Benché fossimo ancora immersi in pieno tripudio mariodraghista, subodorando che sarebbe potuta finire come poi è effettivamente andata a finire, e sapendo che, non appena si ritornano a evocare certi temi, salta immancabilmente fuori qualcuno che ti ingiunge di andarti a leggere De Felice, se vuoi davvero capirne qualcosa, anziché quei manuali veteromarxisti che ci hanno fatto studiare e che continuiamo a fare studiare a scuola, a un certo punto mi son detto che dopotutto forse De Felice valeva davvero la pena andarselo a leggere, se non altro per avere qualcosa da replicare a quelli che, evocandolo, sperano in realtà di troncare così il discorso, perché tanto chi vuoi che se la sia letta per davvero tutta la sua immensa biografia di Mussolini? E allora sotto col primo volume, affrontato con lo sguardo oserei dire candido di chi vorrebbe capire cosa ci sia mai lì dentro di così sconvolgente da poter suscitare folgoranti conversioni sulla via di Damasco - e dal quale sono uscito anzitutto con tantissime conoscenze in più, perché la messe è indubbiamente molta, ma ancor più con l’impressione che, almeno da queste prime seicento pagine, il moderno camerata non è che possa ricavare chissà quanto materiale per giustificare la sua venerazione per il Duce. Anzi. Però ora sono io che posso dire: questo lo scrive pure De Felice.
Il fatto che il tomo sia dedicato agli anni di apprendistato di Mussolini e la scelta metodologica di seguire passo passo gli spostamenti, geografici e ideologici, di quello che fu, a tutti gli effetti, un irregolare ci immettono praticamente nelle atmosfere di un romanzo senza che si dovesse attendere quello di Scurati. Al netto degli aneddoti più o meno curiosi (fra cui il mio preferito è forse quello del giovane maestro Mussolini che, assegnato alla scuola di Tolmezzo, non trova modo migliore per passare il tempo che travestirsi da fantasma e fare gli scherzi di notte nei cimiteri, perché di base è un romagnolo cazzone), ritornano tuttavia insistentemente osservazioni e commenti che, come pennellate ricorsive, consentono all’autore di delineare i tratti di un profilo umano e caratteriale ben definito. Studente assolutamente normale, che «non lasciava minimamente prevedere un grande avvenire», il giovane Benito è tuttavia precocemente animato da un desiderio di evasione «dal paese natio e dalla vita di tutti i giorni», che tornerà a manifestarsi più volte, quando le cose si sarebbero fatte incerte (ancora nel ‘19, dopo il disastro elettorale della lista fascista, avrebbe espresso il desiderio di buttare tutto a mare e «girare il mondo col mio violino: magnifico mestiere, il rapsodo errante!»; così come nei giorni concitati in cui D’Annunzio è a Fiume si informa su come potersi aggregare da giornalista al raid aereo Roma-Tokyo...). Il fatto è che «la sicurezza di sé, la convinzione di essere diverso dai suoi simili, lo rendevano incapace di rendersi conto delle difficoltà della vita e di vivere e di lavorare come uno qualunque, modestamente, e gli facevano rigettare la responsabilità dei suoi insuccessi e delle sue difficoltà sugli altri». Come accadrà anche per Hitler, la posa da superuomo è una bolla gonfia di puro risentimento: è proprio vero che, a volte, basta una persona che si monta la testa per far finire la festa. Perciò, se ai tempi della sua prima fuga in Svizzera (quella che gli riuscì meglio), Mussolini cominciò a farsi un nome negli ambienti socialisti, fu in sostanza perché, «psicologicamente incapace ad affrontare, come tante migliaia di altri emigranti, una modesta e dura attività di lavoro», sfruttò il fatto di avere un diploma per diventare un agitatore politico. Per lui la politica era in primo luogo «una maniera per sbarcare il lunario, per avere una certa autonomia e libertà – che un lavoro fisso gli avrebbe impedito di avere». Quali idee avesse in testa non lo sapeva bene neanche lui, ma un talento innato per fiutare l’aria che tira, quello non glielo si può negare: coniando sin da allora lo slogan “noi non abbiamo formule” - perché restare fermi su un dogma è la morte dello spirito, che deve invece perennemente muoversi, noncurante del principio di non contraddizione – trovò il modo di agghindare il proprio spaesamento con ornamenti filosofici allora à la page che gli consentiranno oltretutto di tenersi le mani libere per qualsiasi repentino cambio di rotta avessero richiesto le circostanze.
