giovedì 2 febbraio 2023

Neanche gli dei

Non ci avrei creduto neanch’io, se non l’avessi verificato in prima persona, ma pare proprio che fino all’inizio degli anni ‘70 nessuno abbia mai pensato di assegnare ad Isaac Asimov un premio per il miglior racconto o romanzo fantascientifico dell’anno – a lui, che la fantascienza non dico l’abbia inventata, ma è fra quelli che più ha contribuito a definirla e a renderla matura, guadagnandosi credito anche al di fuori della cerchia ristretta dei nerds e degli appassionati. Il problema è che, a quella data, già da più di un decennio Asimov aveva quasi abbandonato il genere per dedicarsi prevalentemente alla divulgazione scientifica, cosicché quella negligenza rischiava di diventare vergognosamente definitiva, appena mitigata dalla scelta di attribuire una sorta di "Hugo onorario" per la miglior saga di tutti i tempi al suo ciclo della Fondazione, nel '66. Sarà forse stato anche un po’ per questo che, quando nel 1972 il nostro è tornato alla letteratura – dice lui, per togliersi lo sfizio di raccontare una storia su un isotopo che non può esistere in natura e sconfessare così simpaticamente l’amico Bob Silverberg in seguito a una discussione avuta con lui a una convention – l’industria editoriale pensò bene di conferirgli per sicurezza quell’anno tutti e tre i principali premi allora esistenti, ossia l’Hugo, il Nebula e il Locus (che è come dire, per un regista, vincere per lo stesso film l’Oscar, il Golden Globe e la Palma d’oro al Festival di Cannes). A quel punto Asimov poteva davvero fare quello che voleva: non solo scrivere un romanzo per il gusto di togliersi un capriccio scientifico, ma anche farlo cominciare dal capitolo sesto, anziché dal primo, e dotarlo di una struttura complessa, suddivisa in tre parti nettamente distinte l’una dall’altra, con personaggi e ambientazioni diverse, sebbene legate fra loro da un comune filo conduttore (per cui, a tutti gli effetti, si tratta appunto di un’unica storia e non di tre distinti racconti). Il risultato è però tutt’altro che posticcio, ed anzi, letto a distanza di cinquant’anni, il libro acquista, se possibile, una vitalità ancora maggiore.

Tutto ciò, però, è assai poco rassicurante, se si considera che il titolo scelto da Asimov è un’allusione all’espressione schilleriana “contro la stupidità umana neanche gli dei possono nulla” – che è più o meno quello che tutti abbiamo pensato dopo aver visto un film come Dont’ look up. Il tema, del resto, è affine. Asimov immagina che l’umanità scopra per caso una fonte di energia pulita e apparentemente infinita, quando alcuni scienziati si imbattono in un campione di plutonio 186, che secondo le leggi fisiche del nostro universo non potrebbe esistere, e ipotizzano che provenga da un universo parallelo, “scambiato” con un analogo campione di tungsteno 186, che si presume abbia proprietà speculari (sia cioè stabile da noi, ma instabile da loro). Sottoposti alle leggi dell’universo in cui finiscono, i due materiali decadono, rispettivamente, l’uno nell’altro, innescando un meccanismo che lascio spiegare direttamente a lui: «il plutonio/tungsteno può compiere il suo ciclo all’infinito, avanti e indietro dal nostro universo al para-universo liberando energia prima nell’uno e poi nell’altro. Il risultato totale è il trasferimento di venti elettroni dal nostro universo al loro per ogni nucleo circolante, ma entrambi ricavano energia da quella che è, in realtà, una Pompa Elettronica inter-universale». Sembra la soluzione definitiva a tutti i problemi di approvigionamento energetico mondiale, ma non si può scherzare troppo con le leggi dell’entropia. Non esiste, infatti, una «strada che è in discesa nei due sensi». Qualcuno comincia allora a farsi domande inopportune e si allarma, perché capisce che questo continuo interscambio di materia tra i due universi potrebbe portare a una progressiva alterazione delle forze fondamentali del cosmo. La conseguenza è che a un certo punto il sole stesso potrebbe smettere di “funzionare”, con effetti facilmente immaginabili per l’umanità. Ma chi mai ha rinunciato alla propria gallina dalle uova d’oro perché messo in guardia da un’allarmata Cassandra? Tanto più se la catastrofe, posto che davvero ci sia, riguarderà qualche lontana generazione futura (“Perchè dovrei preoccuparmi dei posteri? Che mai hanno fatto i posteri per me?” diceva già Groucho Marx. E comunque i posteri oggi non votano). Da cui, appunto, l’amara conclusione: «è scoraggiante, davvero, la stupidità umana! Credo che non me la prenderei tanto se l’umanità si suicidasse a causa della sua crudeltà o anche solo per la sua temerarietà e imprudenza. Ma è così maledettamente poco dignitoso andare incontro alla distruzione per pura ottusità o stupidità! A cosa serve essere uomini, se poi si deve morire a questo modo?». Alla fine le leggi fondamentali della stupidità umana si rivelano insomma assai più forti di quelle della robotica.

Si dirà che – idea di partenza a parte – suona ormai tutto tristemente prevedibile (anche se più per colpa nostra che per colpa dell’autore). Ciò che non lo è affatto è la seconda parte del romanzo, che con uno stacco abbastanza netto ci proietta direttamente nel para-universo con cui siamo entrati in contatto, dei cui abitanti Asimov si diverte a descrivere, con sguardo etologico, la natura radicalmente aliena, sia sul piano fisico che comportamentale, riservandosi anche un gustoso colpo di scena finale. Questa sezione è ricca di dettagli e di finezze che meriterebbero più attente considerazioni, ma me ne resta solo un confuso ricordo. Mannaggia a me e al mio pudore che mi ha trattenuto dall’usare, in spiaggia, la mia solita matitina per riempire il libro di segni e sottolineature, senza l’aiuto dei quali un libro già letto diventa ostile e silente. Mi toccherà rileggerlo in una prossima estate, sempre che la stupidità umana non faccia finire il mondo prima.

(finito il 14 luglio 2021)

Ho parlato di


Isaac Asimov
Neanche gli dei
(Mondadori 2021)

(Urania collezione 222)

Trad. di B. Della Frattina

284 pp. | 6,90 €

(ed. or.: The Gods Themselves, 1972)


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