò infatti contestatissima nella sua pretesa di essere contestuale: il meno che si attirò addosso fu l’accusa di qualunquismo, ma Raboni, per citarne uno tutt’altro che sprovveduto, arrivò addirittura a defìnire il libro «un raccontino scialbo e pretenzioso, incongruamente in bilico tra descrizione e allegoria, soprassalti pamphletistici e kakfismi di terza mano». Ebbene, col senno di chi arriva molto poi e non ne può più di quanti vedono trame occulte dappertutto perché l’hanno letto su internet, vien da pensare anche a me che, sì, forse si rende un servizio migliore all’intelligenza se la si applica nell’analisi circostanziata e filologica degli eventi, anziché nella delineazione di quadri d’insieme che rischiano di non spiegare nulla perché si propongono di spiegare tutto (del resto, anche il prototipo di tutti i j’accuse riportava nomi, cognomi e prove). Però tutto questo Sciascia l’ha fatto, e benissimo, in tante altre occasioni e, non trovandomi nella condizione di dover commentare un romanzo appena uscito, ma potendo al contrario considerare, in retrospettiva, l’intera sua produzione, mi tengo stretto il privilegio di poter prendere quanto qui scritto non come la sua parola definitiva, bensì come una semplice tessera di un mosaico ben più ampio – e provo a suggerne qualche spunto di riflessione.
Il racconto comincia con un morto ammazzato al termine della prima frase, cui se ne aggiunge subito un altro, due pagine dopo: in entrambi i casi si tratta di giudici, veri e propri “cadaveri eccellenti”, come li avrebbe definiti Francesco Rosi intitolando così il film tratto da questa storia. Dell’inchiesta viene incaricato un ispettore che l’inquisizione ce l’ha radicata fin nel nome, Rogas, persona con «dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva». E lo spunto di partenza è in fondo proprio questo: come potrà procedere un’indagine degna di questo nome in «un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava»? Questo Rogas, per un verso, presenta alcuni cliché tipici del detective da romanzo poliziesco («come ogni investigatore che si rispetti, che abbia cioè di se stesso quel rispetto che vuole poi riscuotere dai lettori, Rogas viveva solo; né c’erano donne nella sua vita», osserva Sciascia, quasi abbattendo la quarta parete, come farà altre volte in corso d’opera), ma per altri aspetti è un inquirente anomalo, uno che ragiona ad ampie volute sulle cose del mondo e che lavora ai propri rapporti con una cura tale da renderli incomprensibili ai burocrati chiamati a protocollarli, al punto da apparire ai loro occhi, ovviamente con discredito, come una specie di intellettuale (ed anche se Sciascia non poteva ovviamente immaginarselo, viene subito in mente Giovanni Falcone – magistrato, sì, ma prima ancora antropologo del fenomeno mafioso, ed anche lui spesso schernito per questa sua pretesa). Così, quando, pur in presenza di un’ipotesi promettente, dai piani alti gli viene chiesto di indirizzare invece le sue ricerche sull’immancabile pista anarchica (ricordo che all’epoca Valpreda stava ancora in carcere), Rogas capisce che il problema è ben più grosso di quanto s’era immaginato e che alla fine il sospettato numero uno, posto che sia il vero colpevole dei delitti, sarebbe comunque il meno colpevole di tutti gli altri attori coinvolti nella vicenda.
A illuminarlo in tal senso è anche un confronto con il presidente Riches, ordinario di diritto e primo giudice di una qualche alta corte, il quale formula una compiuta teoria filosofica secondo cui l’errore giudiziario non è per definizione possibile, poiché compito della giustizia non sarebbe – dice lui - quello di verificare un’eventuale colpa, bensì di determinarla, in analogia con quanto accade nella celebrazione eucaristica, quando, al momento della consacrazione, la formula pronunciata dal sacerdote, foss’anche indegnissimo, trasforma realmente il pane e il vino nel corpo e sangue di Cristo. «Perseguire il colpevole, i colpevoli, è impossibile; praticamente impossibile, tecnicamente», così come non si possono esibire «prove oggettive» di nessun reato: anche se, da Voltaire in poi, andiamo raccontandoci che l’esercizio della giustizia consisterebbe nell’individuare le responsabilità personali di ognuno rispetto a un determinato codice di leggi, le cose starebbero ben diversamente. «La giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra», e come in guerra non cade chi se lo merita, ma semplicemente chi è meno fortunato, così i colpevoli non sono tali perché abbiano effettivamente compiuto qualche misfatto, ma semplicemente perché rientra fra le prerogative essenziali del potere imporre che vi sia un colpevole e indicare chi lo sia. In ciò consiste l’«ingresso di dio nel mondo. Il solo ingresso che il mondo consente a dio». Anziché essere il baluardo estremo opposto alla pura forza, il diritto non sarebbe perciò altro che la versione civilizzata dell’atavico sacrificio rituale.