Mi si dirà che non si può giudicare l’uomo per le oscillazioni e le incertezze avute a vent’anni. Vero, ma la sensazione che resta, leggendo queste pagine, è che un vero e proprio programma di riferimento in realtà Mussolini non ce l’abbia mai avuto neanche a trenta o a quaranta, fuor che un vago nicianesimo concepito come estremo volontarismo e imposizione di se stesso (lo avrebbero già dovuto intuire i suoi compagni di partito, dato che il suo socialismo era tutto idealistico e la rivoluzione, per lui, «prima di tutto, un atto di fede»). Eppure è proprio in questa spregiudicatezza ideologica che sta la chiave del suo successo: se avesse avuto un pensiero più forte, o semplicemente un pensiero forte, probabilmente sarebbe stato travolto dagli eventi. «Mussolini percorse la sua strada passo a passo, giorno per giorno, senza sapere bene oggi cosa avrebbe fatto domani; ma è anche vero che su questa strada egli procedette con la viva consapevolezza dell’uomo politico che se non sapeva dove voleva arrivare sapeva però bene che, nella situazione dell’Italia d’allora, la sua strada non poteva che tracciarsela mantenendosi sempre aderente alla realtà e adeguandosi ad essa». Avendo capito per tempo (e gliene va dato atto) che tutto un mondo era lì lì per crollare, ciò di cui andò in cerca, negli anni turbolenti prima e dopo la Grande guerra, fu sostanzialmente una forza da poter manovrare a suo piacimento per dare la spallata definitiva al vecchio sistema e giocarsi le sue carte in quello nuovo che ne sarebbe venuto fuori. Questo è più o meno anche l’indicazione che ci offre, tra gli altri, uno che Mussolini lo conobbe molto da vicino come Nenni, in un passo che De Felice stesso giudica particolarmente acuto: «plebeo era e pareva volesse restare, ma senza amore per le plebi. Negli operai ai quali parlava non vedeva dei fratelli, ma una forza, un mezzo del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo».
Presentatosi perciò come rottamatore del gruppo dirigente socialista, una volta svanita la possibilità di diventare una sorta di Lenin italiano e fallito il progetto di portare il partito sulle sue posizioni, Mussolini decise che la rivoluzione l’avrebbe allora fatta a modo suo. E qui la sua intuizione probabilmente più geniale e moderna fu quella di utilizzare il suo giornale per crearsi un suo pubblico - come altri avrebbero poi fatto impiegando blog e televisioni - inebriandolo con un linguaggio perennemente antinconvenzionale e sopra le righe. «Si può dire che lo stesso Mussolini ad un certo punto si trovò ad essere uno dei grandi protagonisti della ribalta italiana quasi senza accorgersene, per successivi adeguamenti, per successivi compromessi. Giornalista appassionato e ormai giunto a piena maturità, aveva dato vita ai Fasci, aveva assunto certe posizioni soprattutto per portare avanti l’“azienda” e, in definitiva, per “farsi una cuccia”; ad un certo momento si trovò alla testa di un movimento politico che aveva tirato su giorno per giorno con i suoi articoli (un misto di conformismo, di “fiuto”, di spregiudicatezza, di provocazione) e che improvvisamente gli si rivelò grande a condizione di seguirne la logica e di considerarlo la sua vera “azienda”». Solo quando questo capo in cerca di adepti incontrò un movimento in cerca di un capo quale fu lo squadrismo agrario – solo allora, conclude De Felice, nacque il «vero fascismo». Di nuovo, però, il talento di Mussolini non si misura nella capacità di elaborare una visione, quanto nell’abilità con cui, sposata la causa della reazione, riuscì a non esserne solo uno degli strumenti (come auspicato forse da alcuni), ma a «diventarne il fulcro, facendo degli altri il proprio strumento; cavalcare insomma, come si suol dire, la tigre e non esserne solo uno dei tanti denti di cui si può benissimo fare anche a meno al momento opportuno. E in questa lotta per la sopravvivenza Mussolini fu veramente maestro». Ennesima conferma che spesso a fare la storia sono quelli che si ritrovano col campo libero perchè quanti la storia pensano di averla perfettamente capita non li vedono proprio arrivare.
(finito il 30 luglio 2021)
Ho parlato di
Mussolini il rivoluzionario
(1883-1920)
(Einaudi 1965)
774 p. | ??? lire
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