Quel di cui si accorge Rogas, man mano che procede nella sua indagine, è dunque che «dentro il problema di una serie di crimini che per ufficio, per professione, si sentiva tenuto a risolvere, ad assicurarne l’autore alla legge se non alla giustizia, un altro ne era insorto, sommamente criminale nella specie, come crimine contemplato nei principi fondamentali dello Stato, ma da risolvere al di fuori del suo ufficio, contro il suo ufficio. In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo. Ma era in detenzione anche lui: non poteva che tentare di aprire una crepa nel muro». Che fare, cioè, quando è lo Stato stesso - l’istanza suprema che dovrebbe garantire l’ordine attraverso il rispetto delle leggi - ad assicurare, invece, quell’ordine tramite l’esercizio sistematico dell’illegalità? Occorrerebbe che lo Stato si facesse guerra da solo, ma, com’è noto, persino Satana, se si ribella contro se stesso, non può restare in piedi ed il suo tempo ormai è finito. Molto meglio eliminare i magistrati che si avventurano donchisciottescamente nelle zona d’ombra che tali devono restare – e già che ci siamo cogliere l’occasione per far fuori pure qualcun altro, così da sollecitare la consueta caciara funzionale al mantenimento dello status quo.
Ricordo di aver letto qualcosa di simile in un libro del giudice Rosario Priore, là dove questi affermava, a commento delle sue inconcludenti indagini su Ustica, che esiste una sfera d’azione in cui ne va dello Stato stesso e alla quale perciò non sono applicabili le consuete norme giuridiche, ma di cui si può solo tentare una ricostruzione storica (e c’è forse un’eco di tutto ciò anche nel monologo che Sorrentino fa fare al suo Andreotti nel Divo). Solo che per Sciascia hai un bel chiamarla ragion di Stato o scomodare l’Altissimo: dal suo punto di vista, ciò che in questo modo spregiudicato verrebbe difeso non sarebbe in fin dei conti nient’altro che il mero esercizio del potere da parte di chi esercita il potere per il puro fine di esercitare il potere. Dove, però – e credo che questo sia stato, all’epoca, il boccone più indigesto da mandar giù per una parte del suo pubblico – tale potere è per lui una metastasi talmente ramificata da coinvolgere nella sua concreta gestione tanto il legittimo detentore, quanto il sedicente oppositore. Il ministro può così affermare, dando di gomito, che «il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale» (e tanti saluti al compromesso storico), anche se Amar, il leader dei rivoluzionari, «sa benissimo che io su quella poltrona ci sto meglio di lui; e ci sto meglio nel senso che tutti stanno meglio mentre ci sto io, il signor Amar compreso». D’altra parte, il funzionario di quello stesso Partito Rivoluzionario, quando, con il suo aiuto, tutto verrà insabbiato, concluderà: «siamo realisti (…). Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione. (…) Non in questo momento».
Quanto ai contestatori extraparlamentari, che in teoria sarebbero immuni da questi maneggi, c’è assai poco da sperare in loro – e la mente torna nuovamente a Pasolini, questa volta al cantore di Valle Giulia, i cui versi riecheggiano in una poesia attribuita, nel romanzo, allo scrittore Nocio: «con arroganza ripetete a memoria / quel che non sapete / idee-spray schiuma di vecchie e nuove idee / (più vecchie che nuove) / che le vostre labbra squagliano e sbavano / come appena ieri in braccio alla mamma / - la mamma la mamma - / il gelato alla crema. E colano / dalle vostre barbe di protomartiri / coltivata impostura / finzione di una maturità che vi faccia / uguali al padre e idonei dunque all’incesto», eccetera eccetera. Questi sedicenti ribelli non sono altro che «dei cattolici vecchi, fanatici, funerari», che hanno riscoperto l’indice dei libri proibiti proprio nel momento in cui la chiesa lo sta riponendo nell’armadio. Anzi, «che peccato che la chiesa cattolica abbia tanta fretta di adeguarsi ai tempi: se si arroccasse, se tornasse ad essere chiusa e feroce come ai tempi di Filippo II, dell’inquisizione, della controriforma, costoro correrebbero dentro a sciami. Proibire, inquisire, punire: ecco quello che vogliono!». Oh che fastidio, per dispregio verso gli apparati, ritrovarsi schierati dalla stessa parte di questi minchioni!
«Robespierre che non aveva la barba / ride di voi della vostra rivoluzione». Eppure – ecco la sibillina profezia contenuta in questo libro – una rivoluzione ci sarà, anche se non saranno loro a farla. Lo Stato borghese sembra avere avuto fin qui una capacità di resistenza quasi inesauribile, ma sarà davvero così per sempre? Oppure lo squallido contesto messo qui in scena non è che il brodo di coltura di qualcosa di terribile che nessuno s’aspetta e che, quando diventerà operativo - e forse lo è già diventato - sarà comunque troppo tardi per essere fermato?
(finito il 29 luglio 2021)
Ho parlato di
Il contesto. Una parodia
(Adelphi 2006)
114 p. | 10 €
(ed. or.: 1971)
